La strategia imperialista degli Usa

L’attacco sanguinario degli Usa contro l’Iraq, contrassegnato da un’azione militare di gigantesche proporzioni, da bombardamenti di inaudita ferocia che hanno distrutto Baghdad e l’intero Paese, hanno sterminato l’esercito iracheno e colpito vastamente e senza pietà la stessa popolazione civile, ci mettono di fronte ad un fenomeno, quello appunto della straordinaria aggressività militare degli Usa, che deve costringerci ad una profonda riflessione relativa sia alla natura politica di fondo della strategia nordamericana, che all’intero quadro internazionale.

1. Fin dagli anni Ottanta, mentre si preannuncia il crollo del sistema sovietico, la destra americana avverte che si sta presentando una straordinaria opportunità per dominare il mondo. Comincia a profilarsi un’opzione egemonica di dimensione planetaria che ottiene il consenso di entrambi gli establishment dei due partiti di potere, democratico e repubblicano.
Trascinati dalla vertigine della loro potenza militare, ormai senza concorrenti in grado di contenderne il primato, gli Stati Uniti scelgono di affermare il loro dominio globale con il dispiegamento di una strategia strettamente militare mirata al “controllo del pianeta”. Una prima serie di interventi – Golfo, Jugoslavia, Asia Centrale, Palestina, Iraq – inaugura, a partire dal 1990, l’esecuzione di questo piano di “guerre senza fine made in USA”, pianificate e decise unilateralmente da Washington.
Lotta al terrorismo, lotta al narcotraffico e l’accusa contro Paesi terzi di produrre armi di distruzione di massa, sono i pretesti messi a punto dalla Casa Bianca per alimentare il consenso interno ed internazionale alla sua strategia politica. Si tratta di pretesti più che evidenti se si considera il lavoro di aperto sostegno svolto dalla CIA per costruirsi, ovunque necessario, un avversario terrorista su misura. Così è stato per i talebani e Bin Laden, autori di clamorosi attentati, compresi quelli dell’11 settembre, ancora avvolti dal mistero. Lo stesso Plan Colombia diretto contro il Brasile è la variante sudamericana del medesimo copione. Quanto alle accuse di produrre armi di distruzione di massa rivolte all’Iraq ed alla Corea del Nord, appaiono scandalosamente strumentali se confrontate con l’uso effettivo di tali armi compiuto in tante occasioni dagli Stati Uniti (Hiroshima e Nagasaki, le tonnellate di armi chimiche rovesciate sul Vietnam, la reiterata minaccia di usare armi nucleari nei conflitti venturi). Si tratta in tutta evidenza di una rozza propaganda, già sperimentata a suo tempo da Goebbels, che tende ad attribuire ad un nemico immaginario le proprie concrete intenzioni. Efficace, forse, per convincere l’ingenua opinione pubblica americana, ma sempre meno credibile altrove.

La “guerra preventiva”

La “guerra preventiva”, enunciata ormai come una necessità che Washington si riserva di invocare a suo insindacabile giudizio, abolisce di fatto tutto il diritto internazionale e mette a repentaglio l’esistenza stessa dell’ONU. La Carta delle Nazioni Unite proibisce il ricorso alla guerra, salvo in caso di legittima difesa, e sottopone a condizioni severe l’eventuale intervento militare ONU, la cui entità dovrà essere comunque limitata e provvisoria.Gli esperti di diritto internazionale sanno che le guerre scatenate dal 1990 in poi sono del tutto illegittime e che, in linea di principio, coloro che ne portano la responsabilità sono da considerarsi criminali di guerra. Le Nazioni Unite sono già state usate dagli Stati Uniti a questo scopo, con la complicità di altri Paesi, come lo fu a suo tempo la Società delle Nazioni da parte degli Stati fascisti.

