La tecnocrazia liberista della UE

Il processo di integrazione europea, nonostante un secolare fermento europeista di stampo sociale e pacifista che puntava a realizzare un incisivo progetto politico, fu avviato sulla spinta di un impulso esogeno – quello americano – che lo ha orientato, sin dall’origine, in senso liberista.

UN PROCESSO DI INTEGRAZIONE IN CHIAVE LIBERISTA

Le classi dirigenti europee – fin dall’immediato dopoguerra – hanno concepito il suddetto processo in chiave liberista e l’hanno utilizzato – specie dagli anni Ottanta – per conformare gli assetti istituzionali ed economici degli Stati membri alle esigenze di “un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”. L’Unione europea è stata costruita come una realtà puramente economica caratterizzata dall’«egemonia delle cifre» e dall’«ossessione del calcolo», cui sfugge la sfera dell’esistenza reale delle classi popolari e medie. Le astrazioni della teoria “monetarista” sono state inscritte sul frontespizio dei trattati comunitari e sono state varate, sulla base delle prescrizioni rigide della BCE, politiche deflazionistiche imperniate sulla privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici e sulla precarietà dei rapporti di lavoro. Non è un caso, quindi, che l’ostilità delle popolazioni verso i vincoli antisociali imposti dai trattati comunitari sia sfociata negli esiti negativi dei referendum francese, olandese e irlandese. I cittadini hanno manifestato – ogni qual volta sono stati chiamati a pronunciarsi sulle tappe del processo di integrazione – avversione o indifferenza per una costruzione europea ridotta a luogo stantio di intese politiche fra esecutivi e poteri economico-finanziari e a variabile dipendente di un’economia di mercato assunta come «matrice unica e performativa di ogni ambito della vita sociale» [De Fiores, p. 62 sgg.].

L’EUROPA E LA CRISI ECONOMICA

Le politiche improntate al rigore monetario e di bilancio sono avvertite vieppiù insostenibili nella fase attuale, contrassegnata da una grave crisi economica e sociale. Negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo, si è assistito – per oltre un trentennio – all’incremento dei profitti degli oligopoli finanziari ed industriali e, nel contempo, alla crescita del tasso di sfruttamento del lavoro che, riducendo la capacità d’acquisto della popolazione, ha provocato una crisi di accumulazione. Questa è stata affrontata con la strategia dell’accesso facile al credito, che ha spinto i cittadini a stipulare mutui per l’acquisto delle case o a contrarre debiti per comprare le auto e gli elettrodomestici. Il meccanismo dell’indebitamento di massa ha determinato la “sussunzione” del mondo del lavoro nella finanza, sicché i lavoratori sono stati costretti a lavorare di più e a rinunciare al diritto di sciopero per evitare di precipitare in una condizione di maggiore indigenza. Il crescente squilibrio tra la sovrapproduzione di merci e la scarsa capacità di consumo ha ingenerato un debito enorme, su cui è stato costruito il castello finanziario di carte “tossi- che” che, crollando rovinosamente, ha precluso la possibilità di ricorrere ulteriormente al credito e ha causato, infine, l’insorgere di una crisi sistemica. Gli effetti disastrosi della crisi hanno svelato non solo la fragilità strutturale del mercato dei capitali, ma anche il ruolo contraddittorio che la Banca centrale europea svolge in un sistema economico caratterizzato dalla competizione dei capitali nel mercato globale. Questo ruolo “anfibologico” si pone in contrasto stridente con il compito primario assegnatole dai Trattati (1), ossia la conduzione di una politica monetaria “indipendente” finalizzata a garantire la “stabilità dei prezzi”.

IL RUOLO CONTRADDITTORIO DELLA BCE

La BCE deve usare la cd. leva monetaria (politica di controllo dell’offerta di moneta) per conseguire l’obiettivo istituzionale della stabilità dei prezzi nell’ambito dell’area europea, ma non può non utilizzare, nel corso delle crisi finanziarie internazionali, una serie di strumenti collaudati (immissione di liquidità nei mercati; abbattimento del costo del denaro) per scongiurare il rischio di crolli sistemici. Nelle spire della crisi, questa istituzione possente ha erogato – a dispetto dei suoi principi informatori – somme ingenti per garantire la continuità dei profitti delle imprese finanziarie ed industriali appartenenti al polo geoeconomico europeo, rivelando come essa svolga la funzione di croupier del casinò finanziario globale pronto a fornire liquidità ai giocatori rimasti privi di risorse o di «intellettuale collettivo del capitalismo » proteso a salvaguardare le condizioni dell’accumulazione all’interno dell’area europea. La sua “autonomia” e la sua “indipendenza” risultano massime nei confronti del potere politico, ma assai ridotte nei confronti degli interessi degli oligopoli industriali e finanziari. L’immissione di somme enormi di denaro pubblico nel sistema finanziario ha fornito una rete di protezione ai soggetti responsabili della crisi e ha rivelato la stretta connessione che sussiste tra le istituzioni monetarie e le dinamiche speculative che hanno attirato, nel gioco d’azzardo finanziario, i lavoratori precari e le famiglie con reddito basso.

