La sinistra italiana tra Kosovo e Obama

L’agosto del 2008 sarà ricordato come il mese nel quale la Russia ha respinto con estrema efficacia l’ennesima provocazione ai propri confini, costata però migliaia di morti civili a seguito dell’aggressione georgiana dell’Ossezia del Sud, parte integrante di un progetto di “stabilizzazione” dell’area e di una successiva e definitiva integrazione della Georgia nella sfera di influenza occidentale. La crisi che ne è seguita – tuttora aperta – nelle relazioni tra USA, UE e NATO da una parte e Russia dall’altra non ha molto a che vedere, però, con un ritorno ad una sorta di nuova Guerra Fredda, situazione quest’ultima particolarmente cara ai grandi mezzi di comunicazione in Italia perché semplice e in grado di giustificare senza ulteriori approfondimenti la discesa in campo a priori a fianco dell’amico aggressore, il presidente georgiano Saakashvili. Non mancano, però, anche coloro che esprimono perplessità e preoccupazioni di fronte alla prospettiva di un ulteriore approfondimento della crisi con Mosca, che finirebbe inevitabilmente per danneggiare gli interessi economici nazionali. I russi hanno più volte mostrato nel corso degli ultimi anni una crescente irritazione di fronte alle politiche aggressive e ricattatorie di USA, UE e NATO, evidentemente vissute come una minaccia alla propria sicurezza e sovranità economica come politica: dai continui tentativi di destabilizzazione dell’Ucraina e di altri paesi della CSI (a partire dalla stessa Georgia, dove l’attuale presidente Saakashvili è salito al potere solamente grazie ad un colpo di stato, per essere poi “legittimato” attraverso un passaggio elettorale) al progetto di scudo antimissile, dal sostegno Occidentale alla secessione violenta del Kosovo, all’allargamento della NATO, ai veti rispetto all’ingresso di Mosca nel WTO. Di fronte a questa situazione, Washington e Bruxelles hanno preferito fare “orecchie da mercante”, trattando la Russia come una sorta di paese coloniale e pensando forse di poter proseguire sulla linea del “bastone e della carota” utilizzata fino ad ora. La Russia di oggi, però, non è la Serbia ridotta allo stremo e presa per fame, costretta di fatto a rinunciare alla propria integrità territoriale e alla propria storia con il ricatto della violenza, dell’isolamento o di una futura quanto incerta integrazione europea. I russi hanno chiarito con ogni evidenza di non essere più disponibili a subire ricatti o intimidazioni, gettando nel panico non tanto gli USA, quanto una sempre più debole e politicamente fatiscente UE, che sa essere forte solamente con i deboli (la Serbia, ad esempio, ma anche il Sudan o il Libano), ma debole con i forti, a partire da Washington. Da una parte, la Polonia chiude un accordo bilaterale con Bush – senza passare da Bruxelles – sullo scudo antimissile, dall’altra l’asse franco-tedesco Sarkozy-Merkel (quanto sono lontani i tempi di Chirac e Shroeder…) si è spinto fino ad ipotizzare sanzioni contro Mosca, ipotesi peraltro immediatamente rientrata, mentre un sempre più screditato Gordon Brown propone di affrancare l’Europa dalla dipendenza energetica verso la Russia. Reazioni scomposte, che denotano una totale assenza di realismo e di prospettiva: si pensa solamente a quale ritorsione assumere nei confronti della Russia, mentre una linea di mediazione con Mosca sarebbe nel pieno interesse dei paesi trainanti l’UE. E dei democratici USA in vista delle ormai prossime elezioni presidenziali del 2009.
