La pace e l’unità della sinistra

E’ con la guerra iugoslava, più ancora che con quella del Golfo, che il tema della pace ha fatto irruzione nel discorso sulla sinistra.
Dopo la guerra iugoslava insieme a Sergio Garavini, Mimmo Gallo, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Mario Agostinelli ed altri, elaborammo un documento per promuovere la creazione di Comitati per la democrazia internazionale, il primo dei quali costituimmo infatti a Roma, ai fini, come diceva il titolo di quell’appello, della “Ricostruzione del diritto e della democrazia dopo la guerra”.
Il giudizio era chiaro: diritto e democrazia erano stati travolti dalla guerra iugoslava, che aveva voluto rovesciare l’ordine giuridico esistente per tornare al vecchio ordine dominato dalla politica di potenza. Si trattava perciò di bloccare questo disegno e ripristinare la democrazia e il diritto sul piano mondiale, nel nesso indissolubile tra eguaglianza, pace e diritti; e proprio questa diventava, sulla base di questa analisi, la questione centrale anche nella stessa politica interna.
Tre erano i punti cruciali della denuncia del progetto di restaurazione del vecchio ordine: la guerra, che era stata messa fuori legge nell’ordinamento vigente, era “ripristinata come giurisdizione e punizione dei forti contro i deboli”; la sovranità, che avrebbe dovuto riconoscere il primato dell’ordinamento internazionale, era “riproposta come rivendicazione di una sovranità universale in capo a un’unica grande Potenza abilitata a dirigere e a pacificare un mondo indocile e globalizzato”; l’ideologia della diseguaglianza era “riproposta nelle forme di una ristrutturazione piramidale e gerarchica della società” nonché nelle forme di un governo politico-militare del mondo di 8 Grandi o dei 19 Paesi della NATO “che si arrogano l’autorità universale e i poteri appartenenti all’intera comunità dei 185 Paesi membri delle Nazioni Unite”.
In particolare l’appello si rivolgeva poi ai lavoratori per sottolineare il nesso costituzionale tra la Repubblica fondata sul lavoro e l’Italia che ripudia la guerra, tra la pace e i diritti politici, economici e sociali, tra lavoro e diritti, tra pace e lavoro, tutto ormai giocato però sul piano internazionale, sicché l’internazionalismo, una volta appannaggio della cultura operaia, doveva diventare l’orizzonte necessario di ogni cultura e di ogni progetto politico.
Ora credo che gli eventi dell’11 settembre abbiano posto la questione in termini ancora più stringenti, sicché i vecchi discorsi che si facevano, anche intorno al tema dell’unità delle sinistre, non possono più essere continuati.
E perciò anche il dibattito sul caso italiano, dopo la vittoria della destra del 13 maggio, non può che cambiare natura. Non si tratta infatti più di discutere come la destra possa essere contrastata e come la sinistra possa eventualmente tornare al potere, ma si tratta di discutere in che modo il caso italiano debba essere affrontato come parte di una questione più generale, che è quella della catastrofe o della salvezza del mondo che stiamo costruendo.
Naturalmente il problema esisteva già prima; e il fatto che esso non fosse stato minimamente presente nella campagna elettorale, che i temi della politica internazionale fossero stati del tutto estranei all’uno e all’altro schieramento, è la prova evidente della crisi della politica; e proprio lì, nel fatto che la coalizione di centro-sinistra non fosse stata nemmeno sfiorata dall’idea che su questo terreno doveva portare la sfida, sulle politiche da intraprendere perché l’alternativa della democrazia e della pace, vincendo in Italia, potesse essere perseguita sul piano mondiale, sta la causa e la spiegazione più complessiva della sconfitta.
Ma dopo l’11 settembre questa vera natura del problema è esplosa sotto gli occhi di tutti. Berlusconi e la destra che egli ha portato al potere, non sono che i figuranti italiani di una rappresentazione internazionale in cui, all’ombra di grandi parole come globalizzazione, modernità, mercato, una minoranza di appagati si fa il mondo a proprio misura, lo permea, lo domina, lo presidia con le sue armi, tenendo a bada e abbandonando alla impotenza e alla morte la maggioranza degli inappagati, dei poveri, degli esuberi e degli esclusi. Il problema non è tuttavia solo Berlusconi. Sia pure in modi più sofisticati, l’intera classe dirigente italiana si sente in realtà parte di questo stesso spazio incantato, ne accetta le politiche, partecipa alle sue guerre e manifesta nei suoi confronti una solidarietà, anzi una “fedeltà” senza critica. In ciò il centro-sinistra al governo non è stato percepibile come diverso, anche quando la Iugoslavia era sotto attacco nel cuore dell’Europa, anche quando due aerei scesi tra i palazzi di Belgrado piantavano il muso contro la torre della Televisione serba e la sventravano coi missili da una distanza di pochi metri, anche quando l’Iraq era bombardato al di fuori di una guerra dichiarata e la popolazione veniva affamata da un embargo irrevocabile, anche quando Israele stracciava gli accordi di Oslo e assediava i palestinesi e ne demoliva le case nella loro terra, anche quando la NATO abbandonava la sua dottrina difensiva, snaturava il suo stesso atto istitutivo e si proclamava giudice, rettore e gendarme del mondo.