SOCIALIZZAZIONE DELLE PERDITE, PRIVATIZZAZIONE DEGLI UTILI

Le politiche monetarie ed economiche realizzate nell’ultimo ventennio si sono tradotte, del resto, nel controllo stringente sui salari e sulle pensioni e, parallelamente, nella legittimazione dell’inflazione proveniente dal turbinare vorticoso dei flussi finanziari. L’obiettivo reale perseguito dalle autorità monetarie è stato, dunque, quello di conseguire la deflazione salariale e di proteggere, nel contempo, l’inflazione prodotta dalle rendite finanziarie e immobiliari. La risposta delle istituzioni sovranazionali si è ispirata, insomma, alla filosofia della “socializzazione delle perdite” e della “privatizzazione degli utili”. Il coordinamento comunitario degli interventi anti-crisi ha avuto, inoltre, una valenza esclusivamente “tecnica” e non politico-sociale, sicché gli Stati membri sono stati costretti a fronteggiare la crisi in ordine sparso e con misure dirette, precipuamente, a puntellare le banche e le istituzioni finanziarie. Queste circostanze comprovano che la costruzione europea, in quanto orientata sulle stelle fisse del mercato e della concorrenza, non costituisce uno spazio pubblico-sociale autonomo e indipendente dalle strategie predatorie degli oligopoli finanziari e non dispone degli strumenti di politica economica idonei a proteggere i cittadini-lavoratori dalle crisi cicliche provocate dalla libera circolazione del capitale finanziario (2).

LA CAUSA PRINCIPALE DELLA CRISI UE

La causa principale della crisi dell’Unione europea non può essere individuata, quindi, nel fallimento del “trattato costituzionale”, ma nell’inadeguatezza della logica economicistica che ha informato i Trattati succedutisi per oltre un cinquantennio. L’«esaurimento del modello di integrazione economica europea » caratterizzato dal primato della “economicità” sulla “socialità” si è manifestato, con particolare evidenza, in occasione della «crisi sistemica ed economica» sorta «negli snodi strutturali del sistema produttivo » ed innescata dalla vicenda dei mutui subprime. Lo scoppio della bolla speculativa ed il «tracollo dei mercati finanziari» hanno svelato l’incapacità dell’Unione di intraprendere un’azione adeguata e tempestiva finalizzata a fornire le risposte necessarie alla ripresa economica e a proteggere i paesi più vulnerabili dagli attacchi della speculazione finanziaria e, quindi, dai rischi di default. Il potere pubblico europeo ha dimostrato di non essere in grado di fronteggiare efficacemente gli effetti della crisi, poiché è stato strutturato solo per garantire il controllo dell’«uniformità del modello di costituzione economica di cui è portatore » [Maestro Buelga, p. 30]. Il processo di integrazione europea continua a muoversi lungo le direttrici del Trattato di Maastricht e, pertanto, nell’ambito di un programma politico di forte stampo liberista, la cui realizzazione è affidata all’azione di poteri tecnocratici “indipendenti” e, quindi, politicamente irresponsabili. Gli strumenti e i contenuti della politica monetaria restano quelli definiti nella cittadina belga diciassette anni addietro e gli accordi successivi sulla conduzione della politica economica europea (Patto di stabilità), costituiscono la prosecuzione e l’articolazione del disegno strategico sotteso all’istituzione della UEM.

IL TRATTATO DI LISBONA: CENTRALITA’ DEL MERCATO

Il Trattato di Lisbona (3) non sconfessa, del resto, «la filosofia funzionalistico- comunitaria […] come matrice del concreto processo storico di integrazione europea» [Mortellaro, p. 258] e conferma, in continuità con i trattati precedenti, la centralità di un modello economico imperniato sul mercato e sulla libera concorrenza. L’approccio economico sovrasta gli altri profili dell’integrazione, «ponendosi alla stregua di un metavalore», sicché le modifiche recenti ai trattati istitutivi non offrono alcun contributo alla costruzione di un’Europa conforme alle prospettive democraticosociali proprie del costituzionalismo contemporaneo. Il Trattato di Lisbona ha dovuto rinunciare ad assumere, a seguito della reiezione referendaria francese e olandese, un «carattere costituzionale », ma ha introdotto disposizioni identiche, nella sostanza, a quelle contenute nel progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. I passaggi e i contenuti meno attraenti e, dunque, più criticati – ovvero quelli marcatamente liberisti – sono stati relegati, tuttavia, nei Protocolli, che costituiscono «parte integrante» dei trattati e possiedono «la stessa efficacia» [Algostino, p. 201]. Il «principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza», già recepito nell’art. 4 del TICE, è stato espunto dal novero dei fini contenuto nel nuovo testo dell’art. 3 del TUE (versione consolidata), ma è stato reinserito nel Protocollo n. 27 allegato al Trattato di Lisbona (Protocollo sul mercato interno e sulla concorrenza), il quale ribadisce la centralità del principio della «concorrenza non falsata» e prevede, di conseguenza, che l’Unione possa adottare, per garantire la realizzazione di questo principio, le misure previste dalle «disposizioni dei Trattati, ivi compreso l’art. 352 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea». Il primo comma di questo articolo (art. 352 TFUE vers. cons.; ex art. 380 TCE) prescrive che: «se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati, senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando al – l’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate». La lettura connessa delle disposizioni sopramenzionate consente, quindi, di rilevare la valenza non meramente simbolica degli obiettivi perseguiti dall’Unione e, in specie, di quello relativo alla “concorrenza non falsata” che, pur nascosto nelle parti recondite del Trattato , conserva tutta la sua rilevanza e la sua forza. Il principio dell’“economia di mercato aperta e in libera concorrenza” resta, dunque, «immutato in tutta la sua valenza» e continua a permeare l’intero Trattato, anche se è stato mitigato mediante la formula ambigua dell’«economia sociale di mercato fortemente competitiva » (art. 3 vers. cons.; ex art. 2 del TUE).

LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELLA UE

Le operazioni di cosmesi politicosociale non sono servite, comunque, ad edulcorare le asperità delle prescrizioni monetariste introdotte dal Trattato di Maastricht e ribadite nei trattati successivi. L’anodino catalogo di diritti contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, una volta richiamato nel testo dell’articolo 6 (vers. cons.) del Trattato di Lisbona, è stato incorporato nel contesto istituzionale immodificato delineato dai Trattati precedenti, ossia in un sistema dominato dagli organi tecnocratici preposti al governo della funzione monetaria (SEBC-BCE), che esercitano un forte condizionamento sull’assetto dei bilanci pubblici e, quindi, sul soddisfacimento effettivo dei diritti sociali. Il Trattato di Lisbona ha riconosciuto, nell’art. 6, primo comma, «i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali» e il loro carattere vincolante, ma ha integrato, nel contempo, il catalogo de- gli obiettivi dell’Unione con la disposizione seguente: «l’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro» (art. 3, quarto comma). Le istituzioni e lo strumentario delle politiche monetarie restano, pertanto, immutati e continuano a limitare fortemente la realizzazione dei deboli diritti previsti dalla Carta. L’Unione europea continua, quindi, a caratterizzarsi per «la stridente asimmetria» tra gli strumenti creati «per imporre agli Stati membri il rispetto delle libertà di mercato e dei vincoli di spesa» e gli strumenti utilizzabili per perseguire «obiettivi di politica sociale». Nonostante l’operazione di drafting normativo compiuta mediante la redazione – a guisa di testo unico – del Trattato di Lisbona, l’Unione europea resta ancorata all’illusione liberista e sottoposta al dominio assoluto del mercato e della moneta. La strumentazione possente della politica finanziaria è stata, infatti, collocata al centro della costruzione comunitaria e il suo meccanico operare sospinge i diritti sociali in un ruolo subalterno e residuale.

ROVESCIAMENTO DEL COSTITUZIONALISMO DEMOCRATICO

Il sistema comunitario è affetto da un vizio strutturale, che lo allontana dal «paradigma del costituzionalismo democratico del secondo dopoguerra». La portata dei diritti risulta ridimensionata, poiché essi sono tutelati solo in quanto ritenuti compatibili con gli obiettivi economici perseguiti dai Trattati. L’ordinamento comunitario ha compiuto, quindi, un’operazione inversa rispetto a quella realizzata dal costituzionalismo democraticosociale. L’ordinamento non è stato «interpretato sistematicamente a partire dai diritti», ma sono stati i diritti ad essere «interpretati a partire dagli obiettivi economici». Il modello di sviluppo proposto è sempre lo stesso, ovvero «quello del dominio assoluto del mercato, del dumping sociale, dei processi di delocalizzazione produttiva, della direttiva Bolkestein, della moneta». Un modello che punta, insomma, «a scaricare i costi della crisi sui salari e sullo stato sociale» e ad «incrementare l’esercito degli esclusi» [C. DE FIORES, p. 120-121].

