La NATO e il Movimento contro la guerra

Mai come in queste settimane l’ampio movimento contro la guerra deve trovare la capacità di leggere le connessioni tra passato e futuro, di avere cioè – come sostiene in un suo saggio lo scrittore Eduardo Galeano – “occhi anche sulla nuca”.
La mobilitazione contro la guerra preventiva degli Stati Uniti e la reazione di massa all’inizio dei bombardamenti contro l’Iraq, hanno rappresentato delle pagine di storia recente per alcuni versi esaltanti. Non è un mistero che da molti altri paesi, siano tanti a guardare e seguire con attenzione il “laboratorio” del movimento no global/no war italiano.
In queste settimane, viaggiando all’estero o incontrando compagni di altri paesi, si percepisce l’attenzione con cui si osservano la tenuta e la capacità di coinvolgimento sociale e politico del movimento contro la guerra in Italia.
I blocchi dei treni militari americani nel quadrante compreso tra le basi di Camp Darby e Camp Ederle, i sotterfugi e la militarizzazione dei porti a cui sono dovute ricorrere le autorità statunitensi ed italiane per poter imbarcare il materiale bellico, la riuscita dello sciopero generale d’emergenza di lavoratori e studenti del 20 marzo (il giorno seguente l’inizio dei bombardamenti), le centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato nelle grandi e piccole città e davanti le basi militari da Aviano a Sigonella, hanno visto esprimersi con forza ed in poche settimane il lavoro e l’elaborazione prodotta in Italia dal Forum Sociale Europeo di Firenze in poi.

Salvaguardare l’autonomia di questo movimento

Siamo in presenza di un movimento di massa, esteso, articolato e radicato nella società che, come abbiamo detto in un numero precedente, comincia ad essere qualcosa di più di un movimento e qualcosa di meno di un nuovo blocco sociale antagonista. I contributi che qua e là segnalano il problema di una rappresentanza politica per questo movimento, hanno cessato di essere un vezzo intellettuale o un tentativo di capitalizzazione politica, per manifestarsi come il problema principale che questo movimento prima o poi dovrà porsi.
Il problema è esploso, visibilmente e clamorosamente, con la doppia manifestazione di Roma che ha visto separati da un lato decine di migliaia di persone in piazza con il “Comitato Fermiamo la Guerra” e dall’altro una manifestazione fortemente voluta dalla leadership dell’Ulivo. Non vi è dubbio che l’Ulivo, così com’è, non continua a non ispirare fiducia nè persuade la parte più attiva del movimento contro la guerra.
Il problema sta diventando serio per i vertici ulivisti. Essi sono stati costretti ad assumere posizioni contro la guerra che non avrebbero mai voluto fare proprie (e su quelle prese, la riserva mentale e la ritrosia emergono ben oltre la superfice) ed anche a fare i conti con un movimento che vede al proprio interno pezzi importanti del sindacato confederale, praticamente tutti i sindacati di base, una parte considerevole dell’associazionismo, i partiti della sinistra (in tutto o in parte di essi).
La capacità di comunicazione sociale del movimento contro la guerra, l’entrata in campo della Chiesa Cattolica (che in Italia, diversamente che negli USA o in Gran Bretagna, mantiene indubbiamente un certo peso), hanno costretto sulla difensiva anche un governo servile agli interessi strategici americani come quello Berlusconi.
La radicalità di una posizione come quella che dice “No alla guerra, senza se e senza ma”, sta rivelando tutta la sua efficacia. In tal senso, la piattaforma minima di questo movimento manifesta – almeno fino ad ora – un livello di autonomia politica che getta nel panico sia l’Ulivo che le forze della destra di governo.
Non solo, la decisione di andare a manifestare davanti alle basi militari come Camp Darby, Camp Ederle, Aviano, Sigonella etc. ha messo al centro dell’iniziativa una opposizione concreta al sistema operativo della NATO che spiazza ogni residua ambiguità. A questo si è arrivati forse senza una riflessione portata in profondità ma, diversamente che in passato e non senza qualche ritrosia, la questione del ruolo aggressivo delle basi militari USA e NATO nel nostro paese ha cessato di essere consapevolezza di pochi per diventare convinzione di molti.
Certamente la situazione non è perfettamente nitida, tutta in bianco e nero. Non mancano soggetti che tengono il piede in più scarpe (vedi la CGIL che ha deciso di disertare lo sciopero generale del 2 aprile) o che talvolta cedono al feticcio della visibilità rispetto alla coerenza di contenuti e interlocuzioni. Inoltre, la riflessione sulla guerra, sulle sue cause e le sue conseguenze, appare ancora troppo “leggera”, pregna di una formidabile opposizione etica ma ancora carente nel maneggiare le categorie della storia, dell’economia e della geopolitica che collocano con maggiore concretezza la guerra dentro l’orizzonte della realtà in cui viviamo.
Ma sarebbe ingiusto oltrechè ipocrita non cogliere gli elementi avanzati dentro questo movimento che affianca al No alla guerra anche forti contenuti sociali (dal reddito per precari e disoccupati alla difesa dell’art.18 e al no alla privatizzazione dell’acqua).

