La questione salariale

La questione salariale fa parte di una questione molto più grossa: l’attacco al mondo del lavoro sferrato dalla strategia neoliberista avviata all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, dapprima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e poi diffusasi in tutta l’area capitalistica sviluppata, con l’obiettivo di annullare le grandi conquiste strappate dal movimento operaio in materia di condizioni di lavoro e di vita delle grandi masse lavoratrici fra il 1945 e la fine degli anni ’70. Questo attacco si è concretizzato nella fine della piena occupazione e dei salari reali relativamente alti, che erano stati i pilastri dello stato sociale, soprattutto nell’Europa occidentale, ma anche negli Stati Uniti della Grande Società di Lyndon Johnson. Nell’ultimo ventennio del secolo scorso la disoccupazione è salita fortemente nei paesi che oggi fanno parte dell’area dell’euro e che avevano goduto del pieno impiego o quasi, mentre in altri l’incremento più contenuto della stessa è da attribuire a trucchi statistici o a metodi di calcolo inaccettabili, come negli Stati Uniti dove non fanno parte dei disoccupati coloro che lavorano almeno un’ora alla settimana; adottando questo metodo, nell’Italia del lavoro sommerso non ci sarebbe un solo disoccupato. Nonostante tutte le chiacchiere che si fanno sul “nuovo” lavoro autonomo, nell’insieme dei paesi capitalistici la quota dei lavoratori dipendenti sul totale degli occupati è aumentata da quasi l’83 per cento a oltre l’85 fra il 1979 e il 1999. È peggiorata però la qualità di questo tipo di lavoro, in conseguenza del forte incremento delle varie forme di lavoro precario: alla fine del periodo in discorso il lavoro precario ha rappresentato il 50 per cento dei nuovi occupati in Germania, Francia e Italia. Sebbene il lavoro a tempo indeterminato si sia ridotto solo di poco se misurato sulla base non dei flussi annuali ma delle consistenze, la richiesta di sempre maggiore flessibilità dei lavoratori invocata dalla propaganda padronale e governativa ha avuto effetti deleteri sui lavoratori. Da un’inchiesta condotta in Gran Bretagna risulta che il grado di incertezza sulle prospettive di lavoro fra i lavoratori è balzato dal 25 per cento alla fine degli anni ’80 all’81 per cento nella seconda metà degli anni ’90.
L’offensiva neoliberista contro i lavoratori si è dispiegata anche nella distribuzione del reddito fra salari e profitti; come si ricava dalla tabella riportata, nell’insieme dei paesi capitalistici sviluppati la quota del reddito da lavoro dipendente è calata di 4 punti percentuali nell’arco di vent’anni, a favore del residuo lordo di gestione, che costituisce una misura approssimata dei profitti. Nei due paesi in cui la quota è invece salita sensibilmente, ciò è dipeso da due cause differenti: in Giappone è il risultato della depressione in atto in quasi tutti gli anni ’90, la quale colpisce di norma maggiormente i profitti; in Spagna l’aumento della quota si ridimensiona fortemente, se la si depura dell’elevato incremento degli occupati dipendenti sul totale degli occupati, restando di 5 punti percentuali inferiore a quella raggiunta nel 1979. La forte diminuzione registrata nell’Unione europea è dipesa anche dalla forte espansione del lavoro parziale, particolarmente marcata nei Paesi bassi, Belgio e Gran Bretagna. Trattandosi di dati lordi, questi sottovalutano la perdita netta dei salari, che sono stati particolarmente colpiti dall’aumento delle imposte rispetto ai redditi da impresa, come è stato documentato in uno studio specifico della Banca d’Italia che ha interessato i sei principali paesi capitalistici. (Maria Rosaria Marino e Roberto Rinaldi, Tassazione e costo del lavoro nei paesi industriali in “Temi di discussione della Banca d’Italia”, n.373, 2000).
Comunque, non si tratta solo di un andamento sfavorevole del monte salari, al lordo e ancor più al netto, ma emerge anche una forte divaricazione fra i salari bassi e i salari alti, che si era già verificata negli anni ’80 negli Stati uniti e in Gran Bretagna, paesi antesignani delle politiche neoliberiste con i governi Reagan e Thatcher, ma che ora investe la generalità dei paesi considerati. Negli Stati uniti, addirittura, mentre i salari reali del decile più elevato sono aumentati in misura significativa negli anni ‘90, quelli del decile più basso sono diminuiti. Secondo i sostenitori del modello americano, questo sarebbe il risultato della diversa capacità professionale, ma tale interpretazione è contraddetta dal fatto che non si è allargato il divario salariale fra i lavoratori non qualificati e quelli compresi nella fascia mediana del reddito, bensì quello fra questi ultimi e i lavoratori ad alto reddito.
