La nuova era di Putin: continuità o rottura con il regime eltsiniano?

Le elezioni presidenziali russe del 26 marzo 2000 incoronano già al primo turno Vladimir Vladimirovic Putin con il 52,94% dei voti contro il suo più diretto concorrente, Gennadij Andreevic Zjuganov, il leader del Partito comunista della Federazione Russa (PCFR) che sfiora il 30%. Il quale, in una conferenza stampa del 4 aprile, espone una dettagliata e articolata denuncia di violazioni della legge elettorale e di veri e propri brogli, con la falsificazione diretta dei risultati che avrebbero attribuito a Putin molti voti in più, corrispondenti a 7-8 punti percentuali, dando così la possibilità di evitare il ballottaggio che a tre quarti di voti scrutinati sembrava sicuro (cfr. il sito del PCFR, http://www.kprf.ru e il sito di Zjuganov, http://www.zyuganov.ru). Ma la commissione elettorale centrale, sostenuta anche dagli osservatori internazionali dell’OSCE (organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) ritiene in un primo rapporto che non vi siano state irregolarità tanto gravi da intaccare la validità dello scrutinio (cfr. F. Bonnet, Le monde, 27.3.2000).

In pochi mesi, a partire dal 9 agosto dello scorso anno, quando con una decisione inattesa Eltsin lo sostituisce come premier a Stepashin, si realizza, senza ostacoli o incidenti di percorso, la folgorante ascesa dell’ex funzionario del KGB sovietico, passato, nel 1998, a dirigere i servizi di sicurezza della Federazione russa (FSB). Ed è da questa posizione che egli rende alla “famiglia” di Eltsin (il clan dei grandi supermonopoli che all’ombra del potere presidenziale hanno fatto man bassa delle risorse della Russia) un grande favore: nel luglio 1998 Putin fa la sua prima comparsa pubblica in televisione per assicurare che l’uomo che appare nudo in compagnia di due prostitute in una videocassetta diffusa dalle televisioni è proprio il procuratore Skuratov; quanto basta perché l’uomo delle inchieste giudiziarie sugli scandali della “famiglia” possa essere sospeso per un anno (cfr. L’Humanité, 28.3.2000). Del resto, sin dal momento della sua nomina a primo ministro Putin viene presentato da Eltsin quale suo delfino e candidato ideale per le presidenziali che si sarebbero dovute svolgere alla scadenza naturale del giugno 2000. Ed è in tale veste di delfino e prosecutore degli interessi degli oligarchi russi che lo interpreta la grande stampa internazionale. Le dimissioni anticipate di Eltsin a fine anno e la conseguente (secondo la costituzione russa) nomina di Putin a presidente ad interim fino alle nuove elezioni presidenziali anticipate, appare il colpo da maestro del barcollante presidente e della “famiglia”: una straordinaria operazione gattopardesca con cui Putin continuerà lo eltsinismo senza Eltsin.

La “resistibile ascesa” di Vladimir Vladimirovic è direttamente legata alla guerra contro “i terroristi ceceni”: la sua nomina coincide con l’invasione, tra il 5 e l’8 agosto, del Dagestan da parte di duemila guerriglieri del ceceno Basaev, che rivendicano il progetto di uno Stato islamico nel Caucaso. Una crisi gravissima per la Federazione russa, che giustifica la sostituzione dell’incerto Stepashin con il “decisionista” Putin, la cui popolarità cresce a mano a mano che si acutizza il “pericolo ceceno”. Gli oscuri e gravissimi attentati di settembre che sconvolgono le città russe provocando 300 vittime, vengono attribuiti immediatamente dai servizi segreti russi ai “terroristi islamici”. Tanto sull’azione di Basaev, quanto sugli attentati di settembre non sono pochi i sospetti che si tratti di azioni studiate a tavolino per fornire il pretesto e il terreno adatto all’avvento dell’”uomo forte”, del “salvatore della patria: un diversivo per far dimenticare l’immiserimento delle masse e il degrado del paese in 10 anni di potere eltsiniano. Basaev sarebbe direttamente finanziato anche dal potente oligarca russo – con passaporto israeliano – Berezovskij (Cfr. Libération 4.11.1999). Il quale ha fornito con la sua catena di tv e giornali un appoggio determinante a Eltsin nelle presidenziali del 1996 ed è stato il grande elettore di Putin, favorendo prima l’affermazione consistente della sua coalizione Unità nelle elezioni di dicembre ’99 per la Duma e poi quella alle presidenziali di marzo. I mass media controllati da Berezovskij hanno scatenato un’offensiva senza precedenti per violenza denigratoria contro i candidati della coalizione di “centro-sinistra”, l’ex premier del risanamento economico (dopo la crisi dell’agosto 1998) Primakov e il sindaco di Mosca Luzhkov (ripreso in compagnia di un uomo d’affari ceceno e accusato di tradimento nazionale). Sulla sanguinosa serie di attentati di settembre, i sospetti che siano opera dei servizi segreti russi controllati da Putin (cfr. G. Chiesa, nelle interviste a Liberazione del 10 e 17 settembre 1999; L’Humanité 7.1.2000) sembrano confermati dal reportage della rete NTV, controllata dall’oligarca concorrente Gusinskij: gli esplosivi ritrovati il 22 settembre nella casa di Rjazan sarebbero stati collocati da agenti del FSB sorpresi in tempo dalla polizia (cfr. Le monde, 24.3.2000).

