Il grande entusiasmo con cui la folla di Caracas ha accolto nei primi giorni di novembre la visita di Fidel Castro in Venezuela – dopo quella analoga di Hugo Chavez a Cuba – rappresenta uno di quei passaggi politici destinati a lasciare il segno nella storia infinita delle liberazioni latino-americane. E siccome il Venezuela è un paese grande tre volte l’Italia che galleggia su un mare di petrolio (terzo produttore mondiale) destinato in maggioranza ai terminali marittimi del Texas e della Louisiana, è ovvio che le immagini dei due presidenti, Fidel e Chavez, che giocano insieme a baseball come due vecchi amici, abbiamo messo in allarme gli strateghi di Washington.
Due anni dopo il risultato travolgente (57% dei voti) con cui Chavez vinse le elezioni presidenziali nel dicembre del 1998, in una competizione di cui nessuno osò contestare il suo carattere democratico, molte cose stanno cambiando. La nuova classe dirigente venezuelana espressa dal Polo Patriottico guidato da Hugo Chavez, composta da una larga alleanza di forze progressiste (Movimento V Repubblica, Movimento per il socialismo, Partito comunista del Venezuela e altre forze di ispirazione democratica), ha squadernato con chiarezza i contenuti della sua politica economica, sociale e internazionale: tutti di segno opposto a quelli della globalizzazione imperialista. Inoltre, differenza non trascurabile rispetto alle vicende cilene, emerge il fatto che il leader di questa alleanza sia una figura carismatica espressa da un esercito con una forte connotazione popolare. Spazzare via la corruzione e il malaffare che hanno ridotto in miseria l’80% della popolazione, provocando rivolte represse nel sangue, riportare sotto la piena sovranità dello Stato nazionale il controllo delle risorse e della loro equa ridistribuzione: queste le priorità del nuovo governo in netta controtedenza rispetto alle ricette del Fmi e della Bm. Dunque un autentico evento (questo lo è per davvero) che si cimenta con una sfida di proporzioni ciclopiche e che inizia con clamorosi smarcamenti dal dominio imperialista del gigante nordamericano. D’ora in poi non saranno più la Casa Bianca, la Federal Reserve, la Cia, il Pentagono e l’ambasciata Usa di Caracas a decidere la politica del Venezuela. Tanto meno il Fmi e la Bm. Il governo di Chavez ha revocato l’uso delle basi militari straniere e, tanto per cominciare, sono state sospese le manovre militari congiunte – Unitas e Red Flag – che venivano effettuate ogni anno dalle forze armate venezuelane con quelle degli Stati Uniti. Le navi della guerra Usa dovranno chiedere il permesso prima di gettare l’ancora nella baia di Maracaibo. Ma quello che più brucia a Washington è la proibizione agli aerei americani provenienti dall’isola olandese di Aruba di sorvolare il suo territorio per spiare la guerriglia colombiana. Nel contempo le relazioni tra il Venezuela e Cuba, sintetizzate da Chavez nella formula con Bolivar e Marti, hanno subito una spettacolare accelerazione ed acquisiscono il valore di grande messaggio simbolico per tutti i popoli dell’America Latina. Tutto questo avviene nel pieno rispetto della nuova Costituzione Bolivariana sottoposta a referendum popolare e approvata col 70% dei voti. Nel preambolo all’articolo 153 essa promuove “… la cooperazione pacifica tra le nazioni dell’America Latina… a salvaguardia del principio della non ingerenza e dell’autodeterminazione dei popoli”. Il suo carattere antimperialista, nella fattispecie quello nordamericano, non viene minimamente dissimulato. La politica internazionale del governo di Hugo Chavez è diventata una sfida aperta al “nuovo ordine” e al rapporto di scambio ineguale tra i paesi imperialisti e il resto del mondo. Presidente di turno dell’Opec, il Venezuela ha compiuto gesti e preso decisioni politiche ed economiche concrete che hanno provocato lo sconcerto dei padroni del Nord. Incurante degli embarghi ha deciso di rifornire di petrolio Cuba e il Salvador ad un prezzo politico di favore che Fidel ha prontamente ricambiato con l’invio di 300 medici cubani in Venezuela. Ha convinto i paesi dell’Opec a ridurre le esportazioni di greggio e a rialzarne il prezzo evitando che scenda comunque sotto la soglia minima di 22 dollari al barile. Un mezzo più che legittimo per ridurre i disastri del saccheggio effettuato per anni dalle classi possidenti e dalle multinazionali in Venezuela e altrove.
Rispondendo alle aspettative popolari il nuovo governo si è mostrato, fin dal suo insediamento, impietosamente aggressivo contro la corruzione dilagante tra gli uomini politici e le istituzioni del vecchio regime. Il marciume è stato esibito pubblicamente senza veli ma l’operazione di pulizia si svolge in un quadro di perfetta legalità democratica. Ciò non poteva non provocare la rabbia dei vecchi ceti dominanti che vedono minacciati i loro immensi patrimoni. Fin dai giorni successivi alla vittoria elettorale di Hugo Chavez si è scatenata la caccia alle prenotazioni dei voli per Miami. Rieccole le file vocianti dei ricchi possidenti ammassati ai cancelli d’imbarco con le loro 24 ore zeppe di dollari (tre volte il debito estero del paese!) già depositati negli Usa e nei paradisi fiscali dei Caraibi. Ma non è una fuga, al contrario. Gli ambienti affaristici, il padronato e i grandi latifondisti si riorganizzano e si scatenano. I media a grande diffusione (nazionali ed esteri), legati ai vecchi ceti politici corrotti e ai gruppi economici e finanziari, muovono al contrattacco: Chavez è paragonato a Domingo Peron, Fidel Castro, Gheddafi, persino a Mussolini. Quando il 3 luglio 2000 il governo decreta un aumento del 20% dei salari, il padronato risponde con massicci licenziamenti. La stessa gerarchia cattolica, da sempre asservita ai vecchi poteri, si schiera contro “l’autoritarismo del regime” e accusa il nuovo presidente di “manipolare la Bibbia”. L’ancienne regime è terrorizzato soprattutto dai contenuti della nuova Costituzione Bolivariana che rappresenta un’autentica rivoluzione in materia di diritti sociali acquisiti e che perciò alimenta le speranze dei milioni di salariati, campesinos senza terra e disperati senza lavoro che attendono da secoli il riconoscimento dei loro diritti umani alla salute, al lavoro, al salario, all’istruzione, alla pensione.
La sfida antimperialista lanciata dal Venezuela, in sintonia con Cuba, si preannuncia gravida di conseguenze interne e internazionali non solo per il peso economico del Venezuela – terzo produttore mondiale di petrolio e principale fornitore di greggio agli Stati Uniti – ma anche per le conseguenze dirette e indirette che questa sfida avrà in tutta la parte del continenti situata a sud del Rio Grande. Non sarà facile gestirle. Benché Chavez, conscio dei rischi, abbia rassicurato gli investitori americani, l’irritazione di Washington traspare dalla dichiarazione assassina di Peter Romero, sottosegretario di Stato per gli affari latino-americani: “In Venezuela il governo è senza guida, e noi, i gringos, non siamo noti per essere pazienti”. E tuttavia scorrendo gli articoli di questo nostro dossier sul Venezuela, la fiducia che il Polo Patriottico di Hugo Chavez possa farcela si rafforza notevolmente. Con i tempi che corrono non è certamente poco.