La strategia della “Grande NATO”

Nella Dichiarazione del Summit di Strasburgo/Kehl, con cui sono stati celebrati i sessant’anni della Nato, i capi di stato e di governo dei ventotto paesi membri hanno ribadito, il 4 aprile 2009, che «il nuovo Concetto Strategico determinerà il ruolo a lungo termine della Nato». La sostituzione, negli Stati Uniti, della presidenza Bush con quella Obama non ha dunque portato a un cambiamento di rotta nella strategia dell’Alleanza.

DALLA GUERRA FREDDA AL DOPO GUERRA FREDDA

La Nato, fondata sessanta anni fa il 4 aprile 1949, comprende durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14 maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968). Nel novembre 1989 avviene il «crollo del Muro di Berlino»: è l’inizio della riunificazione tedesca che si realizza quando, nell’ottobre 1990, la Repubblica Democratica si dissolve aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Nel luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell’Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Nel dicembre 1991, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici. La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Ne approfittano immediatamente gli Stati Uniti, che riorientano la propria strategia con la prima guerra del Golfo.

IL NUOVO CONCETTO STRATEGICO: GUERRE NEI BALCANI ED ESPANSIONE A EST

Quella del Golfo, nel 1991, è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall’invasione di Grenada all’operazione contro il Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove sono concentrati i due terzi delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia: «Nonostante l’emergere di nuovi centri di potere, gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana».

Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso dell’Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha tenuto finora coesa la Nato sotto l’indiscussa leadership statunitense: vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica creatasi nella regione europea. Nel novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo, a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza»: definendo il concetto di «sicurezza» come qualcosa che non è circoscritto all’area nord-atlantica, si comincia a delineare la «Grande Nato». Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo concetto strategico» viene messo in pratica nei Balcani. In Bosnia, dopo il voluto «fallimento dell’Onu», la Nato interviene nel 1994, con la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza. Segue la guerra contro la Iugoslavia, nel 1999. Gli Stati Uniti riescono così a far scoppiare una guerra (che avrebbe potuto essere evitata) nel cuore stesso dell’Europa, rafforzando la loro influenza nella regione europea nel momento critico in cui se ne ridisegnano gli assetti politici, economici e militari. Mentre è in corso la guerra contro la Iugoslavia, viene convocato a Washington, nell’aprile 1999, il vertice Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: da alleanza che, in base all’articolo 5 del trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell’area nordatlantica, essa viene trasformata in alleanza che impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza».

Inizia contemporaneamente l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. Nel 1999 essa ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’ Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile 2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato. Ciò permette agli Usa di spostare forze e basi militari sempre più a est.

Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della UE un’Europa basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Basti pensare che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, sempre un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono. Al vertice di Bucarest (aprile 2008) i paesi della Nato approvano, all’unanimità, il «dispiegamento di installazioni statunitensi di difesa missilistica basate in Europa», affermando che esse forniranno un «sostanziale contributo alla protezione degli Alleati da missili balistici a lungo raggio». Più realista del re, il governo Prodi non attende neppure la luce verde della Nato, ma nel febbraio 2007 firma segretamente al Pentagono un accordo bilaterale per mano del ministro della difesa Arturo Parisi.

