Nelle politiche del maggio scorso Rifondazione comunista, con il cinque per cento, sconfigge il tentativo della sua cancellazione dal panorama politico istituzionale. Il voto meridionale contribuisce notevolmente al raggiungimento di questo obiettivo. Il Partito, nel sud, inverte la tendenza negativa delle precedenti regionali e mentre nelle restanti aree di voto (nord, centro e isole) le nostre liste subiscono una leggerissima flessione, il voto meridionale (+1,3% alla Camera e +1,7% al Senato) consente la conquista della soglia fatidica del 5% e colloca il nostro Partito tra le maggiori formazioni politiche nazionali. Dentro questo risultato positivo rilevante è il contributo del voto calabrese (+2,7% alla Camera e +3,5% al Senato) grazie al quale si eleva il risultato meridionale.
Ciò nonostante il Mezzogiorno, con la sua storica specificità, viene trascurato dal dibattito delle tesi congressuali e solo nell’ultimo CPN la commissione ristretta propone una tesi specifica sul Mezzogiorno, sanando con ritardo una deficienza d’analisi mastodontica. Questa scelta, per nulla casuale, evidentemente include la questione meridionale tra le questioni centrali del pensiero comunista e socialista del Novecento da rimuovere, e forse solo la testardaggine di migliaia di compagni ha determinato il recupero di un tema vitale per la vita del Partito. Ciò non può che non chiedere un bilancio del lavoro del responsabile del Dipartimento del Mezzogiorno, chiamato dalla Fiom per seguire le regioni meridionali, ma forse distratto da questioni diverse per elaborare una sintesi comune. La tesi, che pone alcuni interessanti elementi di vertenzialità, manca dell’inchiesta sui punti di maggiore crisi delle regioni meridionali, per cui rischia di apparire come mero assemblaggio di luoghi comuni, incolore nelle prospettive di possibili aggregazioni sociali, in parte anche circoscritta e localistica nella lettura della società meridionale, specie quando tenta di ridurre l’intera crisi del Sud all’occupazione mafiosa del potere locale e regionale. Dentro questa interpretazione, sicuramente datata, che va anche perdendo la freschezza dell’originalità, il Sud resta imbrigliato in una sorta di fatalismo criminale il quale accomuna buoni e cattivi, onesti e delinquenti, senza distinzione di classi e di ceti, senza differenziazioni di responsabili che, per il suo intrinseco determinismo destina il popolo meridionale a restare comunque vinto e lontano dal contesto nazionale ed europeo. I vinti del Verga, ahimè, sopravvivono anche in piena globalizzazione.
La crisi democratica delle regioni meridionali
Chi vive nel Mezzogiorno sa che vi sono ben altre questioni, a partire dalla crisi democratica in atto nelle regionali meridionali. Grazie al fallimento delle politiche del centrosinistra è stato possibile il radicamento, ormai capillare, di una nuova entità politica, Forza Italia, che per dinamiche di consenso popolare e capacità di mediazione tra i vari segmenti del potere nel Sud non ha nulla da invidiare alla vecchia Dc e ai suoi alleati di centro sinistra della più acuta fase craxiana. Prima questione. Immediatamente dopo, è altrettanto importante avere la consapevolezza che da sempre il Sud è governato, anche durante l’esplodere di crisi acute, da un sofisticato equilibrio tra i poteri dominanti che trovano una loro saldatura nel nome dell’interesse particolare rappresentato dalla spartizione del gettito delle risorse pubbliche. Attualmente, insieme al vecchio ceto cattolico democristiano e alla destra populista meridionale, tra enunciazioni ultra liberiste e innovative e pratiche neoclientelari, che si reggono mediante l’uso spregiudicato dell’associazionismo e del volontariato, è il Partito di Berlusconi che procede nella corsa all’occupazione del potere. In questo modo, a fronte di un processo di privatizzazioni devastanti dei servizi fondamentali, si evolve il fa-migerato clientelismo meridionale che da singolo diventa collettivo, per cui le varie forme di asso-ciazionismo conosciute come terzo settore, diventano luoghi di mediazione clientelari, fonte di un nuovo assistenzialismo e strumento di imbrigliamento e di frantumazione del conflitto sociale.
