La rivoluzione

Un intellettuale comunista che decide di scrivere un libro sulla rivoluzione – le condizioni necessarie e quelle esistenti, i modi, gli strumenti, i rischi – ha davanti a sé diverse strade percorribili. Può optare per un ponderoso volume per iniziati, che pochi leggeranno ma di cui molti parleranno basandosi sulla fiducia delle interpretazioni, oppure un’opera svelta e accattivante per la sua leggerezza, riproporre il passato o rinnegarlo brutalmente o anche allineare una serie infinita di “l’avevo detto”. La scelta di Raul Mordenti, comunista e docente universitario, è stata diversa, faticosa per lui e impegnativa ma non difficile per il pubblico militante – che ci auguriamo vasto – al quale l’opera è rivolta, che troverà in ogni capitolo notizie sapute e dimenticate, motivi per incazzarsi o per confermare un giudizio, elementi di riflessione, spinte all’azione. Di questi tempi non è poco, anzi.
La rivoluzione. La nuova via al comunismo italiano, Marco Tropea Editore, pagine 280, euro 14.00, è un libro documentatissimo, corredato da molte note e da una bibliografia ampia ed essenziale che si giova della collaborazione di Claudio Gambini, ma nel quale l’elaborazione e l’analisi sono continuamente intrecciate al vissuto politico dell’autore, pur senza tentazioni autobiografiche.
“Ciò che rende comunisti non è il rimpianto, sentimentale ed ingenuo, di un socialismo che non c’è mai stato, è il rifiuto razionale, onesto, intelligente, del capitalismo che c’è”, recitano le prime righe del primo capitolo, che descrive il mondo nel quale viviamo, retto da un sistema sociale e politico insostenibile, in equilibrio fra la ricchezza di una minoranza esigua e la fame del resto dell’umanità, governato da un capitalismo che, contraddicendo Marx, “non si alimenta più della sua vitale estensione organica (che richiederebbe la crescita dei salari) ma solo del sovraconsumo delle classi improduttive…artificialmente indotto dall’ossessione della pubblicità”. “Sembrerebbe che nessuna persona per bene, cioè intellettualmente onesta, possa dirsi liberista” dopo la catastrofe argentina e i guasti che la stessa ricetta provoca nel nostro ed in altrui paesi, ma la presenza ossessiva dei mass media ha creato e mantiene un senso comune che ha decretato la fine delle ideologie (salvo, appunto, quella del capitale) e la fine della classe operaia (nonostante l’aumento dei salariati in tutto il mondo), e la fine della storia, sempre eguale a se stessa e immodificabile. Uno strumento di persuasione occulta, già sperimentato da Mussolini e Goebbels, che sostituisce in larga misura la repressione, che pur si mantiene come arma di riserva o di supporto.
A questo aberrante e stupido “senso comune” non è sfuggita la larga parte della sinistra europea, come il nostro centrosinistra, sostenitore delle privatizzazioni, del lavoro precario, della legge maggioritaria, dello stravolgimento della Costituzione italiana e della Carta dell’Onu, nate dalla vittoria sul fascismo, perfino della guerra e della equiparazione statunitense di Milosevic, i talebani, Saddam a Hitler, falsando il vero volto del nazismo, “un formidabile capitalismo imperialista, totalitario all’interno, espansivo e armato all’esterno che perseguiva, senza neppure nasconderlo, il progetto di estendere il suo dominio sul mondo”.
Una falsità storica e teorica che porta acqua alle tesi del revisionismo e del negazionismo: infatti, “se tutti i cattivi del mondo sono Hitler, allora Hitler è solo uno dei tanti, uno come gli altri. Appunto quello che i fascisti e i negazionisti hanno sempre sostenuto”.