2. L’abolizione dei diritti dei popoli, già largamente consumata, sostituisce al principio della loro eguaglianza quello della distinzione coniata dal nazismo tra l’Herrenvolk (popolo eletto) e razze inferiori. Per popolo eletto si intende oggi quello degli Stati Uniti e, in posizione accessoria, quello di Israele, i cui governi si arrogano il diritto di conquistarsi lo “spazio vitale” che essi ritengono necessario. L’esistenza di tutti gli altri popoli e governi è tollerabile fintantoché non costituisce una minaccia alla realizzazione dei progetti di coloro che si sono autoproclamati “padroni del mondo”.
Quali sono dunque questi “interessi nazionali” che la classe dirigente americana si riserva di invocare quando, come e dove le pare?
In verità, questa classe punta esclusivamente ad un solo obiettivo: i dollari. Da parte sua lo Stato nordamericano si propone apertamente, come compito prioritario, di soddisfare le esigenze della cupola dominante del capitale costituito dalle transnazionali degli Stati Uniti. Noi tutti siamo perciò diventati, agli occhi dell’establishment di Washington, “pellirosse”, ossia popoli la cui esistenza dipende dalla misura in cui non si oppongono all’espansione del capitale transnazionale americano. Ci promettono anche che ogni resistenza verrà repressa con ogni mezzo, compreso, se necessario, lo sterminio. La nuova frontiera ideologica è ispirata da una comparazione contabile agghiacciante: quindici milioni di dollari di sovrapprofitti supplementari possono valere, per le multinazionali americane, una contropartita di cento milioni di vittime, senz’alcuna esitazione. Lo Stato “padrone” per eccellenza, onnipresente nel linguaggio di Bush padre, di Clinton e di Bush figlio, si identifica oggi con gli Stati Uniti d’America.

Un disegno imperialista

Questo progetto è certamente imperialista, nel senso più brutale del termine, ma non è affatto imperiale nel senso che Toni Negri gli attribuisce, in quanto esso non si propone di gestire l’insieme delle società del pianeta per integrarle in un sistema capitalistico coerente, ma più semplicemente di saccheggiare le altrui risorse.
La riduzione del pensiero sociale agli assiomi basilari dell’economia volgare, l’attenzione unilaterale rivolta alla massimizzazione della redditività finanziaria a breve termine del capitale dominante, rafforzata dal dispiegamento persuasivo di una soverchiante potenza militare, sono gli elementi fondamentali di questa barbara deriva che il capitalismo si porta appresso da quando si è sbarazzato dall’effimero sistema dei valori umani sostituendoli con le esigenze esclusive di sottomettere tutto e tutti alle sue leggi di mercato. Il processo storico formativo del capitalismo nordamericano mostra questi caratteri molto più di quelli presenti nella formazione delle società europee, in quanto lo Stato americano e la sua visione politica sono stati modellati per servire unicamente l’economia e trascurano totalmente il rapporto contraddittorio e dialettico tra le due nozioni economia/politica. Il genocidio dei nativi americani, la schiavitù dei neri, l’alternarsi di ondate d’immigrazione hanno deviato il confronto conflittuale tra i vari raggruppamenti etnici, portatori di pretese identità comunitarie (sapientemente manipolate dalla classe dirigente) a scapito della crescita di una robusta coscienza di classe, creando le condizioni di una gestione politica della società americana basata su un partito unico del capitale composto di due segmenti distinti(democratici e repubblicani), che tuttavia condividono le stesse visioni strategiche globali, anche se gli approcci retorici di ciascuno sono funzionali ai rispettivi gruppi di pressione (lobbies). È un sistema perverso, che restringe gli spazi di democrazia e che convince meno della metà del popolo americano ad usare il proprio diritto di voto. Priva della tradizionale presenza di partiti operai, socialdemocratici e comunisti, che hanno segnato e pesato nei processi formativi della cultura politica europea moderna, la società americana non dispone di strumenti ideologici che le consentano di resistere alla dittatura del capitale, rimasta così priva di contrappesi. È al contrario quest’ultimo che forma e modella unilateralmente il modo di pensare della società in tutte le sue dimensioni, riproducendo e rafforzando un “patriottismo” razzista che le permette di considerare l’America il nuovo Herrenvolk. “Clinton playboy, Bush cowboy, stessa politica”: questo slogan, udito ovunque in India, pone giustamente l’accento sulla natura del partito unico che gestisce la pretesa democrazia americana.