Un dibattito, senza se, senza ma… e senza né né

Intervendo nell’assemblea nazionale dei social forum a Livorno – nei giorni successivi ai blocchi dei treni e dopo la manifestazione del 15 febbraio – abbiamo segnalato alcuni problemi con i quali, prima o poi, occorrerà fare i conti:
a) Questo movimento deve adeguarsi alla condizione – straordinaria rispetto al passato – di rappresentare o comunque coincidere con il senso comune della maggioranza della popolazione, la quale rimane contraria alla guerra. Realizzando alcune interviste tra la gente alle stazioni di Roma (quindi su un “target” potenzialmente ostile al blocco dei treni militari per i possibili effetti sul sistema dei trasporti) abbiamo potuto verificare come non solo la maggioranza si dichiarasse contraria alla guerra ma che, dentro di essa, la maggioranza non vedeva con ostilità il blocco dei treni militari. E’ un segnale di disponibilità al conflitto sociale inimmaginabile anche solo un anno fa, quando era ancora egemone la logica della “governance” a tutti i costi. Si tratta quindi di essere molto responsabili nella gestione delle iniziative di lotta ma anche confortati dal fatto che la coerenza tra aspirazione alla pace e azioni concrete di opposizione alla guerra ha oggi un suo spazio politico e sociale praticabile;
b) Conseguentemente a questa condizione straordinariamente positiva, non si deve sottovalutare la contraddizione tra aspettative e risultati. Dopo le ultime manifestazioni e con l’inizio della guerra vera e propria, comincia a serpeggiare quella sottile frustrazione che rischia di depotenziare il carattere di massa del movimento. I vergognosi risultati delle votazioni in Parlamento all’indomani di una manifestazione che – portando in piazza milioni di persone in Italia e nel mondo – pensava di poter “incidere” sugli equilibri politici, hanno svelato la distanza tra il potere costituito e la società, la formalità della democrazia occidentale e l’antidemocraticità di un sistema elettorale come quello maggioritario che blinda e affida pieni poteri all’esecutivo.
La disillusione è un fattore che non può essere sottovalutato, anche perché potrebbe aprire la strada ad una logica micidiale come quella che si augura “una guerra che, comunque vada, finisca presto” piuttosto che il riconoscimento e sostegno alla resistenza degli iracheni, i quali opponendosi all’invasione anglo-americana e animando la resistenza – insieme a quella palestinese – mantengono aperto lo spazio per una definizione degli assetti mediorientali non prona agli interessi strategici americani.
Da questo punto di vista, una posizione equidistante – il famoso nè nè – si rivela del tutto inadeguata e fuorviante.
Sarebbe infine sbagliato sottovalutare un altro fattore e cioè la convergenza oggettiva tra questo movimento e la crisi strategica che si è aperta tra gli interessi degli Stati Uniti – tesi a mantenere la propria egemonia mondiale – e le ambizioni del nucleo duro europeo (Francia, Germania ed ora anche la Russia) tese ad entrare in competizione con gli USA sul piano economico, finanziario, politico e tendenzialmente militare.
Questo aspetto non è affatto secondario sia perché ha contribuito notevolmente a creare quel “senso comune” contro la guerra che possiamo registrare ampiamente nelle nostre città, sia perché porrà, prima o poi, dei problemi di autonomia e tenuta di questo movimento assai più pesanti e complessi di quelli con cui fino ad oggi si è misurato. I rigurgiti nazionalisti che in parte alimentano l’antiamericanismo in Europa, se oggi possono essere “compagni di strada” contro la guerra, già domani possono entrare in conflitto con una visione internazionalista e di classe della realtà.
Un certo “antiamericanismo” sobillato qua e là da settori dell’establishment europeo è assai diverso per natura e analisi dall’antimperialismo internazionalista che sta nel DNA del movimento operaio. E’ un antiamericanismo funzionale alla definizione di una “identità europea” (espressa in negativo rispetto al modello americano imperante fino agli anni ’90) che le classi dominanti non hanno saputo darsi mentre costruivano, a colpi di misure antipopolari e antidemocratiche, l’Unione Europea del Trattato di Maastricht.

