La rivolta dei bersaglieri e le Giornate Rosse

A quando risalgono le cosiddette “guerre umanitarie”, pardon, missioni…? Sono esse un’invenzione del nostro tormentato oggi o se ne possono rintracciare esempi anche nel passato più o meno recente? E il pacifismo che a tutte le guerre sostiene di contrapporsi, ha antenati univoci o pesca, anch’esso, in una tradizione plurima, mai sufficientemente indagata? Sono queste le prime domande che ha suscitato in me la lettura del bel libro di Ruggero Giacomini. Non inganni il sottotitolo: non si tratta di una ricerca di storia locale, o – meglio – si tratta di una di quelle ricerche di storia locale che, fedeli ad una scuola rigorosa, prendono immediatamente l’abbrivio, diventando un punto di vista essenziale e imprescindibile per leggere anche la cosiddetta “grande Storia”, nazionale o internazionale che sia. Personalmente ritengo che non solo la storia della comunità anconetana e del suo composito movimento operaio, ma nemmeno la storia militare del periodo immediatamente susseguente la prima guerra mondiale, nonché la storia sociale e politica non solo delle Marche ma dell’Italia prefascista e dell’Albania colonizzata, potranno più prescindere dal rigoroso studio di Giacomini. Perché? Intanto perché si scopre subito dalle prime pagine del volume che l’Italia si impegnò, in Albania, in una di quelle cosiddette “missioni umanitarie” che citavo all’inizio. L’Albania si era costituita in principato costituzionale indipendente dalla Turchia nel novembre 1912, in seguito alla crisi dell’impero ottomano indotta dalle guerre libica e balcanica del 1911-12 e dagli sviluppi del movimento nazionale albanese. Le grandi potenze dell’epoca (Austria, Ungheria, Italia, Francia, Germania, Russia, Gran Bretagna) riconobbero il nuovo stato e ne definirono i confini con il protocollo di Firenze del 1913. Sennonché nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, in cui l’Italia, reduce da poco più di un mese dai moti antimilitaristi della “settimana rossa”, originati dall’eccidio di tre manifestanti ad Ancona durante la festa dello Statuto, non entrò subito. Lo fece quando gli interessi della finanza e della grande industria riuscirono a coniugarsi con i risorti nazionalismi italiani, anch’essi di vario tipo: si va dall’interventismo mussoliniano con cui il futuro Duce dà l’addio alla sua appartenenza al movimento socialista, a quello delle “massonerie umanitarie” di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù, a quello dei sindacalisti rivoluzionari e di qualche anarchico individualista che – scrive acutamente Giacomini – “confondevano la guerra con la rivoluzione”, fino al cosiddetto “interventismo democratico” che “travolse repubblicani di destra e di sinistra, per i quali si trattava di portare a compimento con Trento e Trieste il moto risorgimentale e l’unificazione nazionale”. Le pilotate e “radiose giornate di maggio” fecero il resto: sancirono cioè, a posteriori, il patto di Londra con cui l’Italia entrava in guerra e partecipava “come parente povero al banchetto imperialista”: a farne le spese fu in particolare l’Albania, dal patto ridotta a brandelli. Un patto segreto, ovviamente, perché contrastava con le belle e vuote parole con cui le grandi potenze giustificavano l’immane massacro della prima guerra mondiale: i diritti e la libertà dei popoli. Valona era già stata occupata dal nostro Paese in “missione umanitaria” nell’ottobre 1914 e dopo l’entrata in guerra il Corpo Speciale Italiano d’Albania realizzò attorno alla città un ampio campo militare trincerato. Man mano che l’occupazione si allargava, l’Italia dichiarò di voler … proteggere l’indipendenza dell’Albania (!) e il protettorato italiano venne riconosciuto alla fine del conflitto, sulla base di un ennesimo patto segreto, questa volta con la Grecia, che si annetteva il Sud del Paese. Scoperto l’inganno, il movimento patriottico albanese si sollevò per difendere l’integrità e l’indipendenza nazionale, formando un nuovo governo a Tirana, da allora la nuova capitale. In Italia nasce il movimento “Via da Valona”. Entra qui in campo la seconda ragione che fa di questo libro un lavoro utile per la storia senza diminutivi, e quindi capace di superare la dimensione localistica. Ed è l’analisi del pacifismo nostrano, coniugata con i fatti che videro bersaglieri e popolo, soldati e portuali, donne e militari, scatenare le “Giornate rosse” anconetane. “Nella storia d’Italia – scrive Giacomini – esiste una robusta tradizione di pacifismo internazionale di matrice popolare, contrario alle imprese coloniali e che rafforza la sua opposizione nel caso del conflitto, a fronte di un pacifismo nobile delle classi dirigenti, “giuridico” e “civilizzatore”, che ha il difetto di essere in auge nei tempi di pace e di dileguarsi di fronte alla guerra […]. È nella tradizione del movimento operaio italiano, anarchico, socialista e comunista, la contrarietà alle guerre coloniali e imperialiste e la solidarietà per contro alle guerre di liberazione, tanto da fare di questa posizione un elemento distintivo della propria identità”. Di qui nasce il sostegno all’indipendenza albanese e al movimento “Via da Valona”, che, mentre il governo nazionale torna nelle mani di un Giolitti deciso a salvare il salvabile della spartizione di Londra, si oppone, nel caso raccontato dal libro, alla partenza dal porto di Ancona di truppe italiane destinate a reprimere gli indipendentisti albanesi. È l’undicesimo Reggimento Bersaglieri il protagonista del racconto di Giacomini dal versante militare. Sono i portuali, le donne, gli operai che proclamano scioperi spontanei – solo a cose fatte raccolti dalla Camera del Lavoro, i cui esponenti vogliono tener fuori l’organizzazione dalle divisioni presenti nel movimento e si espongono contro la partenza delle truppe soltanto come rappresentanti di partiti politici – i protagonisti dal versante sociale. Si direbbe forse oggi che la cosiddetta “società civile” è più avanti della sua rappresentanza sindacale e politica? Di certo, la rappresentanza sindacale e in parte anche quella politica danno, nel libro, l’impressione di essere sempre alla rincorsa di decisioni che i loro aderenti prendono al di fuori delle mura della Camera del Lavoro, certi come sono che CGL e Partito Socialista non possono che essere dalla parte di chi si oppone alla guerra e, nell’immediato, alla partenza di chi è stato dal potere centrale destinato a combatterla. Una guerra fatta di rischio di morte per armi, cannoni e bombe, ma anche, più semplicemente, per malaria, una malattia poco conosciuta nelle Marche, che già durante il primo conflitto mondiale ha mietuto centinaia e forse migliaia di vittime, buttate come carne al macello in una terra sconosciuta e insana. Ma, per l’appunto: chi “fa” il sindacato, la CGL, e chi “fa” il Partito, il PSI? I dirigenti o la base? I funzionari o gli iscritti? Gli uomini al comando o i semplici militanti, capaci di raccogliere attorno a sé un popolo più largo, scarsamente sindacalizzato e politicizzato ancora, ma saldo nel non voler rimandare i propri figli al macello? La domanda sembra giusta giusta per l’oggi. La risposta appare a noi più difficile oggi di ieri, forse semplicemente perché la nostra memoria ha perso le tracce di molte cose, e, anche, delle “giornate rosse” di Ancona. Sono particolarmente grata a Giacomini per questo libro, che solleva interrogativi fondamentali per le scelte dell’oggi offrendo un racconto antico che ha la saggezza dei vecchi proverbi, delle storie raccontate nei filò nelle stalle, delle memorie tramandate – quando la scrittura era patrimonio soltanto di pochissimi delle classi più agiate e restava un pianeta sconosciuto per i più – attraverso la voce di un vecchio, di una vecchia, capace di raccogliere attorno alla sua esperienza di vita le orecchie e gli occhi attenti dei nipoti tormentati dalla fatica e dalla fame, ma non dalla smemoratezza dell’oggi, indotta da un benessere diffuso (benché fragile, come la crisi odierna sta dimostrando) che sembra, in determinati periodi della storia, ricacciare nel mito le vite concrete dei nostri padri e delle nostre madri. Il libro di Giacomini ci dice che non è di miti che abbiamo bisogno. Non serve ripescarli anche dalla storia nobile del movimento operaio e comunista internazionale, se il loro spessore resta quello della “favola bella” persa nella notte dei tempi e insignificante per l’oggi. Soffermarsi sui miti è leggere con un taglio iperideologico la realtà, indicare (continuare ad indicare) una meta lontana e irraggiungibile, un “sol dell’avvenire” che rischia di non spuntare più perché coperto dalla notte dell’esplosione nucleare del capitalismo pervasivo che conosciamo oggi, in questa parte del mondo. Il movimento operaio, il movimento comunista internazionale, ha bisogno, oggi, di racconto, di capacità di racconto: perché è dalla narrazione della propria esperienza che le persone in carne ed ossa che ci hanno preceduti riacquistano corpo, cioè sentimenti, ragioni, capacità di elaborare teorie, di trasformale in azioni: riacquistano insomma senso. Potrei raccontare nel dettaglio il libro di Giacomini, ritagliare come fa lui figure straordinarie (le donne, per esempio), guardate anche con l’occhio di chi non si sottrae al giudizio, ma conosce le ragioni storiche, difficilmente removibili con un semplice atto soggettivistico, volontaristico, che inducono determinati comportamenti umani, come quelli dei soldati che mentono, si sottraggono alle accuse negando, si rifugiano nelle poche cose che conoscono capaci di salvare loro, in ogni caso, quel poco di vita che riusciranno a vivere una volta a casa, lontano da una guerra e da un conflitto che devono praticare perché poveri e comandati, ma che non capiscono. Giacomini li guarda con occhio attento e li descrive con la pie – tas di chi conosce la fatica di tenere insieme l’affetto per le persone che costituiscono il nostro personale mondo e la distanza con le convinzioni che abbiamo faticosamente maturato e che faticosamente ci guidano nelle nostre scelte politiche. Ci sono eroi, in questo libro. Uomini e donne forti che non ti abbandonano quando lo chiudi. Che ti inducono a riaprirlo il giorno dopo, per conoscere un’altra storia, per sapere come va a finire. Come un giallo. O come un bel romanzo d’amore. E ci sono – come in tutti i classici – gli antieroi, uomini e donne comuni, che sembrano perdersi tra la paura, la fame, gli atavici destini che li inseguono. E anche per loro sei indotta a riaprire il libro, perché conquistarne anche uno soltanto prima di finire le 378 pagine scritte con maestria e tecnica quasi cinematografica, tu sai che ti restituirà qualche speranza per il futuro, per l’oggi. È un libro di storia, allora? O è un libro “politico”? La rivolta dei bersaglieri è ambedue le cose. Della storia e della politica usa e salva le parti nobili. Per questo ci serve. Per questo bisogna leggerlo.

* Direttrice del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara. Membro del Comitato Scientifico dell’Associazione “MARX XXI”. Storica e membro della Società Italiana delle Storiche