Un brutale progetto egemonico

Da questo punto di vista il progetto nordamericano non è un banale progetto egemonico paragonabile agli altri che si sono avvicendati nella storia moderna e antica, dotati comunque di una visione d’insieme dei problemi, che ha permesso loro di dare risposte coerenti e stabilizzanti benché fondate sullo sfruttamento e la disuguaglianza politica. Quello americano è invece infinitamente più brutale per la sua concezione unilaterale semplice ed estrema, e, sotto questo profilo, assomiglia sempre più al progetto nazista, parimenti fondato sul principio esclusivo dell’Herrenvolk. Questo progetto degli Stati Uniti non ha nulla a che vedere con quella che viene definita dagli intellettuali liberali americani un’egemonia “benigna”, cioè indolore. Se questo progetto dovesse imporsi, col tempo non potrebbe che generare un caos sempre più grande, imponendo una gestione sempre più dura, colpo su colpo, senza alcuna visione strategica a lungo termine. Washington potrebbe rinunciare persino all’idea di rafforzare i legami con i suoi tradizionali alleati, a scanso di fastidiose querele diplomatiche ed inevitabili concessioni. Governi fantoccio, come quello di Karzai in Afghanistan, sono la forma ideale per appagare il delirio di potenza militare e la convinzione della propria invincibilità. Lo stesso modo di pensare di Adolf Hitler.

3. L’esame dei rapporti tra questo progetto criminale e le realtà diversificate del capitalismo dominante, costituito dall’insieme dei Paesi della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) permette di misurarne forze e debolezze.
L’opinione generale più diffusa, veicolata dai mass-media con scarsi approfondimenti analitici, è che la potenza militare degli Stati Uniti sarebbe solo la punta dell’ iceberg, che occulta la superiorità assoluta di questo Paese in ogni ambito soprattutto economico, e dunque politico e culturale. Sottomettersi alla sua egemonia, come esso pretende, sarebbe quindi una dura ma ineludibile necessità.
L’esame delle realtà economiche smentisce questa opinione. Il sistema produttivo degli Stati Uniti è ben lungi dall’essere “il più efficiente del mondo”. Al contrario, nessuno dei suoi molteplici settori sarebbe in grado di vincere la concorrenza su di un mercato veramente aperto, come lo immaginano gli economisti liberali. Ne è conferma il deficit della bilancia commerciale statunitense, che si aggrava di anno in anno, dai 100 miliardi di dollari del 1989 ai 450 del 2000. Questo deficit coinvolge praticamente tutti i settori del sistema produttivo.
Persino le eccedenze positive di cui beneficiavano gli Stati Uniti nel campo dei beni ad alta tecnologia, che erano di 35 miliardi di dollari nel 1990, sono discese sotto il segno meno. La concorrenza nel campo spaziale tra l’Arianne europeo ed i missili della NASA, tra Airbus e Boeing, testimonia la crescente precarietà del vantaggio americano.Di fronte all’Europa ed al Giappone produttori di alta tecnologia, alla Cina, Corea e agli altri Paesi industrializzati dell’Asia e dell’America Latina per i prodotti manifatturieri di largo consumo, di fronte all’Europa ed al cono sud dell’ America Latina per l’agricoltura, gli Stati Uniti non potrebbero spuntarla senza ricorrere a mezzi “extraeconomici”, in permanente violazione dei principî liberisti imposti ai concorrenti!
Infatti, gli Stati Uniti traggono molti più vantaggi comparativi dal settore degli armamenti, perché è quello che normalmente sfugge alle regole del mercato ed usufruisce del sostegno dello Stato. Senza dubbio questo vantaggio ha un effetto trainante per alcuni settori civili (Internet ne è l’esempio più conosciuto), ma resta tuttavia all’origine di gravi distorsioni che costituiscono veri handicap per molti settori produttivi.