LA BCE SOVRANO ASSOLUTO DEL PROCESSO COMUNITARIO

I pesanti condizionamenti economici e sociali provocati dalla preminenza degli esecutivi e delle tecnocrazie possono essere rilevati, del resto, considerando che il ruolo strategicamente più importante è stato «affidato – più che al Parlamento europeo o alle altre istituzioni – alla Banca centrale europea» la quale svolge, in totale indipendenza dal potere politico e in piena autoreferenzialità, «il compito di sorvegliare che tutto proceda nel rispetto della legge fondamentale dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza ». Il governo della politica monetaria è stato assegnato, quindi, ad una istituzione non rappresentativa, cui sono stati attribuiti poteri rilevanti per contrastare l’inflazione, ma nessuno strumento adeguato per combattere la recessione e la disoccupazione. La BCE e le Banche centrali degli Stati membri non possono finanziare gli organismi statali o gli enti pubblici (art. 101 TCE; art. 123 della versione consolidata del TFEU) e, dunque, i governi sono costretti a reperire nei mercati finanziari le risorse necessarie per realizzare le politiche sociali. Si comprende, pertanto, come, in questo modo, vengano avvantaggiate, fortemente, le istituzioni della rendita finanziaria, a scapito degli interessi sociali della collettività. L’art. 108 del TCE (art. 130 vers. cons. del TFUE) fissa il principio di indipendenza, che impone alla BCE di non “sollecitare” o “accettare” istruzioni dalle istituzioni e dagli organi comunitari o dai governi degli Stati membri e prescrive, di converso, che questi soggetti non possano “influenzare” la BCE ed i suoi organi. La BCE costituisce, quindi, un potere irresponsabile verso ogni istituzione comunitaria e nazionale e risulta svincolata, in particolare, da ogni obbligo verso il Parlamento europeo, salvo quello di trasmettergli «una relazione annuale sull’attività del SEBC e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso» (art. 113, terzo comma, TCE; art. 284 vers. cons. del TFUE). La BCE dispone, inoltre, di poteri regolamentari (art. 110 TCE; art. 132 vers. cons. del TFUE) necessari per imporre l’adozione di indirizzi finalizzati a garantire la stabilità. Questo sovrano assoluto del processo comunitario e del suo motore fondamentale (la moneta), è stato collocato nel cuore stesso della costruzione europea per garantire il rispetto del principio dell’“economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”, che costituisce il vero faro dell’azione dell’Unione europea e, quindi, il criterio e lo scopo essenziale. Le politiche sociali degli stati non sono più compatibili, insomma, con le politiche monetarie e con i vincoli di bilancio imposti, rispettivamente, dalla Banca centrale europea e dal Patto di stabilità. Con questi strumenti l’Unione europea ha omogeneizzato i modelli nazionali a quello sovranazionale, compromettendo «la forza normativa ed istituzionale di cui godevano i diritti sociali nelle costituzioni democratico- sociali degli ordinamenti nazionali» [Greco, p. 65].

FORMA DI GOVERNO CONCENTRATA E VERTICISTICA

Il Trattato di Lisbona conferma l’esistenza di una “forma di governo” concentrata e verticistica, conforme alle esigenze strategiche del mercato capitalistico. I gruppi dirigenti guidati dall’ideologia “liberista”, vieppiù perfezionata nel passaggio dai principi finalistici dei trattati originari ai canoni monetaristi del Trattato di Maastricht, si sono avvalsi delle tecniche di “ingegneria istituzionale” predisposte dal costituzionalismo multilevel, per inverare, dietro lo schermo di una Europa politica e culturale, un disegno di stampo autoritario. Il processo di concentrazione del potere, legittimato dalla concezione fatalistica del cd. deficit democratico, è culminato nella costruzione di una cupola istituzionale pseudo-federalistica, funzionale alle esigenze della competizione globale. Questo mix fra “stabilità di governo” e “stabilità economica” viene proposto, del resto, come modello per i processi di “riforme costituzionali”, che puntano a stravolgere gli assetti ordinamentali degli Stati membri dell’Unione Europea. La costruzione dell’Europa impone la realizzazione di “riforme costituzionali” volte a raccordare funzionalmente la centralizzazione della politica alla centralizzazione della produzione. Nei Paesi membri dell’Unione europea si sono aperti, da tempo, “cantieri costituzionali” iperproduttivi, nei quali “ingegneri istituzionali” solerti progettano – su commissione dei gruppi dirigenti dei “partiti leggeri” e delle “imprese flessibili” – riforme imperniate sul nesso fra metodo elettorale maggioritario e primato degli esecutivi. Su questo nesso – divenuto un dogma inscalfibile – vengono articolate le varie proposte che fanno riferimento ai modelli autoritari del presidenzialismo americano, del semipresidenzialismo francese, del premierato inglese e del cancellierato tedesco. L’intento comune alle proposte avanzate dalle forze politiche di centrodestra e di centrosinistra, è quello di ridurre i poteri del parlamento entro i limiti del mero controllo dell’esecutivo. La delegittimazione delle assemblee elettive – come luogo di decisioni autonome dal potere di governo – viene utilizzata per schermare il potere economico-finanziario da ogni interferenza derivante dal potere sociale e per garantire, quindi, una governabilità istituzionale funzionale alla stabilità dei mercati concorrenziali. Le riforme federaliste delineano, del resto, un raccordo verticistico fra gli esecutivi dello “stato federale” e delle “Regioni”, che replica quello stabilito per i rapporti intercorrenti fra l’Unione europea e gli Stati membri.