In pochi mesi Putin ha dimostrato di saper usare sapientemente e cinicamente tutti gli strumenti del potere per conquistare consensi e compiere la sua scalata, riuscendo a costituirsi una base autonoma per il suo potere, oramai legittimato da un consenso popolare. Non è affatto scontato, però, che egli sia il continuatore del regime eltsiniano. Intanto, dovremmo definire cosa è stato lo “eltsinismo”.

Il decennio eltsiniano è stato caratterizzato dalla svendita della proprietà statale russa, dalla rapina a man bassa delle sue risorse da parte di un’oligarchia mafioso-criminale, che ha trasferito – legalmente e illegalmente – nelle mani di pochissimi individui le immense ricchezze del paese. La gestione Ciubais delle privatizzazioni ha prodotto quest’oligarchia di monopoli superpotenti che controllano complessi minerari e petroliferi, catene della distribuzione, giornali e televisioni. Intenti ad accaparrarsi risorse all’interno, gli oligarchi sembrano essersi disinteressati della politica estera della Russia. O meglio: sbandierando il drappo dell’Occidente, della liberalizzazione contro il pericolo di un ritorno del comunismo, avevano negli Usa, nella UE e nella Nato i loro padrini, che salutarono con favore ed entusiasmo il bombardamento del parlamento russo nell’ottobre 1993. Intenti a derubare la Russia, gli oligarchi hanno lasciato mano libera agli Usa nel Caucaso e hanno favorito la disgregazione dello Stato russo stesso (cfr. G. Chiesa, Roulette russa, Guerini, 1999). La federazione russa non ha una legislazione adeguata, ogni repubblica o regione ha una sua legge spesso non conforme a quella centrale, lo Stato russo sembra un colabrodo, le regioni vanno ognuna per suo conto, il rischio di uno smembramento è alle porte. Intenti a derubare la Russia, gli oligarchi hanno favorito la deindustrializzazione, il crollo della produzione industriale e del PIL, il dissesto anche delle industrie avanzate, del complesso militar-industriale, la fuga dei cervelli. La Russia rischia di trasformarsi in una colonia, fornitrice di materie prime. Eltsin non è stato il traghettatore della Russia verso l’”economia di mercato”, ma il presidente della mafia di Stato asservita agli interessi Usa. Ogni anno di eltsinismo è stato un colpo durissimo inferto al paese nel suo complesso, ne ha minato le basi di sopravvivenza. Per poter rubare a man bassa, occorreva una legislazione approssimativa o inesistente, confusa e malleabile, che consentisse l’arbitrio. Occorreva un semi Stato, un non Stato, una terra di nessuno dove poter operare scorribande.

Ma la rapina ha un limite nell’esaurimento delle risorse da rapinare. Non solo: la marcia della Nato verso Est, la colonizzazione americana della Georgia e dell’Azerbajgian, il ruolo svolto dalla Turchia quale testa di ponte degli interessi americani nelle repubbliche islamiche ex sovietiche dell’Asia centrale e nelle regioni asiatiche della Federazione Russa, gli accordi per i corridoi energetici che escludono la Russia, tutto ciò mina le basi stesse su cui poggia il potere degli oligarchi, gran parte dei cui proventi deriva dall’esportazione di petrolio e gas.

L’aggressione della Nato contro la Jugoslavia suona anche per loro come un campanello d’allarme e viene sentita dall’opinione pubblica russa come una minaccia diretta e molto ravvicinata al proprio paese. Quell’aggressione mette fortemente in crisi il rapporto privilegiato con l’Occidente che era stato il cardine del sistema di potere eltsiniano: è uno degli “effetti collaterali” a lunga durata dei bombardamenti contro la Jugoslavia. Al pari della reazione dura e decisa alla proclamazione della repubblica islamica di Basaev nell’agosto 1999. Senza l’aggressione della Nato, la seconda guerra cecena non avrebbe raccolto tanti consensi nell’opinione pubblica, che l’ha sentita come una guerra per arrestare la “balcanizzazione” della Russia, la disgregazione della Federazione. Con o senza Eltsin, lo eltsinismo – quale sistema di rapina interna sorretto dai padrini internazionali americani – era già profondamente in crisi. I processi interni e internazionali ne avevano minato le basi.