Ma ora, dopo l’11 settembre, è venuta la prova della verità, anche per la sinistra, o per le sinistre, italiane. Questa prova è talmente dirimente che destra e sinistra non possono più apparire somiglianti e speculari. Le due linee tra cui scegliere non potrebbero essere più alternative, non solo sul punto della riforma interna della società, ma sul rapporto col mondo. Una è quella che, di fronte alla catastrofe, assume come problema e linea politica la salvezza del mondo, umano e fisico. L’altra è quella che, di fronte al colpo inferto all’America, assume come problema e linea politica la sicurezza del solo Occidente. Le due linee sono alternative nel senso che la prima comprende anche la seconda, perché la salvezza del mondo comprende anche la sicurezza dell’Occidente, mentre la seconda esclude la prima.
La vera lezione dell’11 settembre è che il mondo, anche e proprio perché è un mondo progredito, tecnicizzato, manufatto e fragilissimo, non lo si può continuare a governare così; o si governa con la ricerca del consenso, con tutte le mediazioni necessarie e la ricerca incessante delle possibili soluzioni dei problemi, oppure è un mondo che si frantuma, ben al di là delle separazioni, dei muri, delle distanze di sicurezza, delle fortezze che si vorrebbero stabilire per salvaguardarne solo delle singole parti.
Ed è proprio a partire da quello che è accaduto l’11 settembre e nei terribili giorni che vi hanno fatto seguito, che le strade tra la destra e lo schieramento democratico dovrebbero cominciare a divaricarsi fino a porsi in radicale, visibile e a tutti comprensibile alternativa.
Non si tratta solo di essere contro la guerra all’Islam, ma di essere contro la guerra; non solo di essere contro la lettura religiosa, esorcistica, apocalittica del terrorismo, ma di non chiudersi alla lettura delle cause politiche che lo hanno fatto insorgere, che lo hanno fatto trasformare in fenomeno di massa, e che tuttora lo alimentano. Non si tratta solo di essere per la pace, ma di esprimere una nuova cultura per il mondo, di stare in un altro modo al mondo, di ripristinare, anzitutto, il presupposto dell’unità e dell’indivisibilità del mondo, dell’unicità ed eguaglianza di tutta la comunità umana, del suo unico e indivisibile destino. Ciò poteva ancora suonare idealistico, irrealistico, impolitico a Genova, prima dell’esplodere della Grande Mela. Ma oggi è chiaro che il mondo, vissuto e gestito così, va in pezzi; che la distruzione è concepita non solo nei centri della rivolta e nei campi dei terroristi, ma nei salotti buoni della borghesia mondiale, nelle redazioni dei giornali, nei consigli d’amministrazione e nelle sale ovali dell’Occidente progredito e civilizzatore.
In ciò, per aver compreso ciò, il mondo dovrebbe essere non più come prima. Dovrebbe schiudere le porte alla solidarietà e alla giustizia. Si dovrebbero riaprire trattative, riannodare legami, ristabilire luoghi dove le singole contese possano essere ricollocate in ambiti più generali, multilaterali, ristabilire l’autorità del diritto e delle istituzioni internazionali, restituire ruolo, competenze e vigore all’ONU.
Questo è un mondo di continenti perduti, di ingiustizie conclamate, di oppressioni esibite, in cui tre persone da sole sono più ricche di 43 popoli interi, e le 15 persone più ricche del mondo, secondo l’ultimo rapporto del PNUD, il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, hanno un patrimonio pari al reddito di tutti i 7 o 800 milioni di persone dell’Africa subsahariana. E se una volta ci si provava ad arricchirsi arricchendo, a crescere facendo crescere, a consumare estendendo il consumo, a esercitare la libertà estendendo la libertà, oggi non ci si crede più, si sa che con questo sistema non è più possibile, la stessa realtà fisica della terra è arrivata a un limite che non si può forzare; con questo sistema non è più possibile un mondo di eguali, sono possibili solo due mondi dove essere uomini non può voler dire la stessa cosa dall’una e dall’altra parte, anzi possono esserci solo un mondo e un non-mondo; l’illusione, che animò gli anni 60 e 70, della panacea dello sviluppo, è caduta; senza un mutamento profondo delle politiche, delle culture e delle ortodossie economiche dominanti, il mondo non si può aggiustare (iustari, che è il senso dello ius, secondo San Tommaso), l’ingiustizia non ha rimedio, si può solo progettare e gestire un mondo che vada bene per una parte, una minoranza dell’umanità, e lasci indietro gli altri, i soprannumerari, gli esuberi, quelli che stanno nella parte discendente della cosiddetta curva di Gaus.