PRIMATO DEGLI ESECUTIVI TECNOCRATICI

La “forma di governo” dell’Unione europea appare imperniata, dunque, sul primato degli esecutivi tecnocratici, anche se questa realtà viene edulcorata con l’uso di locuzioni accattivanti quali “governance multilevel”, “dialogo con la società civile”, “consultazioni”. Il Trattato di Lisbona ribadisce che il potere legislativo resta “condiviso” fra il Parlamento ed il Consiglio ed amplia, anzi, le ipotesi di “codecisione”, ma attribuisce una posizione preminente all’esecutivo. Nonostante il richiamo allo “stato di diritto” (art. 2 TUE vers. cons.), il principio della separazione dei poteri e quello della sovranità del Parlamento risultano violati, poiché il potere di iniziativa legislativa è conferito alla Commissione (art. 17 TUE vers. cons.), ossia ad un organo tecnocratico (v. art. 17, comma 3 e 7, TUE vers. cons.) deputato ad esercitare un potere politico sotto l’egida dell’“indipendenza” (art. 17, coma 3, TUE vers. cons.) e, quindi, senza alcun rapporto (neppure indiretto) con la volontà popolare, salva una estrema e, quindi, speciosa “responsabilità collettiva dinanzi al Parlamento europeo” (art. 17, comma 8, TUE vers. cons.). Occorre considerare, del resto, che l’art. 10 del TUE (vers. cons.), dopo aver affermato che “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”, specifica che i cittadini sono rappresentati direttamente nel Parlamento europeo ed indirettamente nel Consiglio europeo e nel Consiglio. Nessun riferimento alla rappresentanza viene effettuato, invece, in riferimento alla Commissione, che risulta, pertanto, priva di raccordi con la volontà popolare. Il Trattato di Lisbona sembra aver giudicato, insomma, che «la “democraticità rappresentativa” è un concetto non riferibile alla Commissione» [GUARINO, p. 97]. Ciononostante, essa svolge, unitamente alla Banca centrale europea, un «ruolo dominante» nell’architettura istituzionale europea, perché concentra poteri e competenze considerevoli ed è munita di potestà varie ed incisive (esecutive, normative e sanzionatorie). Il principio dell’“indipendenza” – che sancisce la “separatezza” dei due organi costitutivi e decisionali dell’ordinamento comunitario (Commissione e Banca centrale europea ) – è stato assunto, del resto, come criterio di valutazione dell’“interesse generale” dell’Unione europea e costituisce l’espressione di una concezione istituzionale imperniata sul primato della “tecnica” sulla “politica” e, quindi, funzionale alla «forza dominante del sistema delle imprese». La configurazione del Sistema europeo di Banche centrali costituisce, comunque, il punto focale del sistema iperverticistico europeo, nel quale gli stessi esecutivi (Commissione e Consiglio) – pur prevalendo sul Parlamento – si trovano a dipendere dalle centrali del potere monetario e creditizio. I governi degli Stati membri, spogliandosi deliberatamente delle loro funzioni, hanno costruito un’organizzazione sovranazionale iperverticistica e tecnocratica per consentire al sistema delle imprese di recuperare quel potere che gli stati di democrazia sociale miravano ad infrenare ed indirizzare verso la realizzazione di finalità sociali. Gli esecutivi utilizzano, peraltro, questo tipo di organizzazione come «una sorta di abile e pratico espediente » per «assicurarsi una mutua complicità nell’imporre ai rispettivi paesi decisioni scomode, schivando sia le resistenze politiche interne, sia soprattutto i rigidi vincoli democratici posti dalle costituzioni nazionali » [De Fiores, p. 112].

DEFICIT DEMOCRATICO E DEFICIT SOCIALE

La costruzione europea è stata sempre caratterizzata, del resto, dall’intreccio fra il “deficit democratico” ed il “deficit sociale” ed ambedue realizzano un arretramento considerevole rispetto alle conquiste di civiltà ottenute mediante le Costituzioni del secondo dopoguerra. Basti pensare al fatto che la Carta europea dei diritti fondamentali è stata inserita in un quadro di primazia del mercato finanziario “globale” supportato dai vertici delle istituzioni finanziarie ed economiche sovranazionali ed internazionali. La realizzazione effettiva dei diritti sociali richiederebbe, invece, l’attivazione di meccanismi di potere socio-politico capaci di superare le barriere del cd. deficit democratico delle istituzioni europee, dato che i bisogni sociali non possono essere soddisfatti in assenza di poteri e di istituzioni idonee a garantire un “governo democratico dell’economia”. La sentenza recente del Tribunale costituzionale tedesco (30 giugno 2009), ha evidenziato, del resto, come l’intera costruzione europea sia «affetta da un deficit grave e congenito di democrazia», che si traduce «nella sottrazione del potere ai parlamenti nazionali e nella corrispondente appropriazione di detto potere da parte dei governi». Questo «deficit genetico» [Lucarelli 2003, p. 184-5] rivela, appunto, l’inidoneità dell’ordinamento europeo a rispondere – specie a causa del modello economico prescelto – «alle domande di democrazia che partono dalla società » [Ferrara 2009]. Lo speculare deficit sociale può essere rilevato, inoltre, richiamando alcune norme del Trattato di Lisbona dedicate alla disciplina dei valori e degli obiettivi. L’art. 2 (vers. cons.) proclama, in coerenza con il richiamo allo “stato di diritto” (e non allo stato democratico-sociale), un rispetto generico del valore dell’“ uguaglianza”, ma non opera alcun riferimento al principio d’eguaglianza sostanziale ed ai poteri necessari per il suo inveramento. Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si trova, parimenti, alcuna traccia di «quel principio che caratterizza le Costituzioni del Novecento (l’eguaglianza sostanziale), differenziandole da quelle del secolo precedente (che affermavano, esclusivamente, il principio formale d’eguaglianza) » [Azzariti 2003, p. 70]. L’art. 3, co. terzo (vers. cons.), subordina, inoltre, il conseguimento dell’obiettivo dello “sviluppo sostenibile” a quelli della realizzazione della “stabilità dei prezzi” e di un’“economia sociale di mercato fortemente competitiva”. Questo rapporto di subalternità fra i suddetti obiettivi, tradisce un’adesione dogmatica al postulato della scuola economica neo-classica, che attribuisce al meccanismo “spontaneo” del mercato competitivo, il compito di realizzare le condizioni necessarie per lo sviluppo del benessere sociale ed ambientale.