La rivoluzione è quindi una necessità assoluta, non l’effetto meccanico dello sviluppo del capitalismo o delle sue crisi che possono anzi portare alla catastrofe della guerra e della dittatura, come è già avvenuto, appunto, in mancanza di una rivoluzione. Ma quale rivoluzione è oggi necessario e possibile perseguire? Mordenti esamina i vari modelli, sperimentati e non, e appunta la sua critica sulla “fase di transizione” e sulla centralità della presa del potere statuale, considerata da sempre “punto cruciale e preliminare del processo rivoluzionario”, obiettando che “la rivoluzione, intesa finalmente come costruzione del comunismo, dovrà proseguire certo dopo la conquista del potere statuale, ma ciò significa che essa inizia ben prima di quel momento”.
“Una rivoluzione che deve essere rottura, discontinuità, salto di qualità”, anche rispetto alle esperienze del passato e che si distingua per l’instaurare, da subito, una democrazia di base che, partendo dal basso, coinvolga tutti.
È proprio sul tema dell’innovazione e della discontinuità che questa opera si differenzia, nettamente e positivamente, da molti scrittori – anche pregevoli – degli ultimi anni, affrontando quello che è uno dei nodi del dibattito interno al Prc e alla sinistra alternativa, a tutto tondo, con una rivisitazione critica del movimento operaio novecentesco italiano che riguarda non solo il Pci ma le sue componenti, la sua storia, i suoi ispiratori, da Engel a Lenin, da Trotski a Rosa Luxemburg, da Bordiga a Togliatti e Gramsci, che Mordenti definisce “il massimo leninista italiano”, proprio per aver compreso appieno il senso dell’innovazione leninista rispetto al marxismo dell’epoca.
Il valore dell’innovazione, posto alla base del Prc a partire dal suo nome (“rinnovare, non restaurare il comunismo”), acquista peso e significato proprio dal riconoscimento del valore degli esempi di discontinuità che hanno caratterizzato i momenti chiave della nostra storia, fra i quali Mordenti sottolinea il Pci di Togliatti definendolo “un fenomeno del tutto nuovo e, per la borghesia italiana, particolarmente spaventoso; e ciò anche per la sua forza morale e la credibilità del suo gruppo dirigente, un gruppo di alto livello, al tempo del tutto incorruttibile e fortemente coeso al suo interno”, capace di creare una rete di associazioni ed un profondo e capillare radicamento di massa che ha costretto la nostra borghesia a ricorrere “allo strumento DC”, reso indispensabile dal suffragio universale e dalla proporzionale, ma non “espressione diretta dei suoi interessi”. La fine del Pci segna, per Mordenti, la vera e propria presa del potere da parte della borghesia, un potere senza intermediari che trova la sua espressione nel governo Berlusconi e nella, nemmeno tanto graduale, messa in opera di un progetto che assomiglia pericolosamente al “Piano di Rinascita” della P2 di Gelli.
Il “che fare” a questo punto appare conseguente e semplice (non da farsi, come Brecht insegna): “un partito, un partito comunista, un partito comunista di massa”. Un partito comunista che sappia fare società e mettere la politica al primo posto, che consenta ai proletari di “organizzare se stessi come classe pienamente autonoma”, un partito che sappia articolare tattica e strategia, che faccia tesoro delle esperienze passate ma che sia anche consapevole della loro irrepetibilità.
Negli ultimi due capitoli che riguardano il partito e i movimenti – no global e girotondi, da non contrapporre ma da portare ad una possibile unità d’intenti come elementi della ricomposizione della lotta e dell’opposizione – e soprattutto nell’Appendice “Sull’esperienza di Rifondazione comunista”, lo studioso lascia il posto al militante che critica i limiti del suo partito e ne ricerca il superamento, con passione e consapevolezza: limiti che si chiamano cristallizzazione delle posizioni, rischi di burocratismo e istituzionalismo, rifiuto di quella sintesi necessaria perché le diversità diventino ricchezza comune e per creare militanti e dirigenti preparati e determinati a fare quella rivoluzione in assenza della quale un partito comunista non ha ragione d’essere.