”La teca dell’Altro”

L’intervento della compagna Elettra Deiana su ideologia dell’appartenenza e corpo femminile (Liberazione, 23-10-00) richiama all’interno della battaglia politica e culturale contro le spinte razzistiche e xenofobe, la necessità di una riflessione, teorica prima ancora che politica, sui nessi che uniscono tali spinte (e le relative pulsioni ideologiche) agli archetipi fondamentali che presiedono alla rappresentazione maschile del corpo femminile. La valenza logica ed ontologica del suo discorso impone, pertanto, una considerazione dei suoi termini fondamentali che ne restituisca la complessità e la problematicità. La compagna Deiana ritiene innanzitutto che nel deposito archetipico-ideologico della cultura patriarcale (compresa quella moderno-patriarcale) la “vocazione identitaria del gruppo maschile” riduce i corpi delle donne a scaturigine biologica dell’identità maschile, a “teche del seme maschile” che custodiscono e rinnovano simbolicamente il dominio patriarcale e, con esso, la storia dei soli uomini. L’uso del termine religioso “teca” non è casuale: esso vale ad evocare tanto la sacralizzazione ideologica del corpo femminile come muta potenza originatrice quanto il suo rovesciarsi, altrettanto ideologico, nella profanazione del corpo femminile, attraverso la violenza, lo stupro, ecc.
Movente di tali concrezioni fantasmatiche sarebbe l’incapacità di sostenere, per usare le sue parole, la differenza, l’eccesso, il mistero e l’inquietudine che promanano dal (reale) potere generativo del corpo femminile, potere che fa della donna “testimonianza vivente e metafora generale dell’Altro da sé, dell’irriducibilità a sé dell’Altro”.
Da qui l’“ancestrale paura della diversità”, il rifiuto dell’Altro come esclusione, negazione, annientamento della diversità (sempre usando termini suoi).
Nasce a questo punto, da parte mia, una prima serie di osservazioni. La prima muove dal piano psicologico e lo travalica. La rappresentazione che la compagna Deiana presenta del corpo femminile come termine reale della sua immagine maschile-patriarcale finisce, a mio giudizio, per replicarla. Agisce in questa rappresentazione, infatti, la stessa sacralizzazione del corpo femminile che lei depreca come ideologica. Non c’è in lei, ovviamente, la necessità di naturalizzare tale sacralità, come avviene nelle rappresentazioni patriarcali, con la loro caratteristica alternanza di sublimazione ed esecrazione della forza vitale femminile, alternanza che proietta una fondamentale ambivalenza affettiva. Non c’è qui necessità di naturalizzazione perché la sacralizzazione del corpo femminile non è, come nelle ideologie patriarcali, l’astratto presupposto della storia, ma pretende essa stessa di essere storia autentica, sua manifestazione e suo disvelamento come storia reale, finita e plurale.
Perché attribuisco carattere sacralizzante alla concezione del corpo femminile espressa dalla compagna Deiana?
Essenzialmente perché essa, nei termini e nei concetti che esprime, manifesta, a mio giudizio, una visione mitologica dell’alterità. Definire il corpo femminile testimonianza e metafora dell’Altro già denuncia un’inclinazione mistico-nihilistica che, d’altra parte, deve essere mostrata dall’interno del movimento dei suoi concetti. Se si dice che le cose esistono come attestazione e trasposizione (testimonianza e metafora) di qualcos’altro, si dice che non esistono realmente perché sono già prese in un infinito e vuoto rimando di significazioni.
Il fatto che l’Altro viene presentato come senso eccedente, crisi del soggetto, non revoca l’impianto metafisico della costruzione, ma piuttosto lo conferma.
L’alterità è qui, infatti, sempre pensata a partire dall’identità e come sua dislocazione , essa deve perciò apparire come diversità e pluralità dei soggetti e del soggetto. Ciò che in tal modo viene teorizzato (la comunità come genericità metaforica e l’esistenza come vitalità testimoniale, il cui paradigma sarebbe il corpo femminile) non esce, mi sembra, dal cerchio incantato dell’identità, da un soggettivismo declinabile tanto in chiave intellettualistica quanto sentimentalistica.