ONU, NATO, UE: la crisi delle istituzioni internazionali del dopoguerra

Non è irrilevante agire politicamente in un contesto internazionale profondamente mutato sia rispetto all’epoca del bipolarismo Est/Ovest sia rispetto agli anni Novanta dominati dal feticcio della globalizzazione neoliberista e del pensiero unico a guida statunitense. La storia sta correndo molto velocemente. In poche settimane sono entrate in crisi le istituzioni internazionali su cui si è retto l’intero ciclo del dopoguerra: l’ONU, la NATO, l’Unione Europea.

a) L’ONU estenuata. Le Nazioni Unite paiono destinate a seguire la sorte drammatica della Società delle Nazioni negli anni ’30. Il sistema dei cinque membri permanenti con diritto di veto, ha esaurito la sua funzione con la fine dell’equilibrio e del conflitto est/ovest. D’altro canto, proprio sul Medio Oriente e sui Balcani l’ONU ha rivelato la sua impraticabilità come possibile governo mondiale. Pesi e misure diverse nell’applicazione delle risoluzioni a secondo dei paesi tenuti e rispettarle (vedi il differente trattamento tra Israele, Iraq o Jugoslavia), subalternità agli Stati Uniti sulle scelte sostanziali e maggiore autonomia su quelle formali, eccesso di asimmetria tra le decisioni del Consiglio di Sicurezza e quelle dell’Assemblea Plenaria: l’elenco delle doglianze è diventato troppo lungo per consentire all’ONU di reggere alle proprie contraddizioni e al mutamento di fase storica. Così come la Società delle Nazioni non resse l’urto dell’escalation nazista negli anni ’30, l’ONU potrebbe non reggere l’urto che deriva dalle ambizioni del Progetto del Nuovo Secolo Americano elaborato dagli uomini e dagli interessi strategici che oggi rappresentano l’amministrazione Bush. L’ambizione ad un mondo multipolare con un governo mondiale minimo e democratizzato non può coincidere con una ONU ormai estenuata, depotenziata e screditata nel suo ruolo.