L’INGANNO DELLA “ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO”

La locuzione “economia sociale di mercato” appare, del resto, «promozionale e propagandistica», perché, tentando di «coniugare la protezione delle categorie deboli con lo sviluppo capitalistico», utilizza due concetti (l’economia di “mercato” e quella “sociale”) che sono reciprocamente contraddittori ed inconciliabili. L’aggettivo “sociale”, interposto alla locuzione “economia di mercato”, non esprime un’adesione alla visione delle Costituzioni del secondo dopoguerra, ma serve, piuttosto, ad occultare una distanza. Le finalità sociali sono considerate, pertanto, residuali rispetto alla precondizione inderogabile dello sviluppo dell’“economia di mercato fortemente competitiva”. Si assiste, quindi, all’abbandono completo della concezione della “programmazione democratica dell’economia”, ossia di quella forma di potere pubblico-sociale che consente una visione globale dei problemi dell’economia e costituisce una premessa indispensabile per fornire una risposta adeguata ai bisogni sociali dei cittadini-lavoratori.

UN DIRITTO DI LIBERTA’ E NON DI PRESTAZIONE

Questi non viene riconosciuto, del resto, il diritto al lavoro, ma la “libertà di cercare un lavoro” (art. 15, comma terzo, Carta dei diritti fondamentali). Questa definizione «ridotta e minimale» rivela come questa “libertà” non possieda la pienezza del contenuto del diritto al lavoro riconosciuto dalle Costituzioni democratico-sociali del secondo dopoguerra e comprova che l’Unione europea persegue «fini sostanzialmente incompatibili […] rispetto a quelli della promozione del progresso sociale e dell’occupazione», perché si fonda su «ben diversi e ben più solidi interessi». Il primo comma del medesimo articolo utilizza, inoltre, la locuzione generica di «diritto di lavorare» e rappresenta semplicemente la «pretesa che ciascun individuo può vantare, nei confronti dei pubblici poteri e della collettività a che non vi siano interferenze nella sua sfera di libertà ». Ci troviamo, insomma, dinanzi ad «un diritto di libertà e non di prestazione» ascrivibile, pertanto, «nel campo delle libertà negative e non in quello delle libertà positive, nel campo delle libertà dallo Stato e non nello Stato, in altri termini nel campo dell’agere licere basato sulla premessa individualistica e atomistica propria dello Stato liberale» [Salmoni 2005, pp. 555-56] e non sul principio d’eguaglianza sostanziale sul quale trova fondamento lo Stato democratico-sociale.

IL DIRITTO DI SCIOPERO EQUIPARATO A QUELLO DI SERRATA

Il diritto di sciopero viene equiparato, inoltre, a quello di serrata, dato che ai datori di lavoro ed a i lavoratori viene riconosciuta la possibilità di attivare «azioni collettive per la difesa dei loro interessi» (art. 28 Carta dei diritti fondamentali). Questa previsione, considerando irrilevante la diseguaglianza fra le parti del rapporto di lavoro, conferma l’«abbandono dell’orizzonte dell’eguaglianza sostanziale» [Algostino 2010, p. 209] e realizza un arretramento considerevole rispetto alle Costituzioni democratico- sociali che, riconoscendo la posizione di subalternità del lavoratore dipendente nell’ambito dell’organizzazione produttiva, hanno «dotato la parte più debole del conflitto delle armi necessarie per non soccombere e, anzi, per poter realizzare progressivamente una democrazia che rendesse credibili eguaglianze e diritti di ogni persona umana» [Ferrara 2005]. La Carta dei diritti, considerando l’impresa e la proprietà come diritti fondamentali di libertà privi di limiti sociali (v. art. 16, 17, Titolo II sulle Libertà) e non riconoscendo al diritto al lavoro ed al diritto di sciopero la valenza di diritti sociali pieni, ha rafforzato l’orientamento liberista dell’ordinamento europeo. Questa impostazione ha trovato, del resto, una traduzione coerente nelle sentenze della Corte di giustizia, che hanno affermato la libertà dell’impresa di comprimere l’esercizio del diritto di sciopero (sentenze Laval e Viking) o di non rispettare normative nazionali poste a tutela del salario, del lavoro e della contrattazione collettiva.

