La trappola di Annapolis

*Direttore di Contropiano, co-fondatore del Forum Palestina

Le responsabilità di quanto accaduto nella involuzione della “questione palestinese” pesano enormemente sulla cosiddetta “comunità internazionale” e, in modo particolare, sull’Unione Europea (compreso il governo italiano), che ha assecondato la politica di strangolamento dei palestinesi voluta da USA e Israele. Aver contribuito con l’embargo ad affamare la popolazione e a demolire quel minimo di struttura statale nei Territori Palestinesi – assecondando l’assedio di Arafat prima e la delegittimazione del governo palestinese poi, sistematicamente perseguiti da Israele – ha prodotto quella “africanizzazione” della realtà palestinese che ha aperto la strada alla ingovernabilità di Gaza. Il degrado, la miseria, l’assedio hanno prodotto l’autonomizzazione di gruppi e clan che hanno sostituito le istituzioni nella soluzione dei problemi della vita quotidiana di quasi un milione di persone rinchiuse in quella prigione a cielo aperto che è Gaza. La cinica ostinazione con cui Unione Europea e Stati Uniti hanno impedito al governo palestinese, democraticamente eletto, di fare fronte alle esigenze della popolazione, ha volutamente mirato a questo risultato.

LA DIVISIONE NEL CAMPO PALESTINESE

L’attuale frammentazione dello scenario politico palestinese spazza via definitivamente l’inganno e le ambiguità del processo negoziale di Oslo e il conseguente ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), attraverso la quale si è cercato di liquidare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come organismo unitario della lotta di liberazione palestinese, rappresentativo sia della popolazione dei Territori Occupati che dei milioni di palestinesi della diaspora e del loro diritto al ritorno. In questo processo, non possiamo nascondere che le responsabilità principali sono di Al Fatah, che è stata la maggiore organizzazione e la fondatrice dell’OLP ma che si è prestata a tale operazione. Nonostante le pressanti richieste dei suoi militanti migliori, a partire dai dirigenti detenuti nelle carceri israeliane, la mancata autoriforma interna di Al Fatah, che non ha più convocato il suo congresso, non ha orientato i suoi militanti e soprattutto non ha voluto fare piazza pulita dei corrotti e dei collaborazionisti filo-israeliani al suo interno, hanno portato ad una crisi di credibilità profonda e per molti versi irreversibile. Nella specifica situazione di Gaza, la decisione di Abu Mazen e di Al Fatah di forzare la mano, cercando di affidare la sicurezza della Striscia ad un personaggio inviso come Mohammed Dahlan, è stata una scelta sciagurata che ha privilegiato l’idea di sostituire una credibilità perduta con manipoli di uomini armati e finanziati da USA, Egitto e Israele. Questa decisione ha legittimato e scatenato la reazione delle correnti più estreme di Hamas, che hanno avuto gioco facile nella contrapposizione politica, morale e militare con Al Fatah a Gaza, dove il suo volto era rappresentato da personaggi come Dahlan, il cui ruolo di collaborazionista, torturatore e corrotto speculatore non era e non è sconosciuto a nessuno.