b) La crisi della NATO.”C’è stato un netto declino della spesa della difesa e i grandi investimenti americani non aumentano la coesione degli alleati, perchè l’Europa li sente legati ad interessi che non sono i suoi. Così questi investimenti finiscono per far crescere la paura di un mondo unipolare, mentre l’Europa lo preferirebbe multipolare”.1 Le parole di Henry Kissinger inquadrano piuttosto bene dove nasce la crisi della NATO.
A molti, troppi, é sfuggito quali siano state in Europa le conseguenze della guerra contro la Jugoslavia. La percezione di una guerra sulla porta di casa tesa a destabilizzare l’unità dell’Europa e la partenza dell’euro, e l’insostenibile gap militare tra le ambizioni europee e la supremazia bellica degli USA, avevano impresso una forte accelerazione nei progetti dell’establishment europeo. In pochi avevano intuito che il dibattito sulla difesa europea messosi in moto già dal vertice di Colonia nel giugno 1999, poneva in essere la tendenza allo “sganciamento” dell’Europa dall’ipoteca degli Stati Uniti rappresentata dalla NATO.
Le divergenze emerse clamorosamente al vertice NATO di Praga (novembre 2002) sul calendario della forza di reazione rapida europea rispetto a quella NATO (proposta strumentalmente da USA e Gran Bretagna), lo scontro sul sistema satellitare Galileo (apertamente altenativo al GPS americano), il processo di fusioni e concentrazioni di aziende che sta portando ad un complesso militare-industriale europeo capace di competere con quello americano, non sono atti di secondaria importanza né hanno conseguenze irrilevanti.2
La divaricazione di Praga si è riflettuta direttamente nelle riunioni NATO a Bruxelles dedicate alla linea da seguire nella guerra contro l’Iraq e qui la crisi è esplosa fragorosamente sia sulla scelta dell’intervento militare sia sulla formalità del sostegno da offrire alla Turchia. Tale divaricazione ha aperto crepe importanti nell’alleanza atlantica.
Un partner storico della NATO come la Turchia, ad esempio, ha dimostrato da un lato di voler “marcare” una sua autonomia dagli USA nel definire i propri interessi strategici locali verso l’enclave kurda nel nord dell’Iraq, dall’altro è evidente quanto abbia colto una opportunità offertagli dalle contraddizioni emergenti dentro la NATO stessa, contraddizioni che nella gestione del bacino Mediterraneo evidenzieranno ben presto una competizione a tutto campo tra Stati Uniti e UE.
La NATO ha cercato di sopravvivere al suo ruolo nella guerra fredda intervendo due volte in Jugoslavia (’95 e ’99) e allargandosi ai paesi dell’Est.
Il rinnovamento del Trattato Atlantico, siglato nell’aprile del 1999 a Washington, forse avrebbe retto se – contemporaneamente – non si fosse manifestata l’escalation verso l’esercito europeo da parte dei gruppi dominanti nella “Vecchia Europa” e non si fosse imposto negli Stati Uniti l’establishment che ha elaborato il “Progetto per un Nuovo Secolo Americano” (PNAC), un progetto che dichiara apertamente le ambizioni statunitensi all’egemonia mondiale. In una camera di compensazione come la NATO e con un primus inter pares pericoloso e arrogante come gli USA di Bush, difficilmente appaiono ricomponibili – come in passato – le divergenze strategiche ormai profonde come quelle tra il nascente polo imperialista europeo e quello statunitense3.
L’ESDI (Identità di Difesa Europea) è destinata a prendere corpo entro l’anno in corso. Il modello delle “cooperazioni rafforzate”, esplicitato dal documento franco-tedesco sulla difesa, lascia intendere che, come nel caso della moneta unica, chi ci sta ci sta, gli altri potranno aderire successivamente. In tale contesto, la NATO potrebbe cessare di essere quello strumento di interferenza statunitense sugli affari e la politica militare europea chiaramene descritto da Zbignew Brzezinski. La prima verifica di questo cambiamento dei rapporti dentro la NATO vedrà come teatro i paesi dell’Europa dell’Est in cui la convivenza tra fedeltà atlantica e adesione all’Unione Europea sarà sempre meno facile.