Il primo ministro russo, Putin, ha sostenuto in queste settimane che la crisi in Georgia, studiata a tavolino da Washington, rischia di rilanciare Mc Cain e mettere in aperta difficoltà il candidato democratico Obama, reduce da un viaggio trionfale proprio in Europa. Questa argomentazione – senza alcun dubbio “interessata” – possiede però un innegabile fondo di verità. Bush si trova in grande difficoltà tanto sul fronte interno – l’economia in forte rallentamento, con diversi analisti che parlano ormai apertamente di recessione e con le file dei cittadini davanti agli sportelli delle banche per ritirare i propri risparmi (una scena, questa, che si è vista a Buenos Aires poco prima del tracollo argentino) -, quanto sul piano internazionale, con il sempre più evidente fallimento della “guerra al terrorismo”. Il governo iracheno di al-Maliki si è scontrato duramente e apertamente con gli USA sulla data del ritiro delle forze di occupazione, mentre il fronte afghano è in via di costante e deciso peggioramento. Dopo l’ennesima strage di civili, persino il governo fantoccio di Karzai ha alzato la voce chiedendo di punire i colpevoli e limitare le azioni militari, mentre i Talebani sono ormai alle porte di Kabul. Contrariamente alle intenzioni USA, poi, la guerra in Afghanistan ha finito per destabilizzare completamente il vicino Pakistan, paese chiave per gli equilibri dell’intero sud-est asiatico, dove ormai è forte la sensazione di aver perso lo scontro con le milizie islamiche concentrate nella Provincia tribale del Nord-Ovest. Il Presidente Musharraf si è dimesso, il fronte anti-Musharraf al governo si è diviso e il paese è in preda agli attentati e al disordine più completo. Solo un nuovo “fronte” di minaccia e di guerra “ globale” avrebbe potuto e potrebbe salvare Bush e il Partito Repubblicano da una sconfitta più che probabile: il Libano, la Siria, l’Iran o la Bolivia non sarebbero stati forse credibili o sufficienti. Un nuovo scontro con la Russia – parlando in questo modo anche ad altri, grandi paesi che si affacciano sulla scena mondiale – evidentemente sì. Poco importa se la prima vittima sarà proprio l’UE, che a quanto è dato vedere intende rimanere agganciata al carro non solo di Washington ma di Bush in particolare anche contro i propri interessi, costi quel che costi. Obama avrebbe tutto da guadagnare da un calo della tensione e da una ripresa del dialogo, mentre sarebbe in forte difficoltà nel caso di un ulteriore aggravarsi della crisi, prospettiva alla quale stanno lavorando Bush e diversi paesi europei. Che l’UE preferisca Bush ai propri interessi è senza alcun dubbio grave, ma può essere comprensibile: Sarkozy – ed è stato più volte ribadito – segna la fine della tradizione autonoma del gollismo francese e il rientro di Parigi all’interno delle ferree maglie dell’atlantismo, mentre la Merkel rappresenta gli interessi del capitale tedesco più vicini a Washington e la destra tedesca.
Quello che è apparentemente poco comprensibile agli occhi dei più, forse, è l’atteggiamento del PD e di tanta parte della sinistra italiana che, invece di spingere per il dialogo e il multipolarismo, sono i più strenui sostenitori dell’aggressione georgiana e della linea dura nei confronti di Mosca, finendo per favorire il duo Bush- Mc Cain e l’unilateralismo USA, danneggiando Obama. La ragione di questo atteggiamento, per nulla irrazionale o autolesionista, ha un nome e un cognome: Kosovo, ma si potrebbe anche leggere Tibet. Il governo di centro-sinistra guidato da D’Alema è stato tra i protagonisti dell’aggressione militare della NATO contro la Jugoslavia della primavera del 1999, sostenendo poi apertamente le forze fasciste kosovaro-albanesi e la successiva secessione unilaterale della provincia, infischiandosene dell’integrità territoriale serba. Quella stessa sinistra ha “tifato” per i nazionalismi più retrogradi e aggressivi durante la disgregazione violenta della ex-Jugoslavia nel corso degli anni ’90 dello scorso secolo e tifa oggi per il Dalai Lama e lo schiavismo lamaista, infischiandosene dell’integrità territoriale della Cina e dell’uscita dalla povertà di milioni di esseri umani, anche tibetani. Due pesi e due misure, dunque, con un’ipocrisia degna di miglior causa.
Se fossero stati gli Osseti del Nord a volere l’indipendenza e staccarsi dalla Russia, chi in Italia avrebbe preso le difese dell’integrità territoriale russa, a destra come a sinistra? In pochi, probabilmente, esattamente come è avvenuto in questi anni per il Kosovo. Quale differenza si è registrata in queste settimane tra le posizioni del governo Berlusconi – assai prudenti per la verità, ma allineate – e quelle del governo “ombra” del PD? Obama, evidentemente, non vale quanto il Kosovo o il Dalai Lama.

Articolo terminato il 1 settembre 2008