Al pensiero è qui preclusa la sua più intima corporeità: la marxiana “praxis”, l’oggettività come prassi, come attività sensibile nella quale l’esistenza si converte in possibilità e non è più oggetto per un soggetto, limite dell’identità, bensì mondo comune dell’intera espressione umana. Se, invece, l’altro (l’oggetto) esiste solo metaforicamente, il corpo pensante è ridotto a linguaggio e l’altro può manifestarsi solo nella rappresentazione di soggetti “deboli” e quindi plurali e diversi non solo fra di loro ma anche in se stessi. Così mostra di credere la compagna Deiana e, con ciò, riduce il concetto di differenza a quello di diversità. Al contrario, ritengo che l’alterità come reale oggettività esiga un concetto della differenza all’altezza del pensiero dialettico marxista.
Prima di procedere in tal senso soffermiamoci ancora sul primo passaggio del suo discorso.
In che senso esso rivela, come ho affermato, una visione mitologica dell’alterità? Sostanzialmente, io credo, in questo: l’alterità, cioè la realtà, il referente del linguaggio, non trova, in quel discorso, possibilità reale di esperienza, poiché l’alterità è solo allusa, narrata nella memoria testimoniale e nel gesto metaforico del corpo femminile. Qui, francamente, il termine “corpo” sembra solo un altro nome per indicare il soggetto metafisico tradizionale che si pone come condizione di possibilità (orizzonte trascendentale) di un oggetto che, in sé, non ha mai esistenza autentica perché la sua realtà e la sua possibilità restano scisse ed opposte l’una all’altra.
Il corpo femminile che Elettra Deiana eleva al più radicale paradigma storico-sociale, sembra a me, quindi, soltanto una solitaria “teca dell’Altro” allusiva e affabulante dove l’altro realmente non c’è perché è rappresentato soltanto come “affezione” del soggetto, come sua alterazione.
Se questo lei intende per “irriducibilità a sé dell’Altro” si tratta della ripropoposizione di un pluralismo trascendentale, di un mondo di soggetti senza mondo, tanto plurale quanto alienato. Tale pluralismo trascendentale può variare i riferimenti epistemologici ed antropologici del soggettivismo metafisico non certo contestarne il paradigma fondamentale: quel rapporto predicativo soggetto-oggetto che fa di quest’ultimo un oggetto negativo, che lo cancella come oggetto reale, come attività sensibile e conferma il soggetto come dispositivo di dominio sulla realtà, sulla prassi, sulla corporeità pensante. Tale logica predicativa struttura tutte le specifiche forme di razionalità del dominio, siano esse di ascendenza razionalistica o empiristica.
Nelle sue Tesi su Feuerbach Marx ne denunciò la vigenza ancora in ciò che si presentava come rovesciamento della soggettività metafisica: il materialismo intuizionistico di Ludwig Feuerbach.
Se non si comprende, con Hegel, che la verità non può essere oggetto di proposizione linguistica (non può essere risultato della relazione soggetto-oggetto) non si comprende o si banalizza pragmatisticamente la seconda delle tesi su Feurbach di Marx: “ La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero-isolato dalla prassi- è una questione meramente scolastica.” K. Marx. Tesi su Feuerbach, in “Ludwig Feuerbach” di F. Engels, ed.it. pag 82.
Qui, come in tutte le undici tesi su Feuerbach, Marx riconosce nella prassi, nell’oggettività come attività sensibile, il luogo della differenza, dell’inversione del rapporto estraniato di possibilità e realtà, della libertà come innovazione.
Appare allora chiaro il fondamento ontologico che regge e rende indiscernibili prassi e differenza. Esso non è soltanto irriducibilità del reale al pensiero in quanto soggetto che si predispone l’oggetto, che si pone come condizione di possibilità di esso. La critica marxiana della Metafisica soggettivistica ha, infatti, un esito positivo: la oggettività non è abolita ma è sottratta alle pretese di ogni razionalità del dominio e riconosciuta nella prassi. Nella prassi la realtà storico-naturale genera le possibilità umane perché non è più prigioniera del soggetto e delle sue rappresentazioni intellettuali e morali. La prassi è l’emancipazione da ogni attività ridotta a soggetto, egemone o subalterno che sia. Essa, allo stesso modo, affranca l’oggettività dalla costrizione dei concetti formalizzati. Solo nella prassi, pertanto, l’altro può essere, come dice Marx nella Questione Ebraica “realizzazione della libertà”.