Paul Krugman, in un lungo editoriale sul supplemento del New York Ti m e s del 20 ottobre 2002, mostra quanto sono cambiati gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Egli ricorda gli anni ’50 e ’60 della sua giovinezza in una società costituita in larga parte dalla classe media, a seguito degli impulsi egualitari del New Deal e del dopoguerra. Nel 1970 lo 0,01 per cento più ricco aveva un reddito superiore di 70 volte quello medio; nel 1998 questo divario è balzato a 300 volte. Quando si affronta questo tema , continua l’autore, ci si espone al sospetto di rivangare la “lotta di classe” o di essere preda della “politica dell’invidia.” Gli economisti ortodossi cercano di spacciare questa evoluzione per un portato del processo di modernizzazione, ma in realtà è un ritorno all’Ottocento. Un autorevole sociologo francese, Robert Castel, lo mette bene in evidenza: “L’avventura del lavoro salariato, partito da situazioni miserabili e indegne socialmente, ma poco per volta diventato una situazione relativamente confortevole e relativamente ben protetta, porta a pensare che non si debba svendere, abbandonare quella che è stata una vittoria straordinaria sulla vulnerabilità di massa. Per una buona parte della popolazione, per secoli la vita era vissuta alla giornata, per finire a crepare all’ospizio. Il compromesso sociale degli anni ‘60-’70 ha più o meno vinto questo. È un progresso sociale che merita di essere conservato.” (il manifesto, 25 marzo 1995) La caduta dei salari è stata imposta dalle politiche di riduzione del costo del lavoro, spacciate per necessità inderogabili volte a sostenere la cosiddetta competitività globale. In realtà, tali politiche oltre che essere antisociali sono anche un suicidio dal punto di vista dell’efficienza capitalistica, come è affermato dal più noto studioso di innovazione tecnologica in Germania, Alfred Kleinknecht, in un’intervista concessa a un autorevole settimanale liberale tedesco: “I bassi salari impediscono quella che Schumpeter chiama la “distruzione creativa”, giacché le imprese che praticano la politica dei bassi salari sopravvivono senza sviluppare nuovi prodotti, togliendo potere d’acquisto ai veri imprenditori nel senso schumpeteriano.
Dal punto di vista economico il contenimento dei salari agisce come un premio per le imprese che non innovano, a scapito delle imprese pronte al rischio, che creano lavoro non soggetto a crisi e aperto al futuro. Non solo, ma il veleno dei bassi salari deprime anche la domanda, in quanto un debole livello dei consumi impedisce l’introduzione di nuovi e migliori prodotti.” (Die Zeit, n. 47, 12 novembre 1998).
I paladini dei bassi salari affermano che il modello americano ha consentito un grande aumento dei posti di lavoro nel periodo in discorso, rispetto a quanto è avvenuto nei paesi dell’Unione europea, dimenticando che è in primo luogo cresciuto il numero dei “working poors”, cioè dei lavoratori che non guadagnano un salario sufficiente a vivere al di sopra della soglia di povertà. A costoro si può replicare che questa non è una grande novità: nel ‘800 la stragrande maggioranza dei lavoratori si trovava in questa condizione, tanto che veniva definita “aristocrazia operaia” quella esigua minoranza di lavoratori che avevano un salario dignitoso nei paesi capitalistici più progrediti. Grave è la circostanza che a questa pratica si faccia oggi sempre più ricorso anche in Europa: in Germania il governo socialdemocratico ha varato delle leggi che mirano a creare un “secondo mercato del lavoro”, costringendo i percettori dei sussidi di disoccupazione o degli assegni sociali ad accettare lavori con salari inferiori del 30 per cento rispetto a quelli stabiliti dal contratto nazionale, pena la perdita dei benefici assistenziali. Il già citato settimanale ha criticato di recente la filosofia che sta dietro a questi provvedimenti governativi, sostenendo che se un’impresa riduce i salari può anche migliorare i suoi conti, ma se lo fa l’intera economia nazionale ciò non avviene, perché a questo livello i costi di alcuni sono sempre i redditi di altri. In questo momento, quindi, tale politica di compressione dei salari sarebbe particolarmente deleteria, in quanto dal 2001 i consumi delle famiglie stanno calando in termini reali.