USA: un’economia parassitaria

L’economia americana vive in modo parassitario a detrimento dei suoi partners operanti nel sistema mondiale. “Gli Stati Uniti dipendono per il 10% dei loro consumi industriali da beni la cui importazione non è compensata da esportazioni di prodotti nazionali (E. Todd: Dopo l’ Impero, p.80).
La crescita degli anni di Clinton, vantata come successo del “liberismo” cui l’Europa avrebbe “sfortunatamente” resistito, è stata in larga misura drogata, e in ogni caso non generalizzabile, perché si è basata sui trasferimenti di capitali verso gli USA che hanno causato la stagnazione dei Paesi partners. Per tutti i settori del sistema produttivo reale, la crescita degli Stati Uniti non è stata affatto superiore a quella europea. Il “miracolo americano” si è esclusivamente alimentato dell’aumento delle spese prodotte dall’aggravarsi delle disuguaglianze sociali (servizi finanziari e personali: legioni di avvocati e investigatori privati, ecc.). In questo senso, il liberalismo clintoniano ha spianato il terreno allo sbocco reazionario ed alla vittoria di Bush junior. Per giunta, come scrive Todd (cit. p.84), “gonfiato dagli imbrogli, il PIL americano comincia a somigliare, quanto ad affidabilità statistica, a quello dell’ URSS”!
Il mondo produce, gli USA (il cui risparmio nazionale è praticamente nullo) consumano. Il “vantaggio” degli Stati Uniti è quello di un predatore, il cui deficit è coperto dagli altri, per amore o per forza. I mezzi messi in opera da Washington per compensare i propri disavanzi sono di varia natura: violazioni unilaterali e reiterate dei principî del libero commercio, esportazioni di armi (60% del mercato mondiale) imposte oltre misura ad alleati subalterni, i quali – come nel caso dei Paesi del Golfo – non utilizzeranno mai tali armi se non nelle parate, ricerca di sovrapprofitti petrolieri (ottenuti con l’imposizione di leggi jugulatorie ai Paesi produttori, e diventati motivi reali delle guerre in Asia Centrale e Iraq).
L’essenziale del deficit americano è coperto dagli apporti di capitali provenienti da Europa e Giappone, nonché dal Sud del mondo (cioè dai Paesi produttori di petrolio e dalla borghesia compradora di tutti i Paesi del terzo mondo, compresi i più poveri), cui si deve aggiungere la pressione esercitata a titolo di servizio del debito imposto sulla quasi totalità del sistema mondiale.
Le ragioni che spiegano la persistenza del flusso di capitali che alimentano il parassitismo dell’economia e della società americana e permettono a questa superpotenza di vivere alle spalle del pianeta sono certo complesse. Sarebbe tuttavia errato considerare tali ragioni espressione di una presunta “legge del mercato”o di altri fattori razionali ed ineludibili.

La solidarietà tra i settori dominanti del capitale multinazionale di tutti i Paesi della triade è un fattore reale, che si manifesta con la loro piena collocazione nel sistema neoliberista globalizzato. Gli Stati Uniti sono visti in questa prospettiva come difensori (anche militari ove necessario) di tali “interessi comuni”. Resta il fatto che Washington non intende spartire equamente i profitti della sua leadership. Anzi, gli Stati Uniti impiegano ogni mezzo per rendere i propri alleati vassalli, e sono disponibili, in rari casi, solo a modeste concessioni. Si pone quindi l’interrogativo: può questo conflitto di interessi tra i vari gruppi del capitale dominante giungere fino al punto di rottura dell’ Alleanza Atlantica? Possibile, ma improbabile.

L’Europa: sarà di sinistra o non sarà

Il conflitto di interessi, che è reale e lo rimane, mostra la tendenza a spostarsi su di un altro terreno: quello delle culture politiche. In Europa rimane sempre aperta un’alternativa di sinistra. Questa alternativa renderebbe possibile una rottura col neoliberismo, consentendo al capitale europeo di misurarsi apertamente con quello americano sul terreno della concorrenza economica, favorendo il superamento dell’allineamento subalterno alle strategie politiche statunitensi. L’eccedenza di capitali che finora l’Europa esporta negli Stati Uniti potrebbe venir destinata ad una ripresa economica e sociale altrimenti impossibile. Ma qualora l’Europa scegliesse questa via per conferire priorità al suo progresso economico e sociale, l’economia americana colerebbe a picco, e la classe dirigente americana dovrebbe fronteggiare enormi problemi sociali. In questo senso traggo una mia conclusione:” L’Europa sarà di sinistra o non sarà”.
Per arrivarci occorre dissipare l’illusione che la carta del liberismo dovrebbe/potrebbe venir giocata “onestamente” da tutti, e che in tal caso tutto sarebbe più facile. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alle loro scelte a favore di un’applicazione asimmetrica del liberismo, perché è questo il loro solo mezzo di compensare i propri smisurati disavanzi. La “prosperità” america-na ha come prezzo la stagnazione di tutti gli altri.
Perché dunque, ad onta di queste evidenze, continua il flusso di capitali a pro degli Stati Uniti? Per molti il motivo è semplicissimo: gli Stati Uniti sono lo Stato dei ricchi, e perciò quel rifugio è il più sicuro. Di ciò sono convinte le borghesie compradore del Terzo Mondo. Ma nel caso degli europei? Il virus liberale – e l’illusione che gli Stati Uniti finiranno per accettare le regole del “libero mercato” – agisce negativamente sull’opinione pubblica. Il principio della “libera circolazione dei capitali” è stato santificato dal FMI solo per consentire agli USA di coprire il loro deficit risucchiando i ricavi finanziari generati altrove dalle politiche neoliberiste, cui tuttavia gli USA non si sottomettono se non in maniera assai selettiva. Eppure il grande capitale è convinto che i vantaggi di questo sistema siano maggiori degli inconvenienti, per cui viene accettato il tributo da pagare a Washington per assicurarsene la continuità.
Ci sono Paesi cosiddetti “poveri indebitati” che sono obbligati a pagare duramente. Ma c’è pure una grande potenza indebitata, di cui già si sa che non rimborserà mai i propri debiti. Questo vero tributo imposto dagli Stati Uniti col ricatto politico si dimostra in realtà assai fragile.