Chi, dunque, pensa a corpi testimonianti e metaforizzanti pervasi di “pietas” per l’Altro, pone la realtà fuori di sé, come limite mobile del proprio linguaggio, come spostamento malamente infinito di un potere di significazione che non è meno esigente per il fatto di concepirsi difettivo. Chi così pensa si trattiene in una introversione puramente negativa della critica della Metafisica e della tradizione politica ad essa solidale: la storia del diritto e dello Stato nelle società di classe.
Per Marx, invece, la verità è l’“immanenza del pensiero”, cioè la trascendenza interna che anima sensibilmente il linguaggio e lo porta, nella prassi, oltre la propria dimensione strettamente logica, in ciò che è altro rispetto al soggetto ed è se stesso nel corpo che pensa. L’altro, infatti, non è altro da sé ma altro dal soggetto, a meno di ridurre il sé all’identico, con la conseguente cancellazione di ogni dialettica e di ogni materialismo. Verità, realtà, prassi, differenza, libertà sono la stessa cosa perché sono la cosa stessa, una e molteplice, cioè unica ed analoga, non allusive figure di essa.
Da tutto ciò discende che il rigetto fobico della “eccedenza” del corpo femminile non dipende affatto dal “potere generativo” della donna, come ritiene la compagna Deiana. Quel rigetto fobico (anche del corpo maschile) è piuttosto una manifestazione di quella diffidenza verso la sensibilità che, al di là delle sue proiezioni immaginarie, riposa sulla negazione della prassi, della corporeità pensante, dell’intelligenza-passione. Tale negazione segna storicamente l’intera cultura delle classi dominanti e non solo le sue attuali versioni reazionarie, xenofobe e razzistiche.
Con questa considerazione non intendo, naturalmente, oscurare sul piano culturale o sottovalutare sul piano politico le distinzioni (e talora le contrapposizioni) che su questo comune presupposto intercorrono tra posizioni reazionarie, conservatrici e progressistiche, tanto meno davanti alle attuali recrudescenze dell’arcaismo patriarcale sopravvissuto nella modernità ed all’urgenza di farvi fronte. L’abbattimento della multiforme oppressione sociale della donna, infatti, è sotto ogni riguardo elemento discriminante di una strategia rivoluzionaria e quindi anche della sua tattica. Tale oppressione, senza dubbio, è da ricondurre a negazione della differenza. È necessario però caratterizzare quest’ultima in termini teoricamente e storicamente adeguati. La questione ha rilievo direttamente politico e vorrei, quindi, svolgerla a partire da una domanda direttamente politica.
Se assumiamo, con la compagna Deiana, che “l’intreccio tra principio identitario e esclusione dell’Altro è alla base della cultura razzista e xenofobica” e se assumiamo, sempre con la compagna Deiana, il “rifiuto dell’Altro” come paura e negazione della diversità, contribuiamo ad articolare correttamente, ai fini della battaglia politica contro le ideologie reazionarie, le distinzioni tra posizioni etnocentriche e posizioni democratico-liberali? Io credo di no, sia dal punto di vista teorico che politico, se tale battaglia è un momento della più generale lotta contro l’oppressione e l’alienazione capitalistiche.
Necessaria è, innanzitutto, la ricerca delle connessioni storico-sociali tra etnocentrismo politico e liberalismo, la chiarificazione di ciò che esse hanno in comune in quanto espressioni della modernità capitalistica; in altre parole: s’impone l’analisi della loro comune derivazione, anche se è certamente necessario indagare, a livello psicologico, antropologico e storico, la persistenza e la ricorrenza di ideologie ed archetipi provenienti dalle società di classe precapitalistiche e rifusi nella complessa sovrastrutturazione del dominio capitalistico.