E’ questa innovazione delle dinamiche clientelari, nate in epoca di centro sinistra, ad aiutare il centro destra nella diffusa occupazione del potere meridionale che induce a parlare di crisi di democrazia, la quale attraverso la forte riduzione delle rappresentanze politiche nelle sedi istitu-zionali, fa pensare, come avvenne con il giolittismo, il fascismo e il sistema democristiano, alla na-scita di un nuovo regime del potere meridionale imperniato sul consenso mass-mediatico e in-trecciato alla mediazione tra poteri locali, settori della economia e della finanza settentrionale e poteri politici romani.
Il blocco di potere delle destre
L’azzeramento delle rappresentanze dell’Ulivo nelle elezioni politiche siciliane, il risultato delle successive elezioni regionali amministrative in Sicilia (Regione e Palermo) e nel Molise, e-videnziano come la Casa delle libertà ha costruito un blocco di potere collocandosi come cerniera tra ceti popolari e le variegate articolazioni del sempre vitale sistema di potere meridionale. E’ del tutto chiaro che di questa saldatura tra le destre liberiste e i ceti popolari è frutto dell’abile recupero da parte del partito di Berlusconi del ceto politico moderato il quale, facilitato dal consolidamento del sistema bipolare, ha trovato nel sistema maggioritario lo strumento più efficace per il suo duraturo consolidamento. Sintomatici sono stati, durante le elezioni di maggio, i casi di trasversalismo tra candidati dei due schieramenti che disinvoltamente si sono scambiati i voti dai collegi della Camera a quelli del Senato, con grande spegiudicatezza anche nella quota proporzionale per come ha denunciato in Parlamento Achille Occhetto, vittima a Cosenza di queste bizantine congiure meridionali. Ciò, soprattutto, è favorito dall’attuale sistema elettorale che annullando le differenze culturali, ideali e programmatiche, da vita a candidati clonati i quali rivolgendosi allo stesso elettorato con identico linguaggio e in totale assenza di differenze nelle proposte politiche, non solo inducono all’astenzionismo diffuso, ma favoriscono la ricomparsa di una nuova schiera di notabilato politico che nulla ha da invidiare ai migliori tempi giolittiani.
Nel Mezzogiorno, come sempre, va costruendosi un blocco politico moderato, dentro il quale i poteri mafiosi sono parti attive e protagoniste, ma non uniche o determinanti. Si perpetua, ancora una volta, la separatezza consensuale tra economia e politica, dentro la quale il blocco moderato meridionale garantisce il governo della destra, rinuncia alla gestione della economia e ottiene la gestione indiscriminata delle risorse pubbliche destinate al Sud. Strumento recente della mai cessata subalternità delle classi dirigenti meridionali è la riforma federalista dello Stato e la volontà di applicazione indiscriminata del principio di sussidiarietà orizzontale mediante forme di privatizzazioni devastanti nella gestione dei servizi fondamentali alle persone e di quelli strategici come la gestione delle acque, la raccolta dei rifiuti, la gestione del sistema dei trasporti. Sussidiarietà orizzontale mediante la quale si ipotizza la spartizione delle ingenti risorse naturali e ambientali tra il ceto politico meridionale e quello economico delle aree forti del paese. Per il conseguimento di questi obiettivi, nel Mezzogiorno si va, via via, consolidando una innaturale saldatura tra politica, burocrazia amministrativa, sistema creditizio e ordini professionali: tutti complici nella spartizione della grande torta preparata grazie alla privatizzazione della sanità e dell’istruzione, della gestione delle acque e dei trasporti, delle risorse energetiche e della stessa montagna. Il tutto legittimato da cinque anni di follia del centro sinistra nella dismissione del pubblico dalla gestione di qualsiasi attività economica.
A fronte del consolidamento di un neo regime politico profondamente antidemocratico, che porta progressivamente la Casa della libertà alla occupazione di Regioni, Provincie e Comuni e del radicarsi, grazie alla legge sulla elezione diretta dei Presidenti delle regioni, di un nuovo sistema di potere meridionale fondato sulla gestione extraistituzionale delle politiche regionali, manca tra i ceti popolari e nella società dei bisogni ogni forma di conflittualità o antagonismo sociale.
Frantumazione sociale, potere affarista e nuova mafia
Pensare oggi il Mezzogiorno significa avere consapevolezza di essere al cospetto di una società caratterizzata dal comune denominatore della frantumazione sociale la quale grazie a ciò favorisce il radicamento di un blocco politico moderato e affarista.
