*Comitato Centrale del PC cubano
Questo articolo intende sintetizzare i risultati, parziali, di una ricerca sulla riforma del sistema interamericano nella sua qualità di sotto-processo nell’imposizione del cosiddetto nuovo ordine mondiale, il cui obiettivo è l’istituzionalizzazione di un cambiamento qualitativo nei rapporti di potere continentale che acuisce la crisi politica, economica e sociale nell’America Latina e nel Caribe. Questa analisi abbraccia gli ultimi quattro decenni del XX secolo. L’ipotesi esposta è che tale periodo, il più recente della storia contemporanea latinoamericana, si possa suddividere in tre fasi.
– La prima inizia con la vittoria della Rivoluzione cubana nel gennaio 1959 ed è caratterizzata dall’acuirsi della crisi economica, politica e sociale dovuta all’esaurimento dell’accumulazione “sviluppista” basata sull’ampliamento del mercato interno dei paesi della regione, dall’intensificarsi delle lotte popolari provocate dalla crisi – compreso l’estendersi dei movimenti armati sorti nel calore dell’esperienza cubana –, e dall’offensiva imperialista controrivoluzionaria e contro-insurrezionale che raggiunge l’apice con i colpi di stato in Cile, Uruguay e Argentina.
– La seconda si apre nel luglio del 1979 con la vittoria della Rivoluzione popolare sandinista in Nicaragua, e rappresenta la localizzazione nell’America Centrale del vortice della lotta fra le forze rivoluzionarie e l’interventismo imperialista – lotta già decisa a sfavore degli interessi popolari nella maggior parte dell’America meridionale e nell’isola-stato di Grenada –, sul cui sfondo si svolge un conflitto fra l’affermazione della sovranità di tutta l’America Latina e l’intenzione di sottometterla ad un grado qualitativamente superiore di dominazione esterna.
– La terza inizia nel 1990 con il lancio dell’Iniziativa Bush, il cui intento di fondo è l’istituzionalizzazione di un nuovo sistema di dominio continentale da raggiungere attraverso la riforma della Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), gli accordi dei Vertici delle Americhe e i negoziati dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA). Benché sia più facile analizzare il passato che valutare il presente o predire il futuro, c’è da sperare che il corso bolivariano in Venezuela e l’elezione del presidente Lula in Brasile segnano l’inizio di una nuova fase della storia latinoamericana, nel quale, se pure non si risvegliano le forze di una rivoluzione sociale in grado di trovare soluzioni di fondo ai problemi della regione, almeno frenino il processo di transnazionalizzazione e di denazionalizzazione.
IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Nel passaggio fra gli anni sessanta e settanta del XX secolo, l’imperialismo aveva la necessità di ristrutturare il sistema delle relazioni internazionali. Esaurita la crescita economica del dopoguerra e saturati i mercati dei “Primo mondo”, i monopoli transnazionali si vedevano costretti ad assumere direttamente il controllo delle principali risorse naturali, industrie, servizi e mercati in Asia, Africa e America Latina, che sino ad allora erano stati considerati di facile accesso o catalogati come secondari e che, di conseguenza, venivano conservati come proprietà da parte degli stati e delle borghesie nazionali di queste regioni. Tale espansione obbligava ad imporre signorie economiche, politiche, giuridiche ed ideologiche universali, al fine di creare condizioni uniformi per la riproduzione del capitale in qualsiasi punto del pianeta. Tuttavia, prima di prendere il comando di questa ristrutturazione di tutto il sistema di relazioni internazionali del dopoguerra, l’imperialismo nordamericano doveva risolvere le contraddizioni intestine sorte all’interno del proprio ambito di potere, soffocare le proteste sociali che scrollavano il proprio paese e scegliere fra una politica estera conciliatrice o aggressiva.
L’avvio del nuovo ordine mondiale ha inizio con l’ondata generale del neoliberismo scatenata subito dopo le vittorie elettorali di Margaret Tatcher in Inghilterra (1979) e di Ronald Reagan negli stati Uniti (1980). Non sarà tuttavia che con la scomparsa dell’Unione Sovietica e la fine del bipolarismo che l’imperialismo troverà le condizioni per istituzionalizzarlo. Nel nuovo sistema di dominio l’imperialismo esercita direttamente quote fondamentali di potere politico ed economico che precedentemente gestiva con la mediazione delle borghesie del “Terzo Mondo”, e questo implica l’eliminazione dei margini di sovranità, autodeterminazione ed indipendenza di cui queste élite subordinate potevano disporre. Tale mutamento si manifesta con l’adozione di funzioni e poteri transnazionali da parte delle grandi potenze imperialiste e in particolare da parte dell’imperialismo nordamericano; con la trasformazione degli organismi internazionali e regionali, delle alleanze militari e delle istituzioni finanziarie sovrannazionali in strumenti incaricati di svolgere un ruolo complementare all’azione diretta delle grandi potenze; e con il mutamento di funzione degli stati dipendenti perché agiscano come ingranaggi di una macchina di potere al cui interno essi svolgono ruoli politici locali ma di fattura transnazionale. Il disegno di società che corrisponde al nuovo ordine mondiale è quello della “democrazia neoliberista”. Questa è caratterizzata da un culto della democrazia rappresentativa, definita nei suoi aspetti formali (pluripartitismo, elezioni periodiche, voto segreto, alternanza governativa e così via), ma operante in uno stato nazionale sprovvisto delle capacità di esercitare un potere politico reale, e pertanto incapace di confrontarsi alle richieste sociali, in particolare alle richieste di ridistribuzione della ricchezza; e inoltre caratterizzata da un complementare concetto di diritti umani che enfatizza le libertà civili destinate a legittimare questo esercizio antidemocratico, ma che esclude – anche quando lo accetta a parole – il soddisfacimento dei diritti economici e sociali e con la trasformazione dello stato dipendente in un agente del trasferimento della ricchezza all’estero.
LA RISTRUTTURAZIONE DEL SISTEMA INTERAMERICANO
Per risorse naturali, infrastrutture, forza lavoro qualificata e mercati di relativa importanza, l’America Latina è una delle regioni verso le quali si protende la voracità dei monopoli transnazionali, avidi di appropriarsi dei mercati di capitali, dei beni e dei servizi creati dagli stati e dalle borghesie nazionali nel corso della fase di sviluppo. Nonostante tale concentrazione transnazionale della proprietà e della produzione avanzi mediante l’assorbimento e la distruzione dei capitali locali (in altre parole, benché il processo di transnazionalizzazione provochi l’annichilamento della classe capitalistica latinoamericana), le élite della regione vi si sottomettono grazie ad un misto di imposizioni e di complicità.
Per la sua vicinanza geografica con la principale potenza imperialista, in America Latina il radicamento del nuovo ordine mondiale si produce in primo luogo per mezzo della riforma del sistema interamericano. Questo significa che non solo la regione deve sottomettersi agli ordini dell’imperialismo “in generale”, come sono imposti a tutti i paesi dipendenti, ma anche agli specifici ordini dell’imperialismo statunitense. Se è certamente a partire dagli anni sessanta che le amministrazioni nordamericane di John F. Kennedy e di Lyndon B. Johnson si accorgono della crisi del dominio continentale, non è che dal 1991 che George Bush (padre) riesce a mettere insieme tutte quelle premesse che permettono di istituzionalizzare il nuovo sistema.
GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
Francisco Zapata individua la vittoria della Rivoluzione cubana nel gennaio 1959 e il colpo di stato in Brasile del marzo 1964 come gli avvenimenti che segnano cronologicamente quel che oggi, del tutto propriamente, si può definire l’inizio della periodizzazione più recente della storia contemporanea dell’America Latina (1). A partire dagli anni cinquanta, i progressi della ricostruzione europea provocavano mutamenti fondamentali nel contesto internazionale e nella situazione interna latinoamericana. L’esaurirsi dello schema “sviluppista” di accumulazione – causato dalla riduzione della domanda mondiale di beni primari – distruggeva gli equilibri sociali e politici consolidatisi a partire dalla crisi del 1929 (2). La situazione dei mercati statunitense ed europei spingeva i monopoli transnazionali a competere per la conquista di quelli latinoamericani. Uno sguardo retrospettivo evidenzia come l’imperialismo nordamericano si sentisse obbligato a distruggere le organizzazioni della sinistra in grado di prendere la guida della resistenza contro la nuova penetrazione monopolistica, a disarticolare le alleanze sociali e politiche consolidatesi durante il periodo “sviluppista” ed a trasformare lo stato latinoamericano – sino allora dedito alla protezione e alla crescita del mercato interno – nel principale agente di un processo di transnazionalizzazione e denazionalizzazione.
La tappa della “pacificazione sociale” dell’America Latina è stata caratterizzata, nella sua prima fase, dai più diretti propositi di distruggere la Rivoluzione cubana e, in tutto il suo corso, dal faccia a faccia fra le forze politiche e sociali prodotte dalla crisi da una parte – compresi i movimenti polito-militari che s’ispiravano all’esperienza cubana – e la repressione con la quale l’imperialismo vi si opponeva. Repressione che non si limitò a combattere la lotta armata, ma che si spinse sino alla distruzione dei partiti politici e delle organizzazioni sociali della sinistra e, in molti casi, anche di centro e di destra, perché comprensibilmente non si trattava solo di scongiurare la “minaccia del comunismo” ma piuttosto di servirsi di questa per azzerare ogni rimanenza dello “sviluppismo”.
L’ostilità contro la Rivoluzione cubana e gli avvenimenti compresi fra la fase finale della dittatura di Trujillo e l’imposizione del governo di Balaguer nella Repubblica Dominicana, furono utilizzati per consolidare il ruolo del sistema interamericano in quanto meccanismo di ingerenza e intervento . Questo avvenne grazie all’affermarsi dell’appoggio collettivo alla “democrazia rappresentativa”, la cui difesa verrà convertita anni più tardi nel pilastro della dottrina di sicurezza dell’intero emisfero, ed inoltre per giungere alla creazione di un Comitato Consultivo di Sicurezza per mezzo del quale si mirava all’intento – sino ad oggi tuttavia infruttuoso – di creare una forza militare interamericana, e di trasformare, con la complicità dell’OSA, l’invasione statunitense della Repubblica Dominicana (1965) in un’occupazione militare e in una iniziatica “panamericana”. Nonostante i progressi nell’utilizzo dell’OSA come meccanismo di dominio, non è stato tuttavia il sistema interamericano a svolgere il ruolo principale nella “pacificazione” dell’America Latina. La strategia anti-inserruzionale puntò invece tutto sulla preparazione, fornitura di consiglieri ed equipaggiamento delle forze armate attraversi il Programma di Assistenza Militare degli Stati Uniti, congiuntamente agli aiuti forniti dai servizi speciali di questo paese ai corpi latinoamericani più repressivi.
Il punto culminante delle dittature militari è quello che ha inizio con i colpi di stato in Cile (1973) e in Argentina (1976). È bene sottolineare che, nel caso del Cile, non esisteva affatto la “giustificazione” di una lotta armata rivoluzionaria per dare fondamento all’azione militare, ma che il golpe si è fatto contro un governo costituzionale e grazie ad una campagna di destabilizzazione diretta dal governo Nixon (3).
GLI ANNI OTTANTA
Il decennio degli anni ottanta è stato caratterizzato da un’intensificazione senza precedenti delle contraddizioni fra l’imperialismo nordamericano e i circoli politici ed economici dominanti in America Latina. L’allineamento del governo degli Stati Uniti con quello della Gran Bretagna nella guerra delle Malvine (Falkland) – mentre tutta l’America Latina appoggiava l’Argentina – rivelava che il Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (TIAR) funzionava unicamente a beneficio degli interessi imperialistici e nella logica della guerra fredda. L’invasione di Grenada dimostrava poi l’intenzione statunitense di tornare al ricorso dell’interventismo militare nella regione. L’appoggio alle dittature entrava in contraddizione con i settori borghesi che –avendo pur appoggiato e tollerato i colpi di stato – non avevano potuto sottrarsi alle loro conseguenze e ora invocavano la “democratizzazione”. Nella nazioni in cui vigeva la democrazia liberale, le classi dominanti temevano che un intervento militare straniero in Nicaragua potesse fare catalizzare un’ondata di proteste capace di acuire gli squilibri politici e sociali. In questo contesto, inoltre, la crisi del debito estero si convertì nella principale minaccia alla stabilità latinoamericana.
La politica di Reagan non badava a “sottigliezze” che potessero aggravare la situazione della borghesia latinoamericana. La “nuova destra” di cui era espressione si proponeva di distruggere le rivoluzioni cubana, nicaraguense e di Grenada, di puntare all’intensificazione della guerra controinsurrezionale in El Salvador, Guatemala e Columbia, di utilizzare la lotta contro il narcotraffico come pretesto per aumentare la presenza militare statunitense in America Latina, e di criminalizzare la sinistra e di bandire qualsiasi ipotesi di alternativa al neoliberismo.
Le contraddizioni fra i governanti statunitensi e latinoamericani finirono con l’annullare ogni effettiva capacità del sistema interamericano per tutti gli anni ottanta, e spinsero alla creazione del Gruppo di Contadora e del Gruppo di appoggio a Condadora – fusi più tardi nel Gruppo degli Otto – quale strumento di concertazione politica latinoamericana, estraneo dall’inoperante OSA, per promuovere una soluzione politica del conflitto centroamericano – che servisse ad evitare l’intervento militare degli Stati Uniti in Nicaragua – diventato ormai il tema ossessivo delle relazioni interamericane, al quale si aggiunse poi quello della politica draconiana con cui l’amministrazione Reagan reagiva alla crisi del debito estero. Tale crisi del sistema interamericano portò all’ordine del giorno la riforma della Carta dell’OSA, originariamente concepita per gettare delle basi che permettessero ai governi latinoamericani di comporre i propri diversi punti di vista con quelli degli Stati Uniti su un piede d’uguaglianza. In analoga direzione puntavano le richieste al reintegro di Cuba nell’OSA, con l’intento di aumentare il peso del blocco latinoamericano nell’organizzazione. Alla fine degli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta le relazioni interamericane vennero tuttavia scosse sotto l’impatto della rottura dell’ordine mondiale bipolare.
La crisi terminale dell’Unione Sovietica si ripercuoteva nell’indebolimento dell’appoggio esterno alla Rivoluzione popolare sandinista, che soccombeva nelle elezioni del novembre 1990, dopo la firma degli Accordi di Esquipulas. In un breve lasso di tempo si produceva l’integrazione negoziata nella vita politica legale del FMLN di El Salvador e della URNG del Guatemala. Inoltre erano in molti a dubitare che la stessa Rivoluzione cubana potesse sopravvivere senza gli aiuti dell’Unione Sovietica. In questo contesto, il Gruppo degli Otto, vedendosi obbligato a riconoscere gli effetti della politica del “doppio binario” degli Stati Uniti nell’America Centrale (4) riconosceva pure i limiti verso cui era disposto a portare le proprie divergenze con l’imperialismo. Tale strumento di concertazione adottava il nome di Gruppo di Rio, e si proponeva di dare spazio a nuovi membri e di trarre profitto dell’esperienza accumulata in funzione della difesa degli interessi delle borghesie latinoamericane assediate dalla penetrazione monopolistica. Esso tuttavia vedeva la luce al momento dell’unipolarismo mondiale e dell’ondata neoliberista.
GLI ANNI NOVANTA
A partire dalla fine degli anni ottanta, il Piano Brady istituzionalizzava la conversione del debito estero latinoamericano in un nuovo meccanismo di dominio e di penetrazione, pur facendolo con un’apparente flessibilità in confronto alla politica imposta precedentemente sotto la presidenza Reagan. In tale contesto, il lancio nel 1990 dell’Iniziativa Bush, e in particolare il progetto di creare un’Area di Libero Commercio delle Americhe (AL CA), si convertiva nel volano per una svolta a 180 gradi nell’atteggiamento dei governi latinoamericani nei confronti dell’imperialismo. A partire dall’abbozzo dell’ALCA, l’illusione del libero accesso al mercato nordamericano non solo portò i governi latinoamericani a sotterrare le proprie differenze rispetto a Washington e ad aggregarsi alla riforma del sistema interamericano, ma anche a vincere le proprie resistenze a pagare i costi della ristrutturazione neoliberista.
Con la “disattivazione” del conflitto in America Centrale, l’invasione che rovesciò il governo del generale Manuel Antonio Noriega a Panama (1991) e l’inizio di una nuova campagna di isolamento contro Cuba, l’imperialismo completava l’insieme delle necessarie premesse per imporre una riforma del sistema interamericano basata su tre pilastri: far passare la difesa collettiva della democrazia rappresentativa quale pietra angolare della dottrina di sicurezza dell’emisfero, l’imposizione dell’ALCA come meccanismo di istituzionalizzazione dell’integrazione in posizione dipendente dell’America Latina, e l’aumento della subordinazione delle forze armate latinoamericane, congiuntamente all’incremento della presenza militare statunitense nella regione.
Mediante l’approvazione dell’Impegno di Santiago per la democrazia rappresentativa da parte dell’Assemblea Generale dell’OSA tenutasi in Cile nel 1991, il governo degli Stati Uniti otteneva di poter avviare conformemente ai suoi propositi il processo di riforma della Carta dell’OSA. Una volta affermato il carattere della democrazia rappresentativa come “unica forma legittima di governo” nel continente, l’imperialismo avrebbe promosso – e i governi latinoamericani avrebbero fatto propria – l’inclusione della “clausola democratica” in tutti gli organismi, assemblee e accordi regionali, subregionali e bilaterali. Dopo aver stabilito le regole del nuovo sistema di dominio continentale con la riforma della Carta dell’OSA, al primo Vertice delle Americhe l’imperialismo riusciva a fare un nuovo passo verso la sua istituzionalizzazione. I rappresentanti de 34 paesi del continente (tutti, ad eccezione di Cuba) stipulavano più di centoventi accordi e deliberazoni che dettavano le norme della sua attuazione in tutti gli ambiti della vita politica – sfera militare e della sicurezza comprese –, economica, sociale e culturale; fissavano l’obbligatorietà della realizzazione di tali accordi e deliberazioni, soggetti a meccanismi sovrannazionali di controllo e d’imposizione di sanzioni, e davano inizio alla fase di applicazione, in particolare con il negoziato dell’ALCA fissado l’obiettivo di fine lavori nel 2005. Un ulteriore passo in avanti di grande rilevanza si sarebbe verificato nel momento di isteria scatenata dall’imperialismo in occasione degli attentati terroristici dell’11 settembre del 2001. Dopo mesi di duro negoziato, solo poche ore dopo la distruzione delle Torri gemelle, veniva approvata a Lima la Carta Democratica dell’OSA, che riafferma la deliberazione da parte dei governi del continente a proposito della “democrazia neoliberale” e ufficializza la creazione di meccanismi di ingerenza e d’intervento per garantire la sua stretta osservanza. La funzione di garante degli interessi imperialistici di tale accordo è dimostrata dalla complicità della maggioranza dei suoi firmatari con il fallito colpo di stato contro il presidente del Venezuela Hugo Chavez.
I propositi di un simile reticolo di accordi in difesa della democrazia rappresentativa sono, nell’ordine: stimmatizzare, discriminare e isolare Cuba, per il suo essere l’unico paese in cui non domina il sistema capitalistico; mettere in opera e legittimare un meccanismo d’intervento in grado di render vana la vittoria di futuri processi di orientamento popolare in America Latina; e di evitare che le forze armate di qualche paese della regione, per propri interessi, possano essere protagoniste di un colpo di stato non autorizzato, che metta in pericolo il nuovo sistema di dominio.
In relazione all’ALCA, benché i negoziati siano ancora in corso, è prevedibile che l’imperialismo nordamericano non raggiunga con la sperata firma degli accordi nel 2005 il cento per cento dei suoi obiettivi. Essendo obbligato a demandare all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) la soluzione della definizione dei termini relativi alle spese governative, alla proprietà intellettuale e alla protezione in ambito agricolo, sembra che il governo degli Stati Uniti dovrà rinunciare all’idea che l’ALCA sia un accordo d’”un solo pezzo” che le sue controparti latinoamericane siano obbligate ad accettare in blocco. Tuttavia quest’accordo istituzionalizzerà uno schema di dominio e di subordinazione politica ed economica che presuppone la rinuncia ad un’integrazione latinoamericana indipendente e che rafforzerà il processo di disintegrazione dei legami produttivi nazionali.
Sul piano militare, benché l’imperialismo statunitense non sia riuscito a vincere le resistenze alla creazione di una forza interamericana di difesa, esso vi supplisce con l’incremento del controllo sulle forze armate della regione e con l’aumento della sua diretta presenza militare con il pretesto della lotta contro il narcotraffico e la “narcoguerriglia”, che hanno sino ad ora raggiunto il loro massimo sviluppo con il Piano Colombia e la Iniziativa Andina. Un ulteriore impulso, che serve da chiusa al nuovo schema di sicurezza interamericano, è poi rappresentato dall’attuale isteria della “lotta al terrorismo”, destinata a criminalizzare la resistenza e la lotta popolare.
CONSIDERAZIONI FINALI
A distanza di poco più di un secolo dalla Conferenza panamericana di Washington, l’imperialismo nordamericano è riuscito ad ottenere, nell’essenziale, l’istituzionalizzazione di un sistema integrale – politico, economico, militare ed ideologico – di dominio e subordinazione dell’America Latina, basato sul fatto che i governi dominati e subordinati – e le classi che essi rappresentano – fanno propri, un po’ per imposizione e un po’ per complicità, i fondamenti della propria dominazione e subordinazione. Il sistema interamericano ora non è solo, e nemmeno in prima istanza, l’OSA; e tantomeno istituzioni obsolete come il Consiglio Interamericano di Difesa (JID), il Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (TIAR) e la Banca Interamericana di Sviluppo (BID). Ora al di sopra di essi stanno i Vertici delle Americhe e il negoziato-imposizione dell’ALCA. Ma non solo. Tutti gli organismi, meccanismi ed accordi – continentali, regionali, subregionali o bilaterali – preesistenti o messi in atto a partire dal 1991, siano o meno essi in relazione con il sistema interamericano, assumono le basi del nuovo dominio transnazionale mediante l’eufemistico impegno rituale per la “democrazia rappresentativa”, i “diritti umani” e l’”economia di mercato”. Si può essere certi e a buona ragione, tuttavia, che questo sistema “quasi perfetto” è un gigante dai piedi di fango.
Basandosi sull’integrazione transnazionale esclusiva, verticale e frammentata di quei segmenti delle economie e delle élite tecnocratiche latinoamericane che l’imperialismo ha interesse ad incorporare nel movimento complessivo del capitale, questi segmenti e queste élite rimangono tuttavia circoscritti dal resto della “nazione” cui fisicamente appartengono. Questa “integrazione disgregante” finisce col distruggere la struttura e il sistema di alleanze sociali e di classe anteriormente esistenti in America Latina, senza però riuscire a sostituirli con altri in grado di stabilire un nuovo equilibrio sociale.
Senza nulla togliere alle contraddizioni antagonistiche inerenti alla sua natura capitalistica, alle quali si deve il suo carattere dipendente, lo stato latinoamericano “a sviluppo nazionale” si fondava su una struttura e su un sistema di alleanze sociali e di classe – borghesia industriale, borghesia esportatrice, ceti medi e proletariato – che, a seconda del paese e con minori o maggiori difficoltà, svolgevano due funzioni basilari: la ridistribuzione di quote di potere fra i vari settori delle borghesie nazionali, e la cooptazione di una parte dei gruppi sociali subordinati destinata a facilitare il controllo e la repressione del resto. Queste sono le funzioni che lo stato neoliberista risulta incapace di gestire.
Lo stato neoliberista latinoamericano non può ridistribuire quote di potere per superare le contraddizioni interne ad una borghesia polarizzata fra i settori dediti alla finanza, i servizi e il commercio internazionale – che cercano di convertirsi in appendice del capitale finanziario transnazionale – e i settori produttivi e dei servizi orientati al mercato interno, che ora sono “specie in via d’estinzione”. Tanto meno può garantire lo status che occupano i ceti medi urbani, principali beneficiari dei servizi pubblici dello stato “sviluppista”, il cui posto è oggi occupato da un’élite di tecnocrati che lavora per i monopoli transna-zionali e che riproduce il modello di vita e l’ideologia del “Primo Mondo” di cui si sentono parte. Ancor meno può cooptare settori popolari, poiché gli operai, in modo irrimediabile, nutrono le file dei disoccupati, dei sottooccupati e dei lavoratori informali, mentre i contadini scompaiono e crescono i lavoratori rurali senza terra.
È assai più facile fare la diagnosi della situazione mondiale – e, in questa, della situazione dell’America Latina – che trovarle soluzioni. Dal nuovo sistema di dominio deriva una contraddizione la cui soluzione attende un nuovo parto della storia: l’imperialismo contemporaneo depreda, con intensità senza precedenti, l’economia, la società e lo stesso ambiente di vita – al punto da far nascere dubbi sulla stessa sopravvivenza della specie umana –, e pure disarticola le fondamenta dello stato nazionale, che costituisce lo scenario storico delle lotte popolari, sia di quelle orientate alle riforme sia quelle orientate alla distruzione e sostituzione dello stato borghese. Questa è una delle ragioni per cui oggi esiste un maggior sviluppo della resistenza sociale piuttosto che della costruzione di alternative politiche popolari, sia su scala mondiale che continentale. A questo si deve il fatto che la Rivoluzione cubana sia oggi bloccata dagli Sati Uniti e ostracizzata dall’Unione europea, che il corso bolivariano in Venezuela debba far fronte alla reazione interna ed esterna, e che un governo di orientamento popolare come quello di Lula in Brasile non riesca a procedere con la rapidità che, senza dubbio, desidererebbe. Tuttavia le soluzioni nascono dalla crisi, e la crisi già sta “toccando il fondo”.
La profetica frase di Rosa Luxenburg, “socialismo o barbarie”, acquisisce oggi una rinnovata e drammatica attualità, obbligandoci a riaffermare il nostro impegno per il socialismo, e lascia tuttavia prospettata l’inquietante possibilità che, per l’omissione, i tentennamenti o lo sviamento nella lotta per costruirlo, il mondo possa cadere, in modo definitivo, nella “barbarie”. Ma questo tema va oltre la posta di questo articolo.
NOTE
1 Francisco Zapata, Ideología y política en América Latina, El Colegio de México, Centro de Estudios Sociológicos, México D.F., 2002, p. 217.
2 Lo “sviluppinsmo” è consistito nello “sforzo per rompere i lacci della dipendenza verso il mercato internazionale e dalla realizzazione di investimenti locali che permettessero di basare la dinamica economica sul mercato interno. Durante la maggior parte degli anni trenta e quaranta i successi politici ebbero a che vedere con l’attivazione di questo nuovo modello di sviluppo. Quel che sino a quel momento era stata una industria manifatturiera incipiente, legata all’ambiente minerario o agroindistriale, si converti nel settore primario. (…) Allo stesso tempo imprenditori, frequentemente immigrati, creavano nuove imprese in settori come il tessile e il metallurgico, che rapidamente si trasformarono nella fonte principale di rifornimento di prodotti manufatturieri per il mercato interno. Gli investimenti si concentrarono nelle città, cosa che contribuì a spostare il centro economico dalle miniere, piantagioni e possedimenti agricoli verso i centri di consumo. Si intensificò l’urbanizzazione e crebbe la popolazione attiva dedita a lavori non agricoli”. Francisco Zapata, op, cit. p 142.
3 Ci sarebbe da chiedersi se sia corretto includere in questa tappa di “pacificazione” il periodo di relativa moderazione della politica imperialista verso la regione compreso fra i governi di Gerald Ford e di James Carter. Certo è che, una volta privato di guida e disarticolato il movimento rivoluzionario, di sinistra e popolare nella maggior part e dell’America Latina – ma anche come risultato della pressione internazionale generata dalle violazioni dei diritti umani – l’amministrazione Carter tornò alla vecchia pratica imperialista di promuovere in America Latina il ristabilimento di quel che Lenin aveva definito come la forma più perfetta di dominazione e subordinazione imperialista: la democrazia liberale. Nondimeno, con l’appoggio ricevuto dai precedenti presidenti (Johnson e Nixon) e con quello che continuavano a ricevere dalla “nuova destra” statunitense, le dittature latinoamericane non solo hanno continuato ad esercitare il loro potere durante il mandato di Carter, ma pure – come anticipazione di quel che si sarebbe prodotto negli stessi Stati Uniti – il governo militare cileno avviò nel 1976 la ristrutturazione neoliberista, seguito un anno più tardi dal governo militare argentino.
4 La politica del governo Reagan verso l’America Centrale si fondava su un “approccio a doppio binario” (two attack aproach), consistente nel simultaneo utilizzo della guerra (controrivoluzionaria e controinsurrezionale) a seconda del caso diretta a vincere direttamente il nemico o ad obbligarlo ad accettare una “soluzione negoziata” nei termini imposti dall’imperialismo. Il ricorso alla politica del “doppio binario” fu una delle principali raccomandazioni della Commissione Nazionale Bipartisan (detta anche Commissione Kissinger) riguard o all’America Centrale, la quale svolse un ruolo decisivo nel fondare quello che oggi viene chiamato “consenso bipartizan”, che altro non è se non l’imposizione dell’ideologia dell’ultra destra a tutto lo spettro politico degli Stati Uniti.