LA NATO ALLARGATA SOTTO LO “SCUDO” USA

Il piano statunitense prevede l’installazione dei primi 10 missili intercettori in Polonia e di una stazione radar nella Repubblica ceca. La funzione dei missili intercettori è distruggere i missili balistici nemici una volta lanciati. Il sistema è però ancora lontano dall’essere affidabile, come dimostra il fallimento di diversi test. Ma se un giorno gli Stati Uniti riuscissero a realizzare uno «scudo» affidabile, essi disporrebbero di un sistema non di difesa ma di offesa: sarebbero infatti in grado di lanciare un first strike contro un paese dotato anch’esso di armi nucleari, fidando sulla capacità dello «scudo» di neutralizzare o attenuare gli effetti di una eventuale rappresaglia. Proprio per questo Usa e Urss avevano stipulato nel 1972 il Trattato Abm che proibiva tali sistemi, ma l’amministrazione Bush lo ha affossato nel 2002. Ufficialmente, l’installazione dei missili intercettori in Europa dovrebbe servire a proteggere gli Stati Uniti e l’Europa stessa dai missili balistici dell’Iran e della Corea del nord. Nessuno di questi paesi ha però oggi missili in grado di minacciare gli Stati Uniti e l’Europa. Secondo Mosca, invece, il piano Usa di installare missili intercettori nell’Europa orientale mira ad acquisire un ulteriore vantaggio strategico sulla Russia. Va qui ricordato che, nonostante la fine della guerra fredda, resta in Europa parte dell’arsenale nucleare statunitense, cui si aggiungono quello della Sesta flotta e gli arsenali nucleari britannico e francese. Da documenti ufficiali declassificati – resi pubblici nel rapporto U.S. Nuclear Weapons in Europe, pubblicato nel febbraio 2005 dal Natural Resources Defense Council – risulta che gli Stati Uniti, in base a una decisione presa dal presidente Clinton nel novembre 2000 (Directive/NSC-74), mantengono in Europa almeno 480 bombe nucleari, di cui almeno 90 in Italia. Per di più, nell’aprile 1999, i paesi europei della Nato sottoscrivono un accordo sulla «pianificazione nucleare collettiva», in cui si stabilisce che «l’Alleanza conserverà forze nucleari adeguate in Europa, con caratteristiche di flessibilità e capacità di sopravvivenza tali da essere percepite come un elemento credibile ed efficace nella strategia atlantica di prevenzione dei conflitti». Tale strategia, consistente nel «prevenire i conflitti» tenendo gli altri sotto mira con le proprie armi nucleari, fa propria la «Direttiva 60» promulgata nel 1997 dal presidente Clinton: essa stabilisce che le armi nucleari non solo continuano a essere puntate su Russia e Cina, ma possono essere usate contro «stati canaglia» e perfino contro «soggetti non-statali che minaccino gli Stati Uniti, le loro truppe all’estero e i loro alleati con armi di distruzione di massa», anche non nucleari. Oltre a quello strategico nucleare, gli Usa possono acquisire un altro importante vantaggio installando in Europa stazioni radar, tipo quella che intendono collocare nella Repubblica ceca. Essa sarebbe la prima installazione di una rete di sofisticati centri di intelligence, attraverso cui il Pentagono potrebbe monitorare, più efficacemente di quanto è in grado di fare oggi, non solo il territorio russo ma l’intero territorio europeo. L’ulteriore vantaggio per Washington sarebbe quello di avere in mano un altro strumento per impedire che l’Unione europea possa un giorno rendersi militarmente autonoma dagli Stati Uniti. L’intero sistema di stazioni radar e postazioni missilistiche in Europa dipenderebbe infatti dal Centro di comando, controllo, gestione della battaglia e comunicazioni, all’interno della catena di comando che fa capo al presidente degli Stati Uniti d’America. Inoltre, estendendo lo «scudo» all’Europa, gli Usa potrebbero scaricare sugli alleati parte dei costi e coinvolgerli nel suo sviluppo tecnologico. La Russia annuncia che, se verrà installato in Europa lo «scudo» statunitense, prenderà delle contromisure, adottando «metodi adeguati e asimmetrici». Essa potrebbe anche ritirarsi dal Trattato Inf del 1987, che ha permesso di eliminare i missili nucleari a raggio intermedio in Europa.

LA “FORZA DI RISPOSTA” DELLA NATO

Prosegue allo stesso tempo l’applicazione del «nuovo concetto strategico » della Nato. Nell’ottobre 2006, il comandante supremo alleato in Europa annuncia la nascita della Nato Response Force (Nrf). L’evento viene definito «uno dei più importanti cambiamenti nell’Alleanza atlantica dalla firma del Trattato di Washington». La Nrf non è una forza permanente, caratterizzata da una conformazione fissa, ma viene «conformata a seconda delle esigenze delle specifiche operazioni e in grado di trasferirsi rapidamente ovunque è necessario». E’ costituita di corpi scelti, messi a disposizione con un meccanismo a rotazione dai paesi della Nato. Sostenuti da forze aeree e navali, essi sono pronti ad essere proiettati in lontani teatri bellici nel giro di 5 giorni. La Nrf è in grado di rimanervi per un mese senza essere rifornita e, se rifornita, per un tempo maggiore. La Nato Response Force «è di vitale importanza per affrontare le nuove e pericolosissime minacce del 21° secolo, che sono molto differenti da quelle della guerra fredda». Si prevede il suo impiego in diverse situazioni: per «una dimostrazione di forza allo scopo di scoraggiare un’aggressione»; per «la difesa collettiva in base all’articolo 5»; per «la gestione delle crisi e la stabilizzazione in base al non-articolo 5». E’ soprattutto quest’ultima la missione della Nrf. Anch’essa è dunque frutto dell’operazione di ingegneria genetica compiuta al vertice di Washington dell’aprile 1999, quando la Nato è stata trasformata in alleanza che, in base al nuovo «concetto strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». Ora, con la nuova forza, ufficialmente definita «il centro della trasformazione della Nato», tale capacità viene notevolmente potenziata. Viene così completata la struttura strategica della «Grande Nato» che, dall’area atlantica, estende ora le sue operazioni militari fin sulle montagne afghane.