La stessa mafia si presenta con caratteristiche diverse per come viene presentata all’immaginario collettivo. Essa di sicuro non è quella che ormai una certa letteratura di sinistra, tende a generalizzare con “cosa nostra”. Oltre alla mafia siciliana, con le sue cupole, il Sud è il territorio nel quale si è consolidata la terribile ndrangheta calabrese, forse la più sofistica e impenetrabile mafia, la feroce camorra napoletana con le sue articolazioni metropolitane, ben differenti da quelle summenzionate e la recente, ma non meno violenta, “sacra corona unita” pugliese che trova manovalanza e affari con le mafie balcaniche. Dunque mafie diverse per interessi e per gestione dei propri affari illeciti; mafie che si dispiegano in forme differenti nell’utilizzo delle risorse, ma con culture anche diverse nel loro processo di consolidamento. C’è chi si radica nel territorio investendo i fondi illeciti in economia pulita con modalità diverse dall’agricoltura al turismo; chi guarda alle banche, alla finanza o alle assicurazioni; chi si dispiega e si ricicla negli affari puliti come può essere la raccolta dei rifiuti, se non addirittura chi investa nella ricerca e nei saperi come via al riciclaggio degli affari illeciti. Tutto ciò non sempre consegue una associazione diretta tra mafia e politica.
Frantumazione del sistema produttivo
Siamo, poi, di fronte alla frantumazione di un sistema produttivo che varia dalle esperienze agricole d’avanguardia ai distretti industriali, dal turismo di qualità che tende ad essere competitivo con quello di massa, alla nuove attività produttive che basate sul terziario avanzato delle nuove tecnologie digitali. Questa realtà economica e produttiva fortemente diseguale e disomogenea -oggi si tende a dire a macchia di leopardo- non ha la forza di arrestare lo smantellamento delle grandi aree industriali, una volta vitali nella produzione siderurgica o nella meccanica di supporto alle grandi case dell’auto e degli elettrodomestici. Quel che rimane dell’apparato industriale meridionale oggi è diventato laboratorio di frantumazione dell’impresa, che si dividono e si organizzano in aziende figlie e poi favoriscono il nascere di lavoro autonomo tra gli stessi operai messi in mobilità, pur di ridurre al minimo i diritti salariali. Anche nel sud, purtroppo, c’è un vastissimo popolo della partita Iva, figlio della frammentazione territoriale dell’economia, fra l’altra diversificata per attività, e vittima della penetrazione di una nuova colonizzazione del Sud.
Politiche di colonizzazione che ritrovano uno snodo cardine nel sistema creditizio del Sud, ormai nelle mani delle banche nazionali ed europee le quali attraverso un collaudato meccanismo di acquisti e cessioni, non solo provocano una costante instabilità del sistema bancario meridionale, ma depredano risorse, provocano cessazioni di sportelli, riducono l’occupazione, distolgono le risorse finanziarie destinate al Mezzogiorno. Basta pensare quale pacchetto di affari può rappre-sentare per le forti banche del nord la partita dei fondi strutturali europei di Agenda 2000, destinati allo sviluppo delle regioni meridionali, per rendersi conto che nel Sud non deve esistere una sistema creditizio, autonomo e forte, in grado di essere al servizio dell’economia locale.
Sintomatico è il caso della vecchia CaRiCal, oggi Carime, sballottata come un bicchiere di plastica da una proprietà all’altra, che prima viene acquistata dal gruppo Intesa e successivamente, dopo un intervento di drenaggio delle risorse e di riorganizzazione della struttura amministrativa al di fuori della Calabria, viene rivenduta ad un gruppo minore procurando la chiusura di nuovi sportelli sempre nel nome della razionalizzazione e del contenimento dei costi.
Ovviamente, in queste condizioni, è facile comprendere che siamo di fronte ad un alto costo del denaro, determinato da fattori esterni, che ostacolano la piccola attività produttiva del settore autonomo o artigianale, spalancano nello stesso tempo le porte alla grande distribuzione com-merciale, che non solo drena ricchezza dal sud al nord, ma indebolisce il diffuso sistema del pic-colo commercio necessario soprattutto nelle aree interne meridionali.
