La ricerca dell’unità passa per il lavoro

Dedico questo articolo ad un compagno scomparso negli ultimi giorni di Agosto, al compagno Giuseppe Brusa. Amministratore e membro della Segreteria della Federazione di Milano del PRC per ben un decennio.Consigliere comunale per il PCI e Presidente della Commissione Bilancio al Comune di Milano per due mandati. Dirigente della Cariplo. Diffusore ed estimatore de l’ernesto. Compagno competente, entusiasta, modesto.
Ci mancherà

1. È all’ordine del giorno la ricerca di un’intesa tra tutte le forze che si propongono di cacciare Berlusconi. Guai a sottrarvisi. Dobbiamo essere “uniti per tornare a vincere”1. Nella ineludibile ricerca vanno coinvolti quanti – movimenti, partiti, associazioni, riviste, intellettuali, persone – nel campo del risveglio dell’ultimo biennio si erano ritrovati a manifestare a sostegno della pace, contro i soprusi del neoliberismo e per i diritti calpestati da un Governo che, del neoliberismo, è punta di lancia. In piazza, costoro, tutti, debbono ritornare oggi per il salario: che non basta più, i prezzi salgono vertiginosamente (in euro), ma salari e pensioni calano ancora (in lire). Se si fa capire dal primo passo la direzione in cui ci si muove, questo passo in difesa di salari e pensioni fa capire la giusta strada da intraprendere per cacciare un Governo che vuole saccheggiare la povera gente per finanziare imprenditori e redditieri. Questa strada va imboccata con i lavoratori. Ma non basta. Non basta accostare questa lotta a quella, permanente, per la pace ed i diritti. Essa va collocata in una cultura, “una cultura egemone, capace cioè di persuasione e di attraversare i confini partitici, e in grado di interpretare ed animare l’Italia che vuole uscire dal deserto dopo Berlusconi”2.
Questa cultura della trasformazione per ora non c’è, e non c’è la politica conseguente. Sta ai comunisti, soprattutto, ricercarla, svilupparla, offrirla a quanti vogliono abbattere questo Governo repellente, perseguendo a tal fine intese al più alto livello possibile. Dovessimo sottrarvisi, ma così non sarà, saremmo marginalizzati dalla politica. Di converso, dovessimo aderirvi ma acriticamente recintandoci in “un’intesa comunque”, ma così non ha da essere, soffriremmo seri contraccolpi. Partito Comunista: qui è Rodi, qui salti. Il punto pertanto diventa uno solo: quale l’asse della ricerca? Questo asse è il lavoro che, in questo ultimo ventennio, dalla sconfitta della Fiat ad oggi, è rimasto tanto centrale socialmente quanto abbandonato politicamente. È questa perdita di centralità – i progressisti che hanno abbandonato il lavoro inseguendo altre centralità (l’impresa) o teorie devastanti (la morte del lavoro) – che ha aperto una immensa prateria non più presidiata, alle scorrerie barbariche delle destre, che hanno recuperato proprio negli operai e nei pensionati, amarissima verità, quei consensi non più ricercati dalle sinistre governiste. Certo, il recupero delle destre avviene con spregiudicate demagogie (il presidente operaio), agitando miraggi (il milione di posti di lavoro, il milione ai pensionati), ma non è sufficiente denunciarlo se la denuncia non è accompagnata da un riposizionamento di centralità e da una ritrovata credibilità. Insomma, le sinistre si debbono riproporre la riconquista di una classe operaia che si è sentita abbandonata. Se ce la facciamo, Berlusconi è sconfitto. Per farcela bisogna, appunto, ripartire dal lavoro e dai suoi soggetti. Proviamoci.

2. Anche Rifondazione Comunista accusa un ritardo su questo terreno. Nel suo ultimo Congresso, Rifonda-zione assestò il proprio asse strategico sul “movimento dei movimenti”, in scelta pressoché esclusiva. Questo movimento, originale ed interessante, non ha dato però al Partito quei ritorni in consenso che, per una forza politica, costituiscono la “verifica delle verifiche”. Questo Partito è oggi sul filo del fuorigioco. Però con una eccellente possibilità di rientro se, paradosso, riparte dalla sconfitta. Riparte dalla sconfitta subita nel referendum per l’estensione dell’art. 18 e dà voce – chi altri potrebbe mai? – ai 10 milioni e più di cittadini che, sfidando anche sinistre e democratici che si sono immersi con le destre nella palude astensionista, hanno detto SI, forte e chiaro. Oggi però l’art. 18 non va messo in archivio a impolverarsi a fianco delle 35 ore. È un tema da comporre in un “programma comunista della trasformazione” da cui estrarre dei punti, tanti, pochi, uno solo, per quella ricerca ai fini di una intesa per cacciare Berlusconi. Assai prematuro perciò parlare oggi di quale sbocco ci potrà essere in questo percorso da avviare. Parta la ricerca. Poi si vedrà.
Lo sbocco – in contenuti, arco di forze, assetto di formula che andrà al voto – sarà tanto più avanzato quanto più avanzata sarà l’iniziativa, in qualità e movimento, che lo sosterrà. Non sarà semplice: fare un programma è difficile, non si tratta solo di allineare obbiettivi, scrivere un documento, ma dire “ con chi e contro chi, e come, e quando” gli obbiettivi si possono conquistare. Quel movimento dei movimenti, che non ha dato gli attesi ritorni a Rifondazione, può essere oggi assolutamente decisivo per far avanzare proprio un programma a carattere antiliberista su cui trovare ampie intese. Un “vasto programma” per un arco ampio. E se è vero che il lavoro deve tornare ad essere l’asse strategico del tutto, azzardiamo un rovesciamento di posizioni: non è più il Partito che deve essere “nel e col” movimento, ma il movimento a essere sospinto anche dal Partito, “nel e con” il lavoro ed i lavoratori. Con progetti ed iniziative. E in reciprocità. Per superare il limite. Del resto il Forum Sociale Europeo di Firenze, a partire dai due livelli di critica avanzati, evidenziò proprio questo limite. Primo livello, lo ricordo, è la critica che il movimento muove a monte, all’espropriazione da parte delle grandi transnazionali, della terra e dei suoli, dell’acqua, delle materie prime, dei brevetti, dei semi, dei farmaci, dei saperi, delle biotecnologie. Secondo livello, lo richiamo, è la critica che il movimento muove, a valle, e spesso con atti simbolici a fini mediatici, ai prodotti in distribuzione. Le due critiche sono composte oggi a Cancun, proprio nel momento storico in cui “con la guerra si esercita il dominio sul petrolio residuo e attraverso il WTO si prepara l’accaparramento di acqua, suoli, ecc”3. Il limite, riconosciuto al FSE, è quello che il movimento, che non ha compiti istituzionali, non è riuscito ad intrecciarsi con quei soggetti, i lavoratori appunto “dei campi e delle officine”, che sudano proprio sui prodotti materiali e immateriali della seconda critica e pagano sulla propria pelle gli effetti delle privatizzazioni selvagge della prima critica. Il movimento che è stato, è sicuramente, “una grande informale agenzia formativa per le giovani generazioni al mondo che cambia”4, ha fatto quel che fecero i grandi partiti di massa nella svolta da agricoltura a industria, li ha sostituiti in questo, ma manca ancora un passaggio. Chiariamo. François Houtart, nella sua relazione al FSE, parlò di “movimenti portatori di utopia e di partiti che devono esercitare l’arte del possibile”5. È il passaggio che manca, è l’arte del possibile. Compito dei comunisti è quello di cercare, sulle cose, il raccordo tra i soggetti del “cosa produrre e per chi” e quelli del “come, dove, quando”. Portare a risultante Movimenti e lavoro. Se si trova questa saldatura – come la si avvicinò nel ’68 tra operai e studenti, operai e impiegati, Nord e Sud – uniti si può vincere per davvero, perché si metterebbe mano alla nuova catena della produzione capitalistica e al nuovo processo di accumulazione. L’obbiettivo è, sempre, “la ricerca del bene comune che può essere solo il risultato di dure lotte sociali con il capitale globalizzato”6. Lo strumento è il conflitto capitale/lavoro, attualissimo. Se si vuole, questo è per davvero il ritorno a Marx. Il movimento è fondamentale, nel raccordo e nel ritorno, ma non basta. Non va chiesto al movimento di sopperire al limite che ha manifestato l’insieme dei partiti (ed anche Rifondazione) nel non aver operato finora per quella saldatura della classe. Ripartiamo, questa è la base del programma. Ripartiamo dal lavoro.

3. Ripartire dal lavoro non significa solo ripartire dalla difesa dei diritti dei lavoratori. I diritti possono in teoria essere tutelati, e si deve, ma se poi vengono sciolti i luoghi in cui esercitarli, essi (i diritti) restano lettera morta. La battaglia per i diritti, pertanto, deve essere accompagnata, particolarmente in Italia, dalla battaglia per una diversa struttura economica: negli assetti, nei servizi, nei prodotti. Bisogna insomma tornare a fare i conti con lord Keynes. Non si scappa. In questa economia, che rotola, in Italia, verso la bancarotta, si tende (padroni e governo) solo a rallentare la scivolata, saccheggiando il monte salari e, nel contempo, disintegrando l’identità operaia. La Legge 30, che poteva essere bloccata inceppandola sull’art. 18, modella infatti un lavoratore “venditore solitario della propria forza lavoro”, senza poteri di negoziazione, un operaio-monaco prono e silente, del tutto funzionale all’economia delle produzioni a basso valore aggiunto e ad alta intensità di lavoro tipica delle nano imprese del Nord Est. In verità è tutta l’Italia che è diventata un grande Nord Est, dove questa economia del capannone, per reggere nella sola competizione che pratica, quella di prezzo e non quella della qualità7 e quindi resistere all’avanzata della vicina Slovenia o della lontana Cina o Corea del Sud, esige: la massima flessibilità della mano d’opera, l’azzeramento del conflitto (il capannone è interclassista), l’orario infinito (nel capannone le 35 ore si fanno in due giorni), il basso salario e l’annullamento dei contratti collettivi. Il capannone è il laboratorio della devolution della contrattazione, in cui i lavoratori monaci più graditi sono gli immigrati, in quanto ricattati dalla Bossi-Fini che consegna al padroncino il permesso di soggiorno, il diritto di vita o di morte: “lavora in silenzio per 15 ore poi sparisci nella notte ma ritorna all’alba”. Ma qui sta il punto: la battaglia per i diritti e la dignità, e per il salario, le pensioni, la rappresentanza, il contratto nazionale, ha una superiore possibilità di affermazione se si accompagna con la battaglia per un altro profilo dell’economia italiana.
Una economia in cui: si operi per ricostruire una massa critica dell’impresa che si attesti ben oltre la micro impresa in cui si è frantumato il sistema; ritorni in campo la programmazione economica ed il ruolo dello Stato nella stessa – dice bene Bertinotti “affermare il nodo di un nuovo intervento pubblico nell’economia”8 – con la programmazione, si investa in ricerca, innovazione, formazione, qualità, finalizzate a specializzazioni e non si investa nelle infrastrutture pesanti del Ministro Lunardi a sostegno di un’economia leggera; le privatizzazioni si blocchino, esse producono guasti, come dimostrano i recenti black out elettrici, in Italia e altrove; si ripensi ad episodi di quell’economia mista9 che, decenni fa, consentirono all’Italia di essere, e lo si è dimenticato, leader europeo10 ora nell’auto, con la Fiat certo, però assistita dagli acciai dell’Italsider, ora nell’informatica con Olivetti, ora nell’energia con l’ENI, ora nella ricerca con il CNEN di Ippolito, ora nella farmaceutica, ora nell’elettromeccanica pesante; e appaiano prodotti e servizi in cui il valore d’uso sovrasti quello di mercato (anni fa la Lega Ambiente si cimentò in un dettagliato cahier di possibilità, inascoltato). E si chiamino a raccolta le Università, la scienza, gli intellettuali e quei manager – ci sono – disponibili a lavorare più per il bene pubblico che non per il profitto di un padrone borioso. Come può entrare tutto ciò, o parte di ciò, in un programma per cacciare Berlusconi che rappresenta l’opposto? Ragioniamo. Si esca perciò con un progetto alto ed ambizioso dallo sconfittismo ventennale che tuttora ci avvolge. I lavoratori solo così torneranno a votare chi, battendosi sui bisogni del presente, è capace di farli sperare e sognare sul futuro. Ma qui giunti siamo al bivio.

4. Siamo proprio al bivio, l’ennesimo: o si rintuzza l’attacco ai diritti, considerando però intangibile il sistema economico che, ogni giorno, vuole ancora mangiare un po’ di industria e un po’ di stato sociale (per quel che rimane di industria e di Welfare) e ci si limita alla difesa, ove ci si difende arretrando; oppure ci si cimenta nella difesa dei diritti, ma alzando il tiro per un altro progetto di un’altra economia che vuole un altro governo, un’altra industria e un altro Welfare, e, quindi, vuole per davvero l’alternativa. Si tratta di scegliere al bivio. Detto diversamente, da una parte ti infili in Europa (con tutte le contraddizioni), dall’altra resti nel Nord Est. O accetti che il capitale “sgoccioli sui bisogni”11 come nelle nobili opzioni delle socialdemocrazie nordiche (in verità oggi, in Italia e altrove, sono i bisogni che sono spremuti sul capitale) o metti mano al capitale e il vecchio Keynes, appunto, ci può fornire le procedure necessarie per l’intrapresa. In sintesi: il raccordo partito/movimento o avviene su questo progetto o resta nel limbo del simbolico. Il programma per cacciare Berlusconi parte da qui (per i comunisti) o non parte. Il famoso treno è poi questo, l’alternativa è il binario morto. Poi vediamo fin dove è possibile arrivare (con i comunisti). Ma c’è un nodo ancora da sciogliere, già con le forze con cui si dovrà salire sul treno: è il nodo dell’impresa.

5. Oggi l’impresa italiana rifiuta la competizione del mercato liberalizzato ossia aperto a gare internazionali e senza dazi protezionistici. A ben guardare questo atteggiamento fu evidente già un decennio fa, quando scattò Tangentopoli. Che decollò nel preciso momento in cui la committenza nazionale, garantita fino ad allora dai Governi per la grande impresa, non fu più praticabile proprio per l’apertura internazionale alle gare e, quindi, a questa impresa non servivano nemmeno più i vecchi partiti assegnatari di una committenza che non funzionava più. Ma, dato che nel periodo lungo del mercato protetto l’impresa italiana, a differenza di altri paesi, non aveva investito in ricerca considerandola spesa inutile, il risultato fu che essa si trovò fuori mercato, in tutti i campi. E non ci fu nessun governo autorevole capace di imporre scelte a questa impresa per indurla a specializzazioni (come si fece anche in Inghilterra, ove si è abbandonata l’auto ma si è investito sull’aviospazio). In Italia i governi, che avevano garantito committenze, hanno continuato a gettare incentivi in un pozzo senza fondo e senza mai richiedere riscontri di risultato, sostenendo tuttora imprenditori che, invece, vendevano e uscivano dalla chimica, dalla siderurgia, dalla farmaceutica, dall’elettromeccanica e, oggi, dall’auto ricercando (costoro) nel cliente garantito dalle privatizzazioni dei servizi pubblici, l’antico mercato industriale protetto. Resta solo la piccola e micro imprenditoria, oltretutto non assistita dal credito, e resta tuttora un Governo che garantisce l’ultimo galleggiamento del grande imprenditore ma spremendo come limoni salari e pensioni e flessibilizzando il lavoro. Le pensioni, ad esempio, sono diventate – per Maroni, D’Amato e il creativo Tremonti – il vero salvadanaio d’impresa, che rappresenta, con il risparmio operaio, quello che un tempo era il tanto decantato “capitale di rischio” dell’imprenditore. Solo che oggi quelli che rischiano sono solo i pensionati. È necessaria una svolta radicale o si finisce per davvero come l’Argentina. A rotoli. In tali condizioni: la centralità torni al lavoro, che soppianti quella dell’impresa; la programmazione si sovrapponga al lassair faire del mercato e alla voracità predatrice dei mercanti; la trasformazione prenda il posto delle fantasie di modernizzazione; la trasformazione sia ricer-ca, qualità, innovazione e formazione; la solidarietà tra i soggetti promotori di una trasformazione che costruisce la ricchezza per tutti,cancelli la competitività tra sfruttati per spartirsi la miseria. E torni in campo quella democrazia sindacale che deve assolutamente rientrare in fabbrica: puoi votare per il “Grande fratello” ma non per il contratto dei metalmeccanici! E, come bandiera di una cultura (la cultura che manca è poi questa) e del programma che sarà, si impugni, nella nuova economia del progetto, il concetto e la pratica della piena occupazione e del lavoro certo: è solo la disoccupazione che costringe ad accettare lavori poco remunerativi e, quindi, non sono i bassi salari la risposta obbligata alla disoccupazione.
E, con coraggio, torniamo a parlare di scala mobile. I lavoratori, se capiscono che questa è la strada, tornano a guardarti e a votarti. Un partito è utile ai lavoratori se fa questa operazione e un movimento mette piede nel concreto se viene, con il suo linguaggio, su questo terreno. Ripartiamo perciò dai rapporti di produzione per ricostruire nuovi rapporti di forza. Chi domina questi rapporti orienta lo Stato. Lo svilimento di questi rapporti che è avvenuto, porta alla torsione democratica, che è avvenuta. Questo insieme affastellato di idee muove, almeno (me lo auguro), verso quello che si è abbandonato: la cultura egemone che prepara, oggi, il dopo Berlusconi di domani, fa capire cosa c’è fuori dall’antro del Ciclope in cui ci hanno rinchiuso da ventanni. E lo si fa capire se si parla di pace, di diritti, di salario e siamo capaci di intervenire sul problema dei problemi: la disoccupazione. E ci si batte. Si lotta e si scrive un programma. Si corre e si pensa.
Dobbiamo recuperare decenni di ritardi. Avanti o popolo.

6. Se oggi la situazione è di assoluta incertezza, noi insomma dobbiamo essere capaci di inserire dei cunei di certezza. Dare esempi, fornire prove e farci identificare su esempi e prove: per tornare credibili. L’incertezza: il tasso di disoccupazione che, in Italia è superiore alla media dei 15 paesi dell’Unione, è addirittura meno preoccupante del carattere della sua composizione che è, in Italia, di lunga durata e, per più di 1/3, composta da giovani sotto i 25 anni. In assistenza al disoccupato l’Italia, come spesa, è al penultimo posto in Europa. Precediamo però l’Irlanda. Abbiamo più disoccupati di tutti, ma li assistiamo meno di tutti. D’altra parte questo è il governo di “lor signori” anche se lo hanno votato pure i poveri cristi, per disperazione. Sinistra se ci sei batti un colpo. E sinistra è quella che si proporrà domani, al primo giorno di governo, di cancellare la Legge 30 (non esiste la flessibilità buona!), è quella che oggi si propone di strappare i senza lavoro all’ansia del quotidiano. Non sono d’accordo con il “reddito di cittadinanza”, che considero adattativo alla società del non lavoro, come diffido di idee collocate nello stesso contesto come il terzo settore o il privato sociale che “soddisfa solo i bisogni sociali privatamente vantaggiosi, cioè quelli solvibili”12. Sosterrei invece il Reddito Sociale Minimo (RSM) che può sembrare per davvero una proposta minima ma che, a fronte del mercato che la legge 30 travolge, può avere, se assunta, effetto dissuasivo massimo. Si tratta di un assegno di durata temporanea per i disoccupati del primo anno e di un pacchetto di servizi primari, finanziato con una quota della Tobin-tax sui capitali trasferiti. Con uno sbocco di certezza dopo l’assistenza: un Lavoro Minimo Garan-tito. Discutiamone, è un piccolo punto, ma è l’insieme dei piccoli punti che oggi fa capire la società della piena occupazione e del lavoro certo che vogliamo conquistare. “Una volta alla sinistra si chiedeva “facci sognare”: oggi perché reduce dal lutto del suo sogno la sinistra distrugge i desideri”13. Per tornare a sognare bisogna essere credibili: un grande progetto, un programma di avvicinamento, piccoli episodi educativi e soprattutto il ritorno di una robusta cultura egemone.
Berlusconi non è un gigante, basta alzarci in piedi.

7. Da un punto minimo sui bisogni al punto massimo nel progetto della nuova economia: l’industria. È l’industria che crea ricchezza. È l’industria di qualità che determina il terziario di qualità. Senza tessuto industriale, il Paese compera e consuma, fino a quando? E diventa colonia. L’Italia in buona misura già lo è, ed è a rischio la sua autonomia politica, economica e militare. L’industria è la chiave di lettura del tutto. Esistono oggi, è vero, problemi di rallentamento della domanda internazionale, che, però, rendono più acuta una situazione in cui: non c’è crescita, ordini e fatturato cadono a picco, siamo allo smontaggio dei siti produttivi, per il terzo anno di fila cala la produzione industriale italiana. Auto, telecomunicazioni, informatica ed impiantistica i settori più colpiti. Siamo su un piano inclinato. Fermiamoci. In questo contesto, come si accennò, i diritti se difesi non avranno più il luogo, la fabbrica, in cui esercitarli. Come fermarli e risalire sul piano inclinato? Con un altro governo dell’economia, con la programmazione certo e con un progetto in cui:
a) si difenda la residua grande industria ed i suoi soggetti, dalla Fiat alla cantieristica, con progetti di innovazione e riconversione, con l’intervento dello Stato e delle Regioni sulle proprietà; con processi, di internazionalizzazione attiva.
b) Si rilanci l’innovazione di prodotto (è l’appello, da raccogliere, del FSE).
c) Si consorzi la piccola imprenditoria verso dimensioni di tenuta nella competizione liberalizzata, sostenendola con credito, formazione e infrastrutture.

Note:

1 Claudio Grassi, editoriale su Liberazione del 27.7.2003

2 Raniero La Valle, “Una nuova sinistra”, il manifesto del 13.5.2001

3 Marco Bersani, inserto di Liberazione “L’insostenibile”, agosto 200

4 Aldo Bonomi; “I socialforum sono una scuola”, Corriere della Sera del 20.1.2003

5 Francois Houtart, relazione al FSE

6 id

7 È una citazione di Augusto Graziani

8 Fausto Bertinotti, “Nuove occasioni, nuove sfide”, rivista del manifesto del 29.9.2003

9 Francesco Indovina, “Economia meglio mista” il manifesto del 29.1.2003;

10 È un’estrazione dai concetti che Luciano Gallino sviluppa nella sua ultima opera, La scomparsa dell’Italia Industriale

11 È una citazione di Olof Palme

12 Giorgio Lunghini, id

13 Raniero La Valle, id.