LA GUERRA NON E’ PIU’ RIPUDIATA

Il Trattato di Lisbona (v. art. 3, comma primo, vers. cons. TUE; ex art. 2 TUE), non esprime, inoltre, un ripudio netto della guerra, ma assume un impegno generico per la “promozione della pace”4. Questo obiettivo viene perseguito, comunque, mediante l’azione degli Stati membri diretta «a migliorare progressivamente le capacità militari» (art. 42, comma terzo, vers. cons. TUE; ex art. 17 TUE), nonché mediante il rispetto degli «impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico, che resta […] il fondamento della difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa» (art. 42, comma 7, vers. cons. TUE). L’Unione europea ha contribuito, invero, agli sviluppi teorici e pratici della concezione di “difesa” della Nato, sostenendo una serie di “missioni di pace” che, «in nome della lotta al global terrorism e della tutela dei diritti umani», hanno sortito l’effetto paradossale di provocare «la strage di decine di migliaia di civili inermi» [Zolo]. L’art. 43 del TUE (vers. cons.) dispone, infatti, che l’Unione possa salvaguardare i suoi interessi fondamentali mediante missioni finalizzate all’«assistenza militare», alla «prevenzione dei conflitti», al «mantenimento della pace», alla «gestione delle crisi», alla «stabilizzazione al ter- mine dei conflitti» ed alla «lotta contro il terrorismo». Occorre evidenziare, pertanto, la differenza radicale tra i contenuti di queste disposizioni e quelli dell’art. 11 della Costituzione italiana. La Repubblica democratica fondata sul lavoro, muovendo dal “ripudio della guerra”, si impegna a costruire un ordinamento internazionale garante della pace e della giustizia fra le Nazioni. Il diritto alla pace costituisce, quindi, il punto unificante di una visione costituzionale che non esprime una cultura generica della non violenza, ma una concezione complessiva dei rapporti politici, economici e sociali, che connette quel diritto a tutti gli altri che perseguono l’obiettivo di salvaguardare i diritti inviolabili dell’uomo, di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), di conseguire la “pari dignità sociale” e di superare gli ostacoli economici e sociali che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e dei popoli (art. 3 Cost.), impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La stretta interdipendenza tra il ripudio della guerra ed i valori della giustizia e dell’emancipazione sociale impedisce di isolare le questioni nazionali da quelle sovranazionali e mondiali e legittima, pertanto, le lotte internazionaliste dei popoli finalizzate a conseguire la pace, la libertà e l’eguaglianza sostanziale.

IL TRATTATO DI LISBONA GUARDA AL PASSATO

Il costituzionalismo anomalo dei governanti ha tentato, dunque, di imbellettare con l’untuoso rossetto5 della Carta dei diritti fondamentali, l’impianto monetarista del Trattato di Maastricht, che costituisce la struttura portante della costruzione europea e continua, mediante i suoi principi ispiratori ed i suoi meccanismi giuridico-istituzionali, ad impedire la rifondazione dell’Europa su nuove basi. Anche il Trattato di Lisbona rappresenta un documento normativo che guarda al passato – razionalizzandolo e consolidandolo – ma non riesce a delineare il futuro, poiché omette d’individuare i principi e le istituzioni idonee a fondare una nuova Europa democratica e sociale. La crisi dell’Europa nasce proprio dall’incapacità degli odierni «costituenti continentali» di «guardare al futuro», a differenza dei «nostri padri costituenti» che volsero lo sguardo in avanti e si riconobbero in una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Nella realtà attuale, contrassegnata da una crisi strutturale dell’economia e della società, la figura giuridica soggettiva centrale non è più quella del cittadino-lavoratore titolare di diritti e poteri sociali, ma quella sintetizzabile nella terna del «lavoratore traumatizzato», del «risparmiatore maniacale-depressivo» e del «consumatore indebitato» [Bellofiore 2008, p. 19]. Gli esecutivi rispondono, infatti, alla crisi generale del sistema capitalistico, con il taglio degli stipendi e delle pensioni, con le riduzioni della spesa pubblica e con gli aumenti della pressione fiscale sul lavoro dipendente, ossia mediante provvedimenti che possono provocare solo l’aumento della disoccupazione e della recessione. Questi indirizzi vengono adottati, peraltro, non a seguito di un periodo caratterizzato da politiche espansive e redistributive, ma dopo un trentennio contrassegnato da un forte attacco allo “stato sociale”. Nella fase apertasi con l’esplosione della crisi, i gruppi dirigenti tendono, insomma, a liquidare ogni forma, pur minimale, di welfare e puntano a portare a compimento la strategia avviata negli anni settanta con la fine degli accordi di Bretton Woods e proseguita con la controrivoluzione neo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Diviene, dunque, palese il “senso” del processo storico dell’ultimo trentennio caratterizzato dalle politiche economiche imperniate sulle prescrizioni rigide del monetarismo e sulla libera circolazione dei capitali. Il significato profondo del suddetto processo risiede, appunto, nella reazione feroce scatenata dal capitale privato contro le «lotte operaie degli anni Sessanta». Anche nella fase attuale si mobilitano le forze necessarie per scongiurare il pericolo che i lavoratori possano assumere un «ruolo da protagonisti nella partita della riproduzione» [Burgio 2010] e possano avviare un percorso democratico-sociale per la fuoriuscita dalla crisi del capitalismo. Occorre rilevare, comunque, come la crescita del consumo popolare costituisca, anche per il sistema capitalistico, il motore fondamentale dell’economia. L’Unione europea, la BCE e il Fmi prescrivono, invece, una riduzione parossistica del livello di vita dei lavoratori che, provocando un calo ulteriore della domanda, esacerba gli effetti della crisi economica e sociale. Le misure adottate dalle istituzioni nazionali e sovranazionali mirano, infatti, a salvaguardare i gruppi oligopolistici responsabili della crisi e provocano la distruzione dei sistemi produttivi e della domanda di mercato. La stagnazione dei consumi generata dalle debolezza dei salari e dall’indebitamento dei lavoratori segnala, comunque, una crisi della fiducia nel futuro, gravato dalle prospettive di aumento della disoccupazione.

DEMOCRATIZZAZIONE E NUOVE FORME DI “INTERVENTO PUBBLICO”

Occorre porsi, pertanto, la questione fondamentale sulla natura e sui fini dell’Europa che si intende realizzare, al fine di infondere nuove motivazioni e, quindi, una rinnovata spinta alla costruzione di una comunità sovranazionale capace di rispecchiare le aspirazioni sociali dei cittadini-lavoratori. La crisi attuale rappresenta, del resto, il fallimento del modello di sviluppo “neoliberista” che ha avuto come sua «componente intrinseca l’alterazione della distribuzione del reddito e l’accentuazione delle diseguaglianze ». Questo modello è stato alimentato da «una miscela fatta di spirito probusiness, salari stagnanti, scarso welfare pubblico, deregolamentazione spinta, leva dei tassi di interesse, innovazione finanziaria selvaggia e cultura del debito ». I problemi attuali sono, pertanto, immensi e pongono la questione di nuove forme di «intervento pubblico» ispirate alla concezione della programmazione democratica dell’economia. La crisi economico-finanziaria ha riportato, del resto, in auge l’intervento pubblico, anche se finalizzato al sostegno del capitalismo in crisi. Un’indicazione feconda da cui muovere per delineare un nuovo modello di sviluppo capace di rispondere ai bisogni sociali della collettività, proviene dalla Costituzione italiana e dalla sua concezione avanzata dei rapporti economico-sociali. Essa riconosce, infatti, un ruolo essenziale agli strumenti di controllo sociale del sistema produttivo e fa rientrare, nell’ambito della funzione generale del governo democratico dell’economia, anche le attività finanziarie dei soggetti pubblici e privati, che devono essere coordinate ed indirizzate verso la realizzazione di fini sociali. Questi contenuti sono ritornati attuali e sono emersi nelle rivendicazioni dei movimenti sociali che si sono manifestati in vari Paesi europei. Alla parola d’ordine “noi non pagheremo la crisi”, si unisce la richiesta di avviare un processo di democratizzazione delle istituzioni nazionali, sovranazionali ed internazionali e di ripristinare un controllo sociale sui centri di potere in cui si articola la produzione e la transnazionalità dei mercati. Si rivendica, insomma, la costruzione di una nuova Europa in cui – come affermava il Professor Carlo Lavagna – possa realizzarsi l’auspicio della Costituzione italiana, ossia la vittoria della classe lavoratrice e non delle strategie antisociali dei gruppi oligopolistici transnazionali.

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Note

1 Cfr. l’art. 127 (ex art. 105 TCE) della versione consolidata del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

2 L’art. 3, comma 5, del TUE (ex art. 2) prevede che: «nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini».

3 Il Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, è stato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed è entrato in vigore il 1° dicembre 2009 (v.
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 2007/C 306/01).

4 L’art. 3, comma primo, della vers. Cons. del TUE e del TFUE (ex art. 2 del TUE) prevede che: «L’ Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli».

5 Traggo l’espressione “untuoso rossetto” dalla strofa di una poesia di A. Blok che recita: «Ma di questa vita menzognera cancella l’untuoso rossetto» (Cfr. A. BLOK, L’ispirazione così detta, in ID., Poesie, Newton Compton, Roma, 1977, p. 179). Sulle cinque difficoltà che deve superare chi, ai nostri giorni, voglia combattere la menzogna e scrivere la verità, cfr. B. BRECHT, Cinque difficoltà per chi scrive la verità, in ID., Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, pp. 118 sgg.

*Docente di Diritto pubblico dell’economia, Università di Bari