Un cambio di rotta si imponeva, con o senza Eltsin (ma meglio senza, data la scarsa credibilità interna e internazionale del personaggio). La crisi daghestana e cecena, per quanto montata dai servizi segreti, è la spia di un pericolo reale: la disgregazione e la balcanizzazione della Federazione Russa, un processo che non potrebbe intervenire pacificamente e si ripercuoterebbe catastroficamente sull’intero Stato, aprendo un periodo di torbidi, gravido di pericolosissime conseguenze che metterebbero in discussione le stesse acquisizioni degli “oligarchi”,. Il capitalismo mafioso e “selvaggio” deve cedere il posto al capitalismo “normale”, cioè regolato da uno Stato, dalle sue leggi, da un sistema fiscale, come avviene negli Usa, in Europa, in Giappone. Recuperare lo Stato, una forte statualità, diviene un imperativo non ulteriormente aggirabile. Non è affatto vero che Putin non abbia un programma o un progetto.

Se si leggono i suoi interventi pubblici degli ultimi mesi – sono la sua campagna elettorale – emerge un quadro abbastanza netto della sua proposta politica, enunciato a chiare lettere e ribadito più volte, in una marcata ed esplicita presa di distanza dalle posizioni ultraliberiste (cfr. http://president.Kremlin.ru./events). Tanto nei diversi interventi (incontro sui problemi del mare del Nord, 5 aprile; riunione allargata del Ministero per l’energia atomica, del 31 marzo; intervento all’Unione delle città russe, 21 marzo; riunione degli operatori del complesso militar-industriale, 21 marzo; incontro con gli insegnanti; 18 marzo; incontro coi rappresentanti della piccola impresa, 15 marzo, ecc.), come anche nel suo appello agli elettori per le presidenziali, si sottolinea la necessità di ricostruire uno Stato, con un non infrequente richiamo al passato da grande Stato, alla potenza russa, alla derzhavnost’. La democrazia, scrive Putin, “è la dittatura della legge”, “più lo Stato è forte, più l’individuo è libero”, “solo uno Stato forte ed efficiente può garantire la libertà d’impresa, la libertà dell’individuo e della società”; così si restituisce dignità personale ai singoli in nome della dignità nazionale. Lo Stato deve ridefinire in modo chiaro i rapporti con le regioni e le repubbliche autonome, i rispettivi obblighi e competenze. Deve basare la sua politica estera esclusivamente sulla base dei propri interessi nazionali (il che significa anche una notevole presa di distanza da Belgrado). Lo Stato deve essere in grado di proteggere il mercato dalle ingerenze illegali, della criminalità e della burocrazia. E deve avere una politica economica tesa a difendere lo sviluppo della “industria nazionale”; e non dilapidarne il patrimonio, il che significa anche non consentire la svendita dell’energia elettrica e dei carburanti – con tariffe 3-7 volte più basse rispetto ai prezzi del mercato mondiale; e obbligare le imprese che comprano merci estere in presenza di prodotti analoghi in Russia a compensare in parte le perdite dell’industria nazionale, checché ne dicano gli economisti liberali: negli Stati Uniti d’America una tale legge esiste. E questo è il paese con la legislazione più liberale” (discorso del 22 marzo sui problemi dell’industria metal-meccanica). La politica economica deve mirare altresì a sviluppare la piccola e media impresa, che va alleggerita dall’eccessiva tassazione e puntare allo sviluppo di qualità, per rendere le imprese capaci di affrontare la concorrenza straniera (tema sul quale Putin insiste in diverse occasioni) sul mercato interno ed essere competitive sul mercato estero; in particolare vanno estesi e conquistati nuovi mercati nei paesi in via di sviluppo. Ma le imprese devono essere capaci di autofinanziarsi; lo Stato potrà sostenere solo alcune imprese “uniche”, di grande interesse strategico, del complesso militar-industriale: la soluzione al problema della povertà e della disoccupazione che affligge la Russia postsovietica è nella crescita a ritmi accelerati della produzione (che nel ’99, grazie anche agli alti prezzi mondiali del petrolio e del gas, di cui la Russia è esportatrice, ha conosciuto una insperata crescita): altra via non c’è, ribadisce Putin: un pragmatico che “non promette miracoli” e che vede per il XXI secolo non una “battaglia di ideologie, ma una fiera competizione per la qualità della vita, la ricchezza nazionale e il progresso” (Lettera aperta agli elettori russi).

Finora, la pratica quotidiana appare divergere notevolmente dal programma putiniano, non foss’altro per la pretesa – come lascia intendere anche Zjuganov (cfr. l’articolo “Le elezioni sono passate, che accadrà domani?” in Sovetskaja Rossija, n. 44, 15 aprile 2000) – di voler ristabilire una legalità basandosi su brogli elettorali e pratiche illegali. Tuttavia, per le contraddizioni interne, i disastri provocati dallo eltsinismo e la necessità di un recupero di statualità, l’operazione Putin non può essere semplicemente un’operazione di facciata. Il che non significa però né politica sociale a favore delle masse popolari immiserite, né sviluppo democratico del paese, ma il tentativo di costruire un ambiente più propizio allo sviluppo di un capitalismo russo in grado di competere sul mercato mondiale.