LA SINISTRA PALESTINESE SCHIACCIATA DALLA POLARIZZAZIONE TRA AL FATAH E HAMAS

Il reciproco colpo di mano a Gaza (Al Fatah verso Hamas e poi Hamas verso Al Fatah) ha provocato una lacerazione profonda e una polarizzazione spesso sanguinosa che rischia di schiacciare le organizzazioni della sinistra palestinese, le quali stanno cercando di svolgere un ruolo di ricomposizione dell’intero movimento di liberazione pur non risparmiando critiche alle due formazioni maggiori. Indicativo è il passaggio di una recente intervista rilasciata da Maher Altaher, dirigente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina: “Senza dubbio Hamas ha commesso un torto nei confronti del movimento nazionale palestinese. Senz’altro concordiamo politica – mente con Hamas su molte questioni però, e parallelamente a questo, sono nate delle discordie tra noi e loro quando questi ultimi hanno deciso per una soluzione militare a Gaza. Noi nel FPLP abbiamo detto con molta chiarezza e continuiamo a ribadire il rifiuto e la con – danna della violenza armata per risolvere le discordie interne alla società palestinese. Ciò che è accaduto è molto grave e ha dato un colpo molto doloroso alla nostra lotta, permettendo le ingerenze straniere e la separazione tra Gaza e Cisgiordania. Questa è la principale causa di discordia con Hamas. Dall’altra parte abbiamo rifiutato e con – dannato tutti i decreti del presidente dell’ANP, come impedire la resistenza all’occupazione, la formazione di un governo di crisi e la richiesta ai gruppi armati in Cisgiordania occupata di deporre le armi. La nostra posizione come FPLP di fronte a questa situazione è di instaurare un dialogo tra tutte le forze politiche che compongono il panorama palestinese”. Un documento congiunto di cinque organizzazioni della resistenza palestinese (FPLP, FDLP, FIDA, PPP, INP), ha cercato di indicare un percorso possibile di ricomposizione del fronte palestinese sottolineando che “l’obiettivo vero della politica americana ed israeliana è quello di sfruttare la situazione della divisione in – terna palestinese e tutta la debolezza che ne consegue per ricattare tutte le parti in causa ed ottenere compromessi. Per questo le forze riunite affermano che per affrontare i rischi dell’invito americano non vanno mai fatti passi che aggravino la divisione interna così come i tentativi di trovare alternative all’OLP. In questo contesto, noi firmatari, ribadiamo l’invito a Hamas a tornare sui suoi passi del colpo militare e violazione della democrazia e chiediamo che ponga fine all’anomalia separatista a Gaza e di tornare sotto il quadro legittimo. Le forze invitano anche a rimuovere tutti gli ostacoli che si oppongono ad un dialogo nazionale completo che conduca ad una soluzione pacifica e democratica alla crisi interna sulla base del documento d’accordo nazionale e della dichiarazione del Cairo… come prevenzione per i possibili rischi. C’e bisogno di una partecipazione collettiva per amministrare il processo dei negoziati, con la partecipazione attiva di tutte le forze palestinesi interessate e con il completo svolgimento del ruolo del – l’esecutivo dell’OLP di leadership nell’orientare la mobilizzazione politica e designare le sue strategie”. Il problema è che l’ANP ha deciso di procedere sulla strada di un negoziato a perdere con gli israeliani e sotto la esclusiva tutela degli Stati Uniti. Il vertice di Annapolis ha confermato infatti le previsioni peggiori.

LA TRAPPOLA DEL VERTICE DI ANNAPOLIS

Il vertice di Annapolis è stato seguito, due giorni dopo, dalla presentazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una risoluzione elaborata dagli USA, poi precipitosamente ritirata (coprendosi di ridicolo) perché – secondo le autorità israeliane – avrebbe dato un ruolo eccessivo alle Nazioni Unite nella gestione dei risultati del vertice. Da questo si desume che Annapolis può rivelarsi la “trappola” che molti – in Palestina e al di fuori – avevano denunciato con largo anticipo. Il breve documento di Bush letto davanti ai giornalisti a conclusione del vertice, come ha sottolineato giustamente Michelangelo Cocco, ha di fatto “mandato in soffitta” la questione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi. La sostanza della riaffermazione di Bush su Israele come “stato del popolo ebraico”, da un lato ipoteca definitivamente la questione del ritorno dei profughi palestinesi cacciati dagli israeliani nel 1948, dall’altro accoglie il punto nodale posto dalle autorità israeliane alla delegazione palestinese per la ripresa dei colloqui e che i palestinesi – lo stesso Abu Mazen – non aveva potuto accettare nell’incontro all’Hotel King David a metà novembre che ha preceduto il vertice di Annapolis. I palestinesi volevano far uscire da Annapolis un documento congiunto più impegnativo sulla calendarizzazione del negoziato, gli israeliani solo una dichiarazione di intenti generica. La mediazione – un “onorevole punto di mezzo” l’ha definita Ugo Tramballi – è una dichiarazione che indica alcune date: la prima riunione del comitato congiunto il prossimo 12 dicembre, la volontà di arrivare ad un accordo di pace entro il 2008 (praticamente in coincidenza con la fine del mandato di Bush), incontri bilaterali tra Olmert e Abu Mazen ogni quindici giorni per verificare lo stato di avanzamento dei negoziati. Ma la cosa più inquietante della dichiarazione congiunta sono le ultime nove righe. In essa viene citata ben cinque volte la Road Map come documento vincolante per il processo negoziale e per ben tre volte la supremazia del ruolo degli Stati Uniti su tutto il processo negoziale. Qui si apre una questione spinosa e pericolosa. Come è noto la Road Map è un documento elaborato da Elliot Abrams, uno dei consiglieri di Bush più legato all’ambiente dei “likudznik”, che prevedeva un calendario negoziale tra israeliani e palestinesi e fatto poi assumere come proprio dal Quartetto (USA, ONU, Unione Europea, Russia) e presentata da Bush all’ONU il 2 maggio 2003. Se si va a guardare la Road Map, essa prevede una serie di obblighi preliminari per i palestinesi sul piano della sicurezza che – di fatto – deve portare allo smantellamento delle organizzazioni della resistenza e al disarmo di tutti i gruppi palestinesi impegnati nella lotta contro l’occupazione israeliana. Nei Territori Occupati è in arrivo un altro generale statunitense. Si tratta di James Jones, ex comandante supremo della NATO in Europa. Il gen. Jones affiancherà un altro generale USA (Dayton, quello che aveva spinto settori di Al Fatah per il colpo di mano contro Hamas) già impegnato nel «ricostruire le strutture di sicurezza palestinesi». Si tratta del piano per disarmare tutti i bracci armati dei partiti palestinesi e organizzare un’unica forza di sicurezza, alle dipendenze di un’ANP, che collabori con Washington e Tel Aviv. Su questo ha ragione da vendere Michele Giorgio quando sostiene che “L’ostacolo sul quale rischia di sbattere subito il negoziato che nascerà dai colloqui di Annapolis è l’applicazione della prima fase della Road Map, l’«itinerario di pace» sponsorizzato dal Quartetto, che impone ai palestinesi di lottare contro il «terrorismo» e di smantellare le organizzazioni armate che com – battono l’occupazione. La Road Map è la trappola alla quale Abu Mazen difficilmente potrà sfuggire”. Olmert ha ribadito anche recentemente la sua interpretazione della Road Map: nessun accordo di pace fino a quando i palestinesi non avranno disarmato le loro milizie. La brutale repressione in Cisgiordania contro le manifestazioni di critica alla partecipazione dell’ANP al vertice di Annapolis e ancora prima gli attacchi della polizia e delle forze di sicurezza dell’ANP contro i militanti delle Brigate Al’ Mustafa (Fronte Popolare) e delle stesse Brigate Al Aqsa (Al Fatah) nei giorni precedenti Annapolis, da un lato non sono affatto di buon auspicio e dall’altro indicano quale potrebbe essere la linea di condotta che “lo spirito di Annapolis” determinerà nel gruppo dirigente di Abu Mazen e dell’ANP. Certo, il Ministro degli Interni palestinese Abdel Razak ha poi chiesto scusa per il comportamento della polizia contro le manifestazioni e i giornalisti, ma questo rischio esiste e non riguarda più solo lo scontro con Hamas ma anche contro le organizzazioni della sinistra palestinese (che pure hanno condannato l’azione di Hamas a Gaza) e settori della stessa Al Fatah.

IL SILENZIO-ASSENSO DEI REGIMI ARABI PER LA GUERRA CONTRO L’IRAN

Mentre Bush, Olmert e Abu Mazen cercavano di raggiungere un accordo e un testo da presentare ai giornalisti e ai diplomatici convenuti ad Annapolis, il segretario di Stato USA, Rice si riuniva con i 40 ministri degli esteri e diplomatici dei paesi arabi e occidentali invitati e convenuti ad Annapolis. La Rice e l’amministrazione Bush hanno capitalizzato così alcuni risultati:

1) la partecipazione della Siria, attratta dall’idea dell’avvio di un negoziato anche sulle alture del Golan occupate da Israele nel 1967. Bush non ha fatto pubblicamente alcun cenno a questa ipotesi, al contrario nel suo discorso ha rammentato le minacce alla stabilità del Libano con un chiaro riferimento a Damasco, ma fonti ufficiose parlano di un prossimo vertice a Mosca in cui – forse – si comincerà a discutere con Israele anche del Golan. Nel primo commento ufficiale di Damasco dopo la conferenza di Annapolis, il portavoce dell’ambasciata a Washington, Ahmed Salkini, si è mostrato ottimista: “Abbiamo compiuto un passo riaprendo la questione, l’obiettivo della Siria per una pace complessiva in Medio Oriente è stata sollevata dai protagonisti della Conferenza e ora la porta è aperta per ulteriori incontri internazionali per discu – tere del Golan”. Secondo il quotidiano israeliano “Maariv”, la Russia sta mediando tra Israele e la Siria: il viceministro degli Esteri, Alexander Sultanov, avrebbe avanzato una proposta che restituirebbe alla Siria la sovranità sulle alture del Golan lasciandone pero’ il controllo a Israele per un certo numero di anni. Anche la “mediazione” raggiunta in Libano con la candidatura del gen. Suleiman alla contestata presidenza della repubblica sembra essere un effetto distensivo della partecipazione siriana al vertice di Annapolis. La Siria sembra quindi essere tornata al “pragmatismo” della genìa Assad, che ha una cura particolarissima dei propri interessi specifici. I primi a pagarne il prezzo potrebbero essere i rappresentanti delle organizzazioni della resistenza palestinesi attualmente rifugiati a Damasco che verrebbero espulsi. Ma il prezzo più pesante in termini geopolitica è la rottura dell’alleanza tra Siria e Iran esistita fino ad ora.