c) Le contraddizioni dentro l’Unione Europea. Anche la camera di compensazione messa in piedi a Bruxelles è ormai sottoposta ad una sollecitazione che attiene alla storia. Esaurita la funzione di “contenimento” politico-militare-sociale contro l’URSS svolta nell’epoca della guerra fredda, si sta sgretolando l’illusione – alimentata a destra e a sinistra – che un processo di unificazione sovranazionale come l’UE potesse avvenire senza contraddizioni e conflitti. Creare un mercato unico è un conto, dotarsi di una moneta unica, di una Costituzione politica e di un esercito comune è un altro. Quello in corso ed il prossimo anno, saranno decisivi per l’Unione Europea. L’Unione dovrà dotarsi entro il 2003 della Forza di Reazione Rapida decisa nel vertice di Helsinki (dicembre 1999) ed entro il 2004 di una Costituzione fondativa e vincolante per gli stati membri. Abbiamo già segnalato come il passaggio da regole stabilite da un trattato internazionale a quelle stabilite da una Costituzione comune, segnino un salto di qualità di enorme rilevanza. L’UE assumerà le caratteristiche di uno Stato vero e proprio, sperimentando una sovranazionalità centralizzata che segna un passaggio d’epoca. La stessa formazione degli Stati Uniti è avvenuta attraverso una secessione ed una riunificazione costata una guerra civile sanguinosa.
Del valore di questa posta in gioco sembra rendersi ben conto la Londra di Blair (che sta rischiando moltissimo sul piano strategico) mentre leadership di minor spessore come quelle di Berlusconi e Aznar, danno prova di una ignavia e di un servilismo verso gli USA che ne indebolisce enormemente le chances e la stabilità politica.4
La stabilità politica europea verrà messa a dura prova anche nei paesi dell’Europa dell’Est che aderiranno all’UE dopo che gli USA hanno preteso che aderissero alla NATO. Questa sovrapposizione ostinatamente imposta da Washington, ha ottenuto un frutto acerbo con lo schieramento di questi paesi al fianco degli USA nella crisi e nella guerra contro l’Iraq. E’ possibile che alcune leadership dell’Est abbiano valutato la possibilità di giocare sulla contraddizione tra il nucleo franco-tedesco e gli USA per ottenere condizioni meno draconiane nella loro marcia di adesione alla UE o che abbiano preferito seguire un padrone “lontano” come Washington piuttosto che un padrone “vicino” come Berlino/Parigi e il loro nuovo asse con Mosca. La continuità politica europea verrebbe così spezzata al suo centro da un’area di influenza americana. Ma anche a occhio nudo appare evidente l’azzardo politico-diplomatico giocato dalle leadership dell’Europa dell’Est.
La definizione del nocciolo duro europeo intorno a Francia e Germania crea una polarizzazione strategica di interessi dalla quale Italia, Spagna ed Europa dell’Est difficilmente potranno sottrarsi. E’ un processo che non avverrà automaticamente, subito ed in modo visibile, sarà un processo assai più conflittuale di quelli che siamo stati abituati a vedere. Il che potrebbe portare a spaccature, destabilizzazioni e ritorsioni dentro cui strumenti come il protezionismo, il terrorismo, la repressione ci costringeranno a” ginnastiche mentali” e capacità di iniziativa politica ben superiori a quelle al quale ci ha abituato il politicismo di casa nostra. Il primo test sulla maturità con cui affronteremo la nuova fase potrebbe venire proprio dalla gestione politica della probabile crisi del governo Berlusconi rivelatosi del tutto inadeguato (al contrario del governo Prodi) per una fase storica come quella in corso.

I fatti hanno la testa dura

Che la fase della concertazione trilaterale tra USA, Europa e Giappone (su cui si è retto il conflitto globale contro l’URSS nell’epoca della guerra fredda) si fosse andata esaurendo aprendo la fase della competizione globale tra i vari poli strategici dell’imperialismo odierno, è stato uno dei temi che anche sulle pagine di questo giornale ha suscitato più di una discussione. Una discussione ancora più aspra è avvenuta sulle tesi congressuali del PRC che hanno completamente ignorato questo passaggio di fase storica e soprattutto le sue cause e le sue conseguenze. Tesi come quelle sull’Impero o sulla fine degli stati nazionali dovranno avere il buonsenso di rimettersi in discussione. I fatti hanno dimostrato di avere la testa dura ed oggi sono diventati drammaticamente evidenti agli occhi di tutti. Si tratta dunque di coglierne le tendenze e di cominciare ad articolare una strategia ed una tattica adeguati, che faccia salva l’autonomia dei comunisti nella loro capacità di intervento e di orientamento delle iniziative dentro i movimenti di massa, il sindacato e la “politica”. Non rimanere schiacciati da un passaggio d’epoca non sarà facilissimo se ci limiteremo a discutere di tattiche elettorali e non dimostremo la capacità di guardare alle tendenze in corso avendo cura di “avere occhi anche sulla nuca” per trarre lezioni dalla storia. In tale senso diventa necessario mettere insieme un “intellettuale collettivo”, una sorta di forum permamente capace di elaborazione politica e strategica e di iniziativa politico/culturale di massa.

Note

1 Henry Kissinger Nuova NATO. Il difficile equilibrio tra USA ed Europa tradotto e pubblicato su La Stampa del 1 dicembre 2002

2 USA e Gran Bretagna, hanno lavorato apertamente per impedire l’ingresso della Finmeccanica italiana nel gruppo franco-tedesco EADS. In Europa si sarebbe così creato il secondo gruppo industriale mondiale per gli armamenti.”Un rafforzamento ed una integrazione del mercato europeo degli armamenti darebbe loro anche le risorse necessarie per reggere la sfida transatlantica” sostiene Stefano Silvestri, direttore dell’Istituto Affari Internazionