La resistenza nella capitale, 1943-1944

Non è la memoria di un reduce, ma l’elaborazione di una esperienza consapevole da parte di una protagonista che ha trovato conferma alle sue scelte, vivendo ogni tempo come il proprio, senza nostalgie. Roma ribelle di Marisa Musu e Ennio Polito (Teti editore, pagg. 376, lire 40.000) è un libro di questo tempo, scritto per quelli che non conoscono il passato prossimo o ne hanno un’immagine colorata dai toni ingannevoli del ricordo o falsata da spregiudicate interpretazioni. Un libro costruito come il testo di storia di una scuola che non c’è, rigoroso e facile, attraente e documentato, che unisce documenti inediti o poco noti, pagine dimenticate, introvabili, testimonianze di prima mano raccontate da brevi capitoli che gli autori hanno intitolato Il filo degli avvenimenti. Musu e Polito affrontano la storia di una Resistenza anomala in una città anomala, priva di grandi concentrazioni operaie, centro del potere politico e religioso, ma nella quale comunisti e socialisti avevano saputo creare una rete clandestina fra gli artigiani, gli studenti, le donne e gli uomini di un popolo minuto, affamato e ribelle al quale si erano aggiunti sfollati attratti dalla illusione della Città aperta, militari fuggiaschi rimasti bloccati a metà strada da casa, dirigenti antifascisti liberati appena in tempo dai luoghi di confino. In questa magmatica società nascono e lavorano le forze politiche del CLN; oltre al PCI, i socialisti delle Brigate Matteotti, i Democristiani, Giustizia e Libertà, il Fronte militare monarchico-badogliano e poi Bandiera Rossa che rifiutò il CLN per una pregiudiziale antimonarchica e i Cattolici comunisti che ne furono esclusi dal veto della DC. Ci sono, naturalemtne, luci e ombre; delatori, arresi alla paura e all’avidità, generali e alti prelati che condividono col papa e col re la paura di un domani nel quale un mutato rapporto di forze fra le classi metta in discussione il loro potere, vecchi fascisti disposti a tutto per salvare se stessi e i propri beni. Ombre anche all’interno del fronte antifascista, dove l’attendismo non è sempre e solo dettato dalla paura per se e per gli altri ma anche dalla preoccupazione – condivisa dal governo Badoglio – che l’intervallo fra la ritirata tedesca e l’arrivo degli alleati consenta l’occupazione della città a quel popolo in armi che la borghesia romana conosce e teme. Un popolo che ha trovato i suoi dirigenti e i suoi capi nei comunisti, la forza più consistente, disciplinata, combattiva. Ma Roma ribelle non è solo questo. In modo diretto e limpido, col linguaggio dei fatti, Musu e Polito affrontano i nodi politici della lotta antifascista nel momento cruciale del passaggio dalla cospirazione alla lotta armata, quando si impose, anche a quelli che non presero direttamente le armi, una scelta che poteva costare, e in molti casi costò, la vita. Nodi oggi riproposti da storiografia e pubblicistica che si chiamano “zona grigia”, “morte della patria”, “comprensione” per chi si schierò col fascismo, obiettivi diversi e contrapposti all’interno del fronte antifascista. La teoria, elaborata da De Felice e Galli della Loggia e oggi largamente e autorevolmente ripresa, che comprende nella zona grigia di chi aspettava la fine della guerra indifferente ai suoi esiti, pronto a schierarsi con il vincitore, la grande maggioranza degli italiani è alla base del revisionismo negazionista dal quale deriva la definizione della Resistenza di guerra civile, combattuta fra due gruppi ugualmente esigui e fanatici, fascisti e comunisti. Secondo questa banale e pericolosa vulgata, la Resistenza a Roma si ridurrebbe all’azione di via Rasella, rappresentata come l’iniziativa isolata di un gruppo di comunisti in definitiva veri responsabili del successivo eccidio alle Fosse Ardeatine che avrebbero potuto, prima o dopo l’attacco, evitare. In realtà quella di via Rasella fu la trentatreesima azione dei GAP, alla quale si sommano le iniziative delle Brigate Matteotti, di Giustizia e Libertà, di Bandiera Rossa, dei cattolici comunisti, dei militari. E fu una legittima azione di guerra alla quale i tedeschi risposero con una rappresaglia sui civili non contemplata in nessun trattato, i cui esecutori furono condannati dal Tribunale internazionale per il reato di strage. La notizia dell’attacco di via Rasella venne data insieme a quella del massacro delle Ardeatine per evitare, come dichiarò Kesserling al processo, la reazione dei romani che evidentemente i nazisti consideravano meno “grigi” di De Felice. Forse perché vivevano sulla loro pelle l’odio diffuso contro di loro, sapevano quanto fosse pericoloso entrare senza debita scorta nei popolari quartieri di S. Lorenzo e Quadraro, erano in grado di valutare l’esiguo numero di uomini disposti a lavorare nelle TOD, nonostante le razioni alimentari enormi per quei giorni di fame, sapevano che ogni retata era preceduta da donne e ragazzi in corsa che avvisavano scappate, arrivano i tedeschi, si vedevano sfuggire sotto il naso partigiani e antifascisti per i quali si aprivano porte sconosciute e nascondigli invisibili, dovevano correre più volte ogni notte in soccorso delle colonne militari avviate al fronte di Anzio, bloccate sulle vie consolari dai semplici e micidiali chiodi a tre punte. Sapevano anche che molte case insospettabili, ospedali, cliniche, seminari e conventi ospitavano falsi ammalati, falsi preti e seminaristi, in realtà ebrei, renitenti alla leva, prigionieri alleati fuggitivi, resistenti, tutti coloro insomma che i nazifascisti accomunavano nel termine “comunisti-badogliani”. Probabilmente il maresciallo Badoglio, dal suo sicuro rifugio di Brindisi, avrà reagito con una nobile smorfia alla frase che lo accomunava ai suoi nemici di sempre, certamente molti comunisti l’hanno rifiutata con parole e gesti meno eleganti ma a una rilettura di oggi quella definizione rivela un suo fondo di verità. Nei due giorni di guerra aperta per le strade di Roma, dall’8 al 10 settembre e nei successivi 9 mesi di occupazione tedesca a fianco di antichi combattenti per la libertà, di giovanissimi studenti appena emersi dal lungo sonno della propaganda fascista, di operai, di popolane, di soldati si trovarono uomini per i quali il comunismo era stato qualcosa di pauroso e lontano e la patria un valore alto e indiscutibile per il quale si doveva combattere e si poteva morire. Erano ufficiali dell’esercito, della Marina, dei Carabinieri come Frignani, Oddone, Maraffa come il colonnello Cordero di Montezemolo, ucciso alle Ardeatine, come il generale Martelli Castaldi. Monarchici per tradizione, estranei alla politica, avevano combattuto le guerre fasciste in Africa e in Spagna, spesso riportandone decorazioni e gradi, avevano creduto o voluto credere nella vittoria dell’Asse, avevano vissuto l’armistizio come una dolorosa sconfitta, resa più amara dalla gioia del popolo e dei loro uomini. Alcuni disprezzavano Mussolini e i suoi gerarchi, altri li identificavano con l’Italia, ligi a un costume militare che non prevedeva il giudizio politico sui propri governanti. Così come rifiutavano di giudicare la tardiva e maldestra dissociazione dal fascismo del loro re e la sua fuga ignomignosa: monarchici, fedeli al giuramento. Non mancarono certo, fra loro, i casi di settario rifiuto di ogni contatto con comunisti e socialisti riferiti in un raro testo di Jo Di Benigno, collaboratrice del ministro della guerra Sorice che si affianca a scritti del comunista Amendola, dell’ufficiale Paladini, dell’azionista Colorni, del medico antifascista Ascarelli, alla cui opera di competenza e d’amore si deve il recupero e l’identificazione dei morti delle Ardeatine, ma ufficiali, soldati, carabinieri morirono in combattimento, furono arrestati, torturati, deportati, uccisi insieme ai comunisti del PCI e di Bandiera Rossa, agli azionisti, ai socialisti. Evidentemente per loro, con buona pace di De Felice e di Galli della Loggia, l’idea di nazione non era finita nella stretta soffocante fra una monarchia impossibilitata a essere “credibilmente nazionale e antifascista” e una Resistenza non “sufficientemente nazionale e patriottica”. In realtà la Resistenza è presente non solo nelle case popolari di vecchia tradizione antifascista, ma apre varchi imprevisti in famiglie borghesi “nelle quali ci si poteva permettere di ignorare il fascismo e la guerra” e tragiche contraddizioni in nuclei familiari fascisti.

È il caso del poeta Corrado Govoni, celebrato autore di un “Poema a Mussolini” il cui figlio Aladino, ufficiale di complemento e militante di Bandiera Rossa, fu ucciso alle Ardeatine e quello, molto diverso e toccante, di Luciana Bergamini, studentessa ventenne che rivela a suo padre, ammiraglio, comandante della flotta italiana, che morirà sulla sua nave bombardata dai tedeschi mentre cerca di raggiungere gli alleati “secondo i termini dell’armistizio”, la sua appartenenza alla organizzazione comunista clandestina. L’ultimo penoso colloquio prima di una partenza senza ritorno che si concluderà con poche parole dell’ufficiale “fedele al re ma non favorevole al fascismo” alla figlia “se tu credi in un altro sistema hai fatto benissimo a fare quello che hai fatto… forse non sbagli tu, abbiamo sbagliato noi”. In quei nove mesi si intrecciano esistenze che in altre condizioni storiche non avrebbero avuto l’opportunità di sfiorarsi e si segnano a vicenda: anche se nel dopoguerra torneranno a erigersi molti muri fra le classi e le scelte di campo, per tanti e tante la vita non sarà più la stessa. Jo Di Benigno inveisce piangendo contro l’alto ufficiale che rifiuta di combattere con comunisti e socialisti che lei “monarchica ” e “borghese tradizionalista” considera fratelli d’armi, Montezemolo ignora i ripetuti richiami del governo Badoglio a “non mischiarsi con nessun partito”, preti, frati, suore non seguono l’ambigua equidistanza di Pio XII che l’anticomunismo porta pericolosamente vicino agli occupanti fino al silenzio di fronte alla deportazione degli ebrei del Ghetto e perfino di fronte all’uccisione di due sacerdoti, anti fascisti e legati al loro popolo più che alle gerarchie vaticane, come don Morosini e don Pappagallo. Giustamente, nella sua onesta e coraggiosa prefazione al volume, Paolo Emilio Taviani rivendica l’unità fra regioni, classi sociali, generazioni, scelte politiche che ha fatto della “guerra dei cento fronti” una pagina unica nella storia d’Italia in quanto “germinò da una resistneza di massa e poggiò continuamente su di essa” a differenza dal Risorgimento di cui “fu protagonista una élite”. Con una esemplare coerenza, alla quale purtroppo non siamo più abituati, l’anziano dirigente democristiano trova naturale, dopo decenni di scelte diverse e contrapposte, ritrovarsi a fianco dei suoi compagni di allora per combattere insieme, con uguale determinazione, l’oblio, la rimozione, la dimenticanza. Un ulteriore stimolo alla lettura/rilettura ci è offerto da Roma ribelle con le due frasi che aprono il volume, a mo’ di distico, tratte da Memoria della Resistenza di Mario Spinella edito da Mondadori nel lontano 1974, che vale la pena ricercare fra biblioteche e bancarelle. Solo, a sostenerci, restava l’orgoglio amaro di essere diversi dai nostri nemici…, ..forse era più facile combattere, da partigiani, con l’arma alla mano, che, domani, resistere e avanzare nelle sabbie mobili di una società che abbisognava di una radicale riforma intellettuale e morale”.