2) La presenza di tutti gli stati della Lega Araba all’incontro di Annapolis e al vertice con Condoleeza Rice vedeva un convitato di pietra: l’Iran. Il governo di Teheran è stato l’unico a tuonare contro il vertice di Annapolis intuendo che lì si stava preparando una sorta di semaforo verde all’intervento militare USAIsraele contro l’Iran sulla base del silenzio-assenso dei paesi arabi presenti. Questi ultimi sembrano tornati allo “spirito dell’80”, quando finanziarono e sostennero militarmente l’Iraq di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeyni durante una sanguinosa guerra per commissione che durò ben otto anni. Ufficialmente il “timore” delle petromonarchie e dei paesi arabi moderati cerca di rinvigorire il secolare contrasto tra sunniti e sciiti che divide da secoli il mondo islamico. In realtà temono che la tenuta dell’Iran in antagonismo a USA e Israele possa provocare un onda lunga che – superando le divisioni confessionali – destabilizzi i privilegi, le subalternità e i poteri consolidati di leadership corrotte e screditate in tutto il mondo arabo.

3) L’abilità della Rice e degli Stati Uniti è stata quella di aver fatto intendere chiaramente ai paesi arabi che la minaccia alla stabilità dell’area (e ai loro interessi) non viene da Israele ansiosa di normalizzare al più presto i rapporti con loro ma, piuttosto, viene dall’Iran. ‘’Quello che è importante – ha detto una fonte anonima dello staff di Condoleeza Rice, citata da media americani – è che sono venuti qui e che abbiano capito che la vera minaccia alla stabilità del Medio Oriente comincia con la ‘I’ ma non è Israele, bensi’ un paese che finisce con la ‘N’. Il dopo-Annapolis dell’amministrazione Bush, c’è da scommetterci, sarà dedicato anche a cercare di consolidare i guadagni in chiave anti-iraniana” sottolineava una agenzia al termine del vertice di Annapolis. Più chiaro di così?

PERICOLO DI UN PROGETTO COLONIALE ISRAELIANO

Annapolis può dunque essere definito come un vertice “di pace” che ha preparato l’escalation alla guerra. Prima ce ne rendiamo conto meglio sarà per poter approntare una campagna di verità e di mobilitazione che rimetta al centro il ripudio della guerra e la giustizia per il popolo palestinese. Oggi si affaccia concretamente il rischio che il mondo debba fare i conti con tre Palestine. Esiste cioè il pericolo che il progetto coloniale israeliano si realizzi pienamente con la divisione dei palestinesi tra Gaza, due enclavi simili ai bantustans sudafricani in Cisgiordania e un ghetto sempre più ridotto a Gerusalemme Est e poi la Palestina della diaspora cioè le centinaia di migliaia di profughi rinchiusi nei campi in Libano, in Giordania e in Siria ai quali verrà negato definitivamente il diritto al ritorno previsto dalle stesse risoluzioni dell’ONU. Questa prospettiva viene oggi invocata da tutti i circoli sionisti più aggressivi e non trova proposte alternative da parte della cosiddetta comunità internazionale. La situazione sul campo, se da un lato ipoteca fortemente le prospettive di decenni di lotta di liberazione dei palestinesi, dall’altro sposta in avanti le soluzioni possibili, mettendo fine all’ipocrisia dei “due Stati per due popoli” e ponendo nuovamente alla discussione la prospettiva di “un solo Stato, laico, democratico e multietnico”, fondato sul concetto di cittadinanza piuttosto che su quello di sangue e religione, uno Stato modernamente inteso che ponga fine, almeno in quell’area, all’orrore storico degli stati confessionali ed etnicamente puri.