La colonizzazione di memoria gramsciana
Dunque, la colonizzazione di gramsciana memoria si evolve e cambia volto, ma non muta nella sostanza. Augusto Graziani scriveva qualche anno fa che l’ultimo grande investimento produttivo che si ricordi nel Sud è stato quello della Fiat di Melfi. Pur tuttavia la grande industria, soprattutto quella energetica di Stato, prospera nella sua attività di spoliazione delle ricchezze e di devasta-zione dei territori nelle regioni meridionali trattate in eguale modo di quelle delle aree depresse del Sud del mondo. E’ il caso dell’Eni, che in Calabria distrugge i fondali del mare antistante la città di Crotone, buca il fondo marino e con le estrazioni causa l’abbassamento dei fondali, distruggendo l’attività della pesca nella quale erano impegnati migliaia di pescatori. Come contropartita a Crotone sono chiuse le attività dell’area industriale, e nel vicino comune di Belvedere di Spinello l’Enichem estrae salgemma con una capacità di occupazione per oltre mille e duecento operai. Naturalmente i benefici della popolazione locale sono quelli di sette/otto lavoratori stagionali senza altri costi aggiuntivi, mentre l’intero territorio sprofonda e la superficie si desertifica distruggendo l ‘ agricoltura, unica risorsa produttiva del territorio. Conseguentemente tra l’Eni e la Regione Calabria non esistono né royalties né altre convezioni in contropartita per la gestione predatoria delle risorse calabresi. Non da meno si comporta l’Eni con quelle regioni dove si è riusciti a stipulare una royalti come con la Regione Basilicata per la gestione dei giacimenti di petrolio del massiccio del Pollino nel versante lucano. Da tempo la popolazione interessata denuncia, senza risposte ade-guate, l’assenza di misure di sicurezza per le zone limitrofe alle escavazioni dei pozzi, il forte in-quinamento del territorio montano, la distruzione del sistema idrico e dell’attività agricola, la deva-stazione dell’opportunità del Parco del Pollino come ipotesi di sviluppo altro e pulito.
C’è poi la colonizzazione dell’Enel, che prima tenta di entrare attraverso i suoi uomini nell’apparato burocratico delle regioni per la gestione dello smaltimento e del riciclaggio di rifiuti, per poi partecipare nella gestione dell’acquedotto pugliese e, attraverso di esso di essere partner nella società di gestione delle acque calabresi che la giunta regionale di destra tenta di affidare ai privati. La stessa Enel, grazie alle scelte errate dei ministri dell’ambiente del centrosinistra, costruisce un elettrodotto dalla Basilicata a Reggio Calabria destinato ad essere di supporto alle società private produttrici di energia elettrica. Ovviamente, dentro questi grandi affari, la questione ambiente diventa un irrisorio optional in cui il territorio, per le sue caratteristiche di ridotta antropizzazione, viene destinato ad essere luogo di deposito dei rifiuti tossici e letali provenienti da tutta Europa.
Infine l’affaire ponte sullo stretto che cos’è se non una grande opera attraverso la quale si vuole ottenere il controllo privato dell’intero sistema di trasporto meridionale: ferrovie, vie navali ed aeree, autostrade, per mezzo dei quali i grandi capitali nazionali e internazionali puntano al controllo del sistema di comunicazioni nevralgico per tutta l’area del Mediterraneo.
I soggetti per una nuova stagione di lotte
Dentro questa diversificazione del sistema economico meridionale, con un blocco di potere determinato dall’alleanza tra ceto politico, apparati amministrativi e burocratici, ordini professionali, credito parassitario e poteri criminali, il Mezzogiorno non è in grado di contrapporre una stagione di lotte solo attraverso i movimenti esplosi in questa stagione.
Forte è la debolezza dei ceti sociali più disagiati e subalterni; debolezza determinata dal più elevato tasso di disoccupazione europeo, dal degrado urbano e dalla spoliazione del territorio, dalla invivibilità della città, dall’economia frastagliata e frantumata.
Siamo di fronte ad una profonda crisi del conflitto sociale meridionale che non ha eguali in questo secolo e che, nell’abbattimento dei diritti salariali e nella negazione dei servizi fondamentali dei cittadini ritrova ed esprime la forma più acuta e diffusa dell’attacco ai diritti minimi di chi vive solo del proprio lavoro.