USA: il senso della scelta militarista

4. La scelta militarista dell’establishment americano si colloca dentro questa prospettiva. Non è difficile constatare che gli Stati Uniti non hanno altri mezzi per imporre la loro egemonia economica.
Le cause che sono all’origine dell’indebolimento del sistema produttivo statunitense sono complesse. Non sono certo congiunturali, altrimenti potrebbero esser corrette con l’adozione di un tasso di cambio equo del dollaro, o la costruzione di più favorevoli rapporti salari/produttività. Le cause sono in realtà strutturali. La mediocrità del sistema di insegnamento generale e della formazione culturale è frutto di un radicato pregiudizio che favorisce sistematicamente il “privato” a scapito del “pubblico”, e rappresenta una delle maggiori cause della crisi profonda che attraversa la società americana.
Appare sorprendente che gli europei, lungi dal trarre le ovvie conseguenze che l’economia drogata degli USA imporrebbe, si sforzino invece di imitarla. Ma anche in questo caso il virus neoliberista non spiega tutto, benché espleti funzioni molto utili al sistema, paralizzando politicamente la sinistra. Le privatizzazioni ad oltranza, lo smantellamento dei servizi sociali, non potranno che ridurre i vantaggi comparativi di cui ancor gode la “vecchia Europa”(come la chiama Bush). Ma quali che siano i danni che causeranno a lungo termine, questi provvedimenti offrono al capitale dominante, che guarda solo al breve termine, l’occasione di profitti supplementari.
L’opzione militarista degli Stati Uniti è una minaccia per tutti i popoli. Essa procede con la stessa logica che fu già di Hitler: modificare con la violenza militare i rapporti economici e sociali a favore dell’ odierno Herrenvolk . Questa opzione, imponendosi al centro della scena, determina e condiziona tutte le congiunture politiche, nella misura in cui si dispiega ed avanza, indebolisce all’estremo le prospettive di progresso che i popoli potrebbero conquistare con le loro lotte sociali e democratiche.
Sconfiggere il progetto militarista americano diviene pertanto il compito principale, la responsabilità primaria di noi tutti.
L’oppressione militare non si limiterà ai Paesi che oggi ne sono direttamente vittime. Il controllo militare del pianeta mira a colpire la Russia, la Cina, l’India, l’Iran. Mentre sottopongono questi Paesi al ricatto permanente di intervento militare, gli Stati Uniti stanno occupando a macchia d’olio postazioni e basi avanzate in Medio Oriente e nell’ Asia centrale. Il controllo esclusivo di Washington sulle maggiori risorse petrolifere del pianeta rende l’Europa sempre più subalterna. Il Plan Colombia costituisce a sua volta una minaccia permanente di intervento, diretta principalmente contro il Brasile. L’establishment di Washington non nasconde le proprie intenzioni: esso teme moltissimo i “grandi Paesi” che un giorno o l’altro potrebbero resistergli, ed è deciso ad impedire con tutti i mezzi, anche militari, che si rafforzino a tal punto da costituire una minaccia per il dominio planetario degli USA.
La lotta per fronteggiare e sconfiggere il progetto americano è certo multiforme. Essa comprende aspetti diplomatici (difesa del diritto internazionale), militari (il riarmo di tutti i Paesi del mondo per far fronte all’aggressione è una necessità – non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno utilizzato le armi nucleari quando ne avevano il monopolio, e solo quando lo hanno perso hanno rinunziato al loro impiego) e politici (con particolare attenzione a tutto ciò che riguarda l’edificazione europea e la ricostruzione di un fronte di Paesi non allineati).
Il successo della lotta dipenderà dalla capacità e dalla volontà di liberarsi dalle illusioni neoliberiste, in quanto non potrà mai esistere un’economia mondializzata “autenticamente liberale”, anche se si tenta e si continuerà a tentare con tutti i mezzi di realizzarla.
I discorsi della Banca Mondiale, che opera come una sorta di ministero della propaganda di Washington, circa la “democrazia”, il “buon governo” o la “riduzione della povertà”, non hanno altra funzione, come conferma il polverone mediatico sollevato da Joseph Stigliz, che di “scoprire” qualche verità elementare, affermata con arrogante autorità, senza però trarne le ovvie conclusioni, ossia rimettendo in circolazione i tenaci pregiudizi dell’economia volgare. La ricostruzione di un fronte del Sud capace di sviluppare la solidarietà dei popoli dell’Asia, dell’Africa e della Tricontinentale, ed una loro capacità di azione su scala mondiale, può fondarsi solo sulla demistificazione delle illusioni circa un sistema liberale mondializzato “non asimmetrico”, che permetta alle nazioni del terzo mondo di superare i loro “ritardi”. Non è forse grottesco che i Paesi del Sud richiedano “l’attuazione dei principi del liberalismo senz’alcuna discriminazione” tra gli applausi della Banca Mondiale? Da quando in qua quest’ultima difende il terzo mondo contro gli Stati Uniti?

La lotta contro l’imperialismo americano

La lotta contro l’imperialismo americano e la sua opzione militarista dev’essere lotta di tutti i popoli, delle sue principali vittime in Asia, Africa e America Latina, dei popoli europei e giapponese condannati alla subordinazione, ma anche del popolo nordamericano. Salutiamo qui il coraggio di coloro che “nella tana della belva” rifiutano di sottomettersi così come i loro predecessori rifiutarono la resa al maccartismo degli anni Cinquanta. All’America democratica spetta il compito più difficile, a somiglianza di quelli che hanno osato resistere a Hitler, conquistandosi il più alto titolo di nobiltà che la storia possa conferire. La classe dominante degli Stati Uniti sarà in grado di riesaminare criticamente il progetto criminale che essa stessa ha partorito? Non è facile rispondere. Poco o nulla della storia socio-politica americana lascia supporre che un tale ravvedimento sia possibile. Il Partito unico del capitale, il cui potere non è mai stato seriamente contestato negli Stati Uniti, non ha mai rinunciato all’avventura militare, ed in tal senso le responsabilità delle sue classi dirigenti complessivamente considerate non vanno attenuate. Il potere di Bush non è quello di una “cricca” circoscritta ai petrolieri e fabbricanti d’armi. Come in tutta la storia moderna, il potere dominante non è mai stato altro che una coalizione di interessi settoriali del capitale (impropriamente definiti lobbies). Ma questa coalizione può governare solo a condizione di essere accettata da tutti i settori del capitale.
Il rispetto del diritto non è una virtù che appartenga ai governanti americani. Lo dimostra il delirante “progetto per il nuovo secolo americano” firmato Donald Rumsfeld.
Rimane la speranza che qualche sconfitta politica, diplomatica e forse anche militare, possa incoraggiare le minoranze presenti nell’ estabilshment di Washington a desistere dalle avventure militari in cui si è impantanata la maggioranza. Sperare di più mi pare al momento azzardato. Potrebbe apparire simile al tentativo di far rinsavire Adolf Hitler.
Se nel 1935 o negli anni successivi gli europei fossero stati capaci di agire, avrebbero potuto arrestare il delirio hitleriano. Cedere alla sua follia rimandando la reazione al settembre 1939 è costato all’ Europa decine di milioni di vittime. Facciamo tesoro dell’esperienza e comportiamoci in modo che la risposta alla sfida neonazista di Washington sia più pronta.

traduzione a cura di S. R.