LA NATO IN AFGHANISTAN

La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1386 nel dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Ma improvvisamente, nell’agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf». A guidare la missione, dall’agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». E poiché il «comandante supremo alleato» è sempre un generale statunitense, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Per capire l’importanza dell’Afghanistan, basta guardare la carta geografica: esso è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse ». Da qui la necessità di «pacificare » l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato. L’Afghanistan ? sottolinea la «Dichiarazione sulla sicurezza dell’Alleanza», emessa dal Consiglio Nord-Atlantico nell’aprile 2009 ? è «la nostra priorità chiave».

LA NATO DIETRO L’ATTACCO GEORGIANO ALL’OSSEZIA DEL SUD

Nella sua espansione a est, la Nato fa leva in particolare sulla Georgia, fornendo armi e istruttori alle sue forze armate. Contemporaneamente viene orchestrata, con la regia di Washington, la «rivoluzione delle rose», che porta nel 2003 alla caduta del presidente Eduard Shevardnadze. Come scrive lo stesso Wall Street Journ a l, l’operazione viene condotta da fondazioni statunitensi formalmente non-governative, in realtà finanziate e dirette dal governo Usa, che «hanno allevato una classe di giovani intellettuali, capaci di parlare inglese, affamati di riforme filo-occidentali». Militarmente, economicamente e politicamente, la Georgia è quindi controllata da Washington, che ne fa un avamposto della penetrazione statunitense e Nato nell’Asia centrale ex sovietica: Dalla Georgia passa l’oleodotto che collega il porto azero di Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo: un «corridoio energetico », promosso nel 1999 dall’amministrazione Clinton e aperto nel 2005, che aggira la Russia a sud. Per proteggere l’oleodotto, realizzato da un consorzio internazionale con a capo la britannica Bp, il Pentagono addestra forze georgiane di «risposta rapida». Al vertice di Bucarest (aprile 2008), la Nato «accoglie favorevolmente le aspirazioni di Georgia e Ucraina a divenire membri dell’Alleanza». Questo, nonostante il chiaro avvertimento di Putin che la Russia considera «la formazione di un potente blocco militare ai suoi confini quale una diretta minaccia alla propria sicurezza ». Dopo il vertice, la collaborazione tra Nato e Georgia si rafforza. Il 20 giugno 2008, sette settimane prima dell’attacco georgiano all’Ossezia del sud, il presidente Saakashvili visita il quartier generale della Nato a Bruxelles, dove incontra il segretario generale Jaap de Hoop Scheffer. Il 23 luglio, due settimane prima dell’attacco, navi da guerra del Nato Maritime Group 2 visitano il porto georgiano di Batumi. Nel frattempo inizia in Georgia la I m m e d i a t e Response 2008, una esercitazione militare con la partecipazione di truppe di Stati Uniti, Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Armenia, durante la quale mille soldati Usa vengono dislocati nella base di Vaziani, a meno di 100 km dal confine con la Russia. A questo punto, con l’attacco georgiano all’Ossezia del sud l’8 agosto ? che, direttamente o indirettamente, ha avuto luce verde a Washington e Bruxelles ? la corda si rompe. La Russia interviene militarmente per arrestare il massacro della popolazione nell’Ossezia del sud. La Nato la accusa di «uso sproporzionato della forza». E intanto invia navi da guerra nel Mar Nero.

IL SOSTEGNO NATO A ISRAELE

Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare. Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica. Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ‘90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico. Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Av i v, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare». In marzo si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele- Nato. In giugno, ,la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto. In luglio, truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina. Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato». In ottobre, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour». Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale » con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente »: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato- Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione). L’11 gennaio 2009, circa due settimane dopo l’inizio dell’attacco israeliano a Gaza, il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer si reca in visita ufficiale in Israele nel quadro del «Dialogo mediterraneo ». Nel suo discorso, ribadisce che «Hamas, con i suoi continui attacchi di razzi contro Israele, si è addossato la responsabilità delle tremende sofferenze del popolo che dice di rappresentare». Loda quindi Israele per aver aderito con il «massimo entusiasmo» al «Dialogo mediterraneo », il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In quello stesso momento le forze israeliane stanno massacrando la popolazione di Gaza.

LA NATO “A CACCIA DI PIRATI” NELL’OCEANO INDIANO

Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2), entra nell’Oceano Indiano. Esso fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente assegnato a un ammiraglio statunitense (attualmente Mark P. Fitzgerald), lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo». Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». E’ chiaro che, dietro questa missione Nato, vi è ben altro. In Somalia, la politica statunitense ha subìto un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala. Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati Uniti. E’ nella sua «area di responsabilità » che viene inviato il gruppo navale Nato. Esso ha però anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.

IL “NUOVO MODELLO DI DIFESA” DELL’ITALIA

Questa strategia è fatta propria anche dall’Italia, dal momento in cui nel 1991, sotto il sesto governo Andreotti, essa partecipa alla guerra del Golfo: i Tornado dell’aeronautica italiana effettuano 226 sortite per complessive 589 ore di volo, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. E’ la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della Costituzione. Subito dopo la guerra del Golfo, durante il settimo governo Andreotti, il ministero della difesa italiano pubblica, nell’ottobre 1991, il rapporto Modello di Difesa/Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ‘90.

Il documento riconfigura la collocazione geostrategica dell’Italia, definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico». Considerata la «significativa vulnerabilità strategica dell’Italia» soprattutto per l’approvvigionamento petrolifero, «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la conservazione e il progresso dell’attuale assetto politico e sociale della nazione». Il «nuovo modello di difesa» passa di mano in mano, da un governo all’altro, dalla prima alla seconda repubblica, senza mai essere discusso in quanto tale in parlamento. A elaborarlo e applicarlo sono i vertici delle forze armate, ai quali i governi lasciano piena libertà decisionale, pur trattandosi di una materia di basilare importanza politica per la Repubblica italiana. Nel 1993 – mentre l’Italia sta partecipando all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi – lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici».

Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa. «La politica della difesa – afferma il generale Angioni – diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera». Nel 2005, durante il governo Berlusconi, il capo di stato maggiore della difesa annuncia in due documenti ufficiali che, di fronte alla «minaccia globale del terrorismo» e alla «trasversatilità e imprevedibilità delle future minacce», occorre «sviluppare capacità di prevenzione e quando necessario di intervento efficace e tempestivo anche a grande distanza dalla madrepatria». Le forze armate italiane devono ope- rare nelle «aree di interesse nazionale », ossia in quelle zone geografiche «nelle quali e verso le quali è possibile che l’autorità politica decida di intraprendere iniziative, anche di carattere militare, al fine di salvaguardare gli interessi del paese ». Al primo posto vi sono le aree di «interesse strategico» che al momento comprendono, oltre a quelle della Nato e della Ue, i Balcani, l’Europa orientale, la regione del Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il vicino e medio Oriente e il Golfo persico. A tal fine è stata intrapresa una pianificazione a lungo termine per creare uno «strumento proiettabile», dotato di spiccata capacità «expeditionary » coerente col «livello di ambizione nazionale». Viene in tal modo istituita una nuova politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera la quale, usando come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale, affermato dall’Articolo 11, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali ». Questa politica, introdotta attraverso decisioni apparentemente tecniche, viene di fatto istituzionalizzata passando sulla testa di un parlamento che, in stragrande maggioranza, se ne disinteressa o non sa neppure che cosa precisamente stia avvenendo.