Da un punto di vista metodologico la compagna Deiana non si sottrae a questo compito. Ella ravvisa, infatti, in un totalizzante paradigma di genere maschile, che taglia diacronicamente e sincronicamente le formazioni economico-sociali, la fonte ultima della negazione etnocentristica degli “altri” (donne, stranieri, nemici; ecc…). Da quel paradigma sessuato, potentemente arcaico perché tuttora attivo, promanerebbero le ideologie regressive di appartenenza ed il “principio identitario” che le cementa. Laddove è evidente che la compagna Deiana critica tali concetti dal punto di vista di un’appartenenza contaminata e di un soggetto etero-referenziale.
È significativo, a riguardo, che lei consideri importante concausa del consolidarsi del familismo, “base dell’imbroglio etnico” il “progressivo venir meno delle tradizioni democratico-liberali, laiche, di sinistra, femministe”.
In tal modo, lamentando l’esaurirsi di quelle tradizioni, la compagna Deiana stabilisce un nesso esplicito tra il loro orizzonte culturale complessivo e la battaglia per l’affermazione della “differenza di genere”.
Da questo punto di vista, in cosa consiste, allora, per la compagna Deiana l’elemento unificante di quelle tradizioni?
Credo che il suo discorso lo abbia già indicato con chiarezza nel momento in cui ha ridotto il concetto di differenza a quello di diversità, cioè il problema della liberazione dell’oggettività come prassi al problema della pluralizzazione debole e contaminata del soggetto.
Su quel terreno, infatti, la miscela di principi politici come tolleranza e pluralismo e di concetti filosofici come finitezza e limite deve apparire come l’argine culturale fondamentale contro le ondate della reazione etnicista, razzista e maschilista così virtuosamente rappresentate in Italia dalla Lega di Bossi. Senza, da parte mia, alcuna sottovalutazione dottrinaria e settaria delle contraddizioni importanti tra cultura liberal-democratica ed ultra-liberismo etnocentrico, l’impostazione della compagna Deiana mi sembra essere strategicamente fuorviante.
È certo indubitabile che la reazione etnicista tenta di schiacciare le diversità ed è altrettanto indubitabile che i comunisti debbono unirsi ai democratici per difendere contro quell’attacco le diversità e la civiltà giuridica e politica che le garantisce. Allo stesso modo è sicuro che la sconfitta degli Haider e dei Bossi sarebbe anche una vittoria operaia a causa della natura ultra liberistica della destra etnocentrista e dei suoi legami con le forze del capitalismo più aggressivo.
Scambiare, però, tali obiettivi democratici di classe per lotta alla razionalità del dominio che segna la modernità capitalistica mi appare un grave equivoco.
Esso inibisce ogni proficua ricerca intorno alla coesistenza di arcaismo e modernità, di ideologie identitarie e pluralismo culturale. Esso impedisce la chiarificazione tanto del loro comune fondamento quanto delle sue contraddittorie manifestazioni.
Il loro comune fondamento consiste, a mio giudizio, nell’alienazione sociale, cioè nella negazione della prassi. Tale negazione nelle ideologie arcaizzanti ed integralistico-religiose è immediata perché prigioniera di un sistema dato di rappresentazioni culturali, di un orizzonte di valori invarianti. Nelle ideologie modernistiche e laicizzanti (comprese le loro versioni “post-moderne”) la negazione della differenza, cioè della realtà come prassi, è mediata dalla produttività disincantata del soggetto, cioè dal potere del linguaggio di costruire e revocare incessantemente senso e rappresentazione fino a farli coincidere con la mobilità del segno comunicativo. Nel primo caso, all’ipertrofia del soggetto etnicista corrisponde la negazione della differenza attraverso il rifiuto della diversità; nel secondo caso, al nihilismo attivo del soggetto, alla sua crisi, corrisponde la negazione della differenza attraverso la diversità. Da qui l’insostenibilità della tesi centrale della compagna Deiana: il rifiuto dell’Altro, della differenza, è sempre negazione della diversità e l’accettazione della diversità, per converso, è esperienza della differenza. Al contrario, nel suo andamento più coerente ed effettuale la logica del dominio unisce diversificazione culturale (pluralismo del e nel soggetto) e negazione della prassi, della differenza, della oggettività non assoggettata. È questa la ragione, d’altra parte, per cui è l’americanismo e non l’etnocentrismo europeo, il riferimento culturale globale delle tendenze capitalistiche egemoniche.