Gli stessi documenti di Washington con cui nell’aprile 1999 fu fondata la nuova NATO, elencavano dei rischi che non hanno niente a che fare con la sicurezza militare presidiata da eserciti in armi; essi menzionavano il terrorismo, ma altresì sabotaggio, criminalità organizzata, interruzione di approvvigionamenti, movimenti migratori, fattori politici, economici, sociali, ambientali rivalità etniche, religiose, riforme mal pensate o fallite, violazione di diritti umani, dissoluzione di Stati.
La logica sarebbe di dire che se i rischi sono politici, economici, sociali, culturali, religiosi, ambientali, la sicurezza dovrebbe essere ricostruita sugli stessi piani, combattendo gli squilibri, le disparità, le ingiustizie, le intolleranze, i dogmatismi, i sovvertimenti ambientali, la rapina delle risorse, la polluzione atmosferica, la diffusione della fame, la recrudescenza delle malattie, della povertà, dell’analfabetismo, della schiavitù. Il vero concetto simmetrico a quello di rischio globale dovrebbe essere quello di una sicurezza sociale globale, perché nel rischio globale è illusorio salvarsi da soli, e ancora più illusorio, anzi mitico, è salvarsi per mano della forza armata, è salvarsi con la guerra e con le armi, cioè continuare a pensare nei termini di un mondo, certo più potente e più ricco, che si difende da un altro.
La risposta è invece quella ancora recentemente riproposta da Luigi Ferrajoli in un articolo del Manifesto e in una intervista alla Rete di Rai-Parlamento, a metà ottobre: la creazione di una sfera pubblica internazionale, con istituzioni di garanzia che assicurino un livello almeno minimo di diritti per tutti, dove tutti i problemi siano ricollocati ed affrontati come problemi di interesse comune, come problemi di “politica interna”, come ha detto Habermas, di un mondo riconosciuto nella sua unità, unicità e indivisibilità.
È su questo parametro che bisognerebbe riaprire il discorso sull’unità delle sinistre.
La posizione più lontana è quella di Blair. È quella di una sinistra imperiale, che sta del resto nella tradizione inglese. Si può lavorare per il nuovo Impero da posizioni di sinistra. Blair lo sta facendo con foga, sa che per questo ci vuole la guerra, non ha nessuna cattiva coscienza, non si sognerebbe nemmeno di andare a una marcia per la pace. Finché la posizione resta quella, è evidente che il nome comune, sinistra, non può bastare a stabilire con la sinistra di Blair un’unità che la specifica scelta imperiale invece esclude.
Ma al di qua della Manica le cose sono diverse.
Le sinistre continentali agiscono nello spazio imperiale, ma non sono imperiali. Questo è il loro problema. Vengono da un’altra tradizione, vengono da altre letture. Vengono da un internazionalismo che a malincuore hanno dovuto abbandonare per accreditarsi come forze nazionali, come forze di governo. Esse sono divise. Ma se fossero solo divise tra loro, il problema della loro riunione non si rivelerebbe così impervio sul piano politico.
Il problema è che esse sono in se stesse divise. Sono divise dalla loro tradizione, dalle loro letture, da gran parte dei pensieri e dei sentimenti della gente che le segue, o che dovrebbe rappresentare la loro base naturale, come si è visto nella marcia Perugia-Assisi. Gente che arriva perfino a rallegrarsi che al governo oggi ci siano le destre, così almeno la guerra la fanno loro, e una speranza per domani può rimanere. E la ragione di questa divisione da se stesse, dalle proprie bandiere, dalle proprie eredità, dalla propria gente, è che queste sinistre operano in uno spazio che è quello geopolitico dell’Occidente, che nel suo complesso ha fatto la scelta di preservarsi, di crescere e di salvarsi da solo, e che, perduto il mito dell’universalità, fa secessione dal resto dal mondo e si erge sopra o contro questo altro mondo in termini che sono oggettivamente imperiali o, in una illusoria pretesa di sicurezza, in termini di apartheid. Per questo l’Occidente non va più d’accordo con l’ONU; non perché la trascuri, non perché ironizzi sul Nobel per la pace assegnato all’ONU nonostante la sua inefficacia e le sue defaillances, ma perché l’ONU è per l’appunto l’altro mondo, l’ONU è quello spazio pubblico universale nel quale l’Occidente non vuole dissolversi, e sul quale vuole prevalere.
Dunque è questa separazione, è questa frattura che va sanata, è questa ricostruzione “costituente” dell’unità del mondo che deve essere oggetto della lotta politica. Per fare questo occorre ricomporre l’unità; ma non principalmente degli spezzoni della sinistra, bensì la ricomposizione dell’unità della sinistra con se stessa, con la propria cultura e i propri valori. Una sinistra pirandelliana, una sinistra che scinde la realtà dalle sue rappresentazioni e che perciò cambia le parole per non cambiare la realtà, non è un’alternativa neanche per se stessa. L’uomo diviso, dice una lettera dell’apostolo Giacomo, è un uomo di cui non ci si può fidare, e a cui perciò non ci si può affidare.
Lavorare all’unità delle sinistre vuol dire allora lavorare a questa unità: all’unità della sinistra con se stessa; e vuol dire lavorare all’unità del mondo. Una sinistra che non sia per il mondo, non ha senso.