Il sud è il luogo del caporalato diffuso, del lavoro nero e malpagato, della precarietà generalizzata e del rischio della vita per il tasso più elevato di incidenti sul lavoro. La parcellizzazione del sistema economico e sociale accentua, al di là del ribellismo meridionale conosciuto nella storia, la debolezza della iniziativa sociale e politica delle masse subalterne. Ciò è stato favorito nel tempo anche dall’azione negativa di istituzioni dello Stato preposte alla salvaguardia dei diritti del lavoratore, come gli ispettorati del lavoro, gli istituti previdenziali e assistenziali, grazie all’assenso-consenso delle organizzazioni sindacali, protese più alle mediazioni concertative a danno del lavo-ratore dipendente che non alla organizzazione di vertenze e di lotte per l’affermazione dei suoi diritti.
In questo sud della frammentazione e della parcellizzazione sociale, che vede fallire si-stematicamente i cosiddetti pacchetti di sviluppo come i contratti d’area, i patti territoriali, e tanti altri veri e propri palliativi della concertazione programmata inventati per nascondere gli effetti negativi della modernizzazione capitalistica dell’economia, è urgente ed indispensabile una piattaforma programmatica che abbia al centro della sua iniziativa la risorsa ambiente, la montagna e il mare, i beni culturali e le città, il turismo di qualità e l’agricoltura alternativa a quella geneticamente modifi-cata, un sistema industriale diffuso e complementare, infrastrutture di comunicazioni in grado di avvicinare il sud all’Europa e, contemporaneamente, farlo diventare ponte tra l’Europa e l’area del mediterraneo.
Ciò, tuttavia, potrebbe non servire ed apparire come mera enunciazione se il Partito me-ridionale non si convince che esiste una questione delle questioni su cui dispiegare tutta la nostra iniziativa: il diritto al salario del lavoratore meridionale.
Si scrivono saggi sulla stato della disoccupazione nel Mezzogiorno, i quali, a volte, non colgono la contraddizione di assenza di conflitto in una realtà di così elevata assenza di lavoro e di come mai nonostante l‘elevato tasso di disoccupazione ci siano consumi quotidiani estesi. Biso-gnerebbe scrivere tanti altri saggi sulle dinamiche cooptative che portano alla negazione dei diritti salariali dei lavoratori meridionali, dei tanti giovani che mai vedranno una vera busta paga e del loro silenzio apatico e fatalista. Si dovrebbe capire l’incidenza su questo silenzio del conflitto, soprattutto degli ammortizzatori sociali e della ruolo della mafia come agenzia di collocamento, dei contratti sul bracciantato agricolo e della neo imprenditoria meridionale che trasforma le fabbriche in luoghi di neoschiavismo e di negazione delle retribuzioni, dei contratti di formazione e lavoro e dei garzoni del commercio e dell’artigianato che vivono con mezzo milione di lire al mese. Necessario, dunque, uno sforzo comune per capire come mai una così estesa discriminazione sociale non susciti l’attenzione dei giovani e determini movimenti radicali di lotta, degni dell’antica tradizione meridionale.
Per invertire lo stato delle cose è necessaria una grande capacità di lettura della specificità meridionale; bisogna attuare l’inchiesta per ogni singola realtà che sia sociale e territoriale e da qui organizzare una vertenzialità che si ponga obiettivi concreti, non astratti, non ideologici.
C’è, perciò bisogno di un Partito dispiegato nel territorio, avanguardia nella ricezione del disagio sociale e promotore del conflitto; un Partito capace di avere lucidità nell’individuare le con-troparti vere, di non affrontare la disperazione del bisogno con culture massimaliste ed episodiche.
Un Partito forte nel dialogo con la società dei bisogni sapendo che la sua frammentarietà non può essere ricondotta ad un unicum strategico ed è ostacolo per l’iniziativa di lotta.
Il Mezzogiorno, dunque, ha bisogno di un Partito rinnovato che insediatosi nel territorio sia, da una parte, strumento di formazione e di guida alla lotta per le nuove generazioni e, dall’altra, persuasivo nel far ritornare alla lotta politica e sociale quel grande popolo di sinistra, oggi in crisi, che pur esiste, anche se isolato nell’astensionismo o parcellizzato, disperso nel magma infinito dell’associazionismo e volontariato, veri strumenti della cooptazione del conflitto sociale.