A SIGONELLA L’OCCHIO E L’ORECCHIO DEL GRANDE FRATELLO NATO

Mentre i riflettori dei media sono puntati il 20 gennaio 2009 sull’inauguration day del presidente Obama, passa pressoché inosservata un’altra inaugurazione di grande rilevanza per l’Italia e l’Europa: quella del sistema Nato Ags (Alliance Ground Surveillance) a Sigonella in Sicilia. La base, che sarà ampliata per ospitare gli 800 militari addetti alla nuova installazione, è stata scelta, rispetto ad altre località in Turchia e Germania, per la sua «centralità strategica nel Mediterraneo». Il sistema Ags ? spiega un comunicato ufficiale ? servirà a sorvegliare non il territorio dei paesi Nato, ma il «terreno», fornendo importanti informazioni «prima e durante le operazioni Nato» in altri paesi. Esso sarà «uno strumento chiave per rendere più incisiva la Forza di risposta della Nato (Nrf)»: fornirà un quadro dettagliato del territorio da occupare, permettendo anche di «individuare e prendere di mira veicoli in movimento». Ciò sarà reso possibile da vari tipi di piattaforme aeree e stazioni di controllo terrestri. Si tratta dunque del più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, finalizzato non alla difesa del territorio dell’Alleanza, ma al potenziamento della sua capacità offensiva «fuori area», soprattutto in quella mediorientale. L’accordo per la creazione di questo sistema è stato sottoscritto dal governo Berlusconi nel novembre 2002, insieme a Stati Uniti, Francia, Germania, Olanda e Spagna. E’ stato quindi costituito un «consorzio transatlantico» di industrie militari, comprendente la Northrop Grumman, General Dynamics, Eads, Thales e Galileo Avionica, che nel 2005 ha ricevuto un primo contratto per l’ammontare di 23 milioni di euro. Solo un piccolo acconto: la Nato stessa lo definisce «uno dei più costosi programmi di acquisizione intrapresi dall’Alleanza », che comporta una spesa di almeno 4 miliardi di euro. Ulteriori impegni sono stati assunti per conto dell’Italia dal governo Prodi, nell’ottobre 2006.

LA CRESCENTE SPESA MILITARE DELLA NATO

Il potenziamento dell’apparato militare Nato e l’invio di forze militari in distanti teatri bellici, come quello afghano, comporta una crescente spesa militare. Secondo i dati ufficiali pubblicati nel febbraio 2009, essa viene portata nel 2008 a 985 miliardi di dollari, equivalenti a quasi i tre quarti della spesa militare mondiale. A tirare la volata sono gli Stati Uniti. In piena crisi, il bilancio militare statunitense viene ulteriormente aumentato dal presidente Barack Obama, salendo a 671 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2010 (che inizia il 1° ottobre 2009). Con ulteriori stanziamenti per le guerre in Iraq e Afghanistan (come gli 83 miliardi richiesti da Obama il 9 aprile 2009) e altre voci di carattere militare, arriva a circa 850 miliardi di dollari, equivalenti a circa un quarto del bilancio federale. Il perché lo spiega lo stesso Obama nel presentare il budget 2010: «Riacquistare la nostra forza economica è fondamentale per la nostra sicurezza nazionale e fonte della nostra leadership globale. Ecco perché questo bilancio stabilisce importanti investimenti nella ricostruzione del nostro settore militare».

Dopo aver inondato il mondo di “titoli tossici” (praticamente privi di valore), e aver così innescato una crisi finanziaria trasformatasi in crisi economica globale, gli Stati Uniti vedono messa in pericolo la «leadership globale» di cui parla Obama. Russia e Cina, tra l’altro, propongono di sostituire il dollaro, principale moneta degli scambi internazionali, con un paniere di monete più affidabili. In tale situazione, gli Stati Uniti ricorrono alla tradizionale politica di gettare la spada sul piatto della bilancia. E lo fanno anche le altre maggiori potenze capitaliste che, pur divise da crescenti contrasti di interesse, si ricompattano quando si tratta di difendere la loro supremazia. E’ questa la «sicurezza» che la Nato ha il compito di realizzare con la propria forza militare. Come scrive sul New York Times il segretario generale della Nato Jaap De Hoop Scheffer, «la sicurezza non è qualcosa di discrezionale, di cui si può fare a meno quando il denaro scarseggia: è il fondamento su cui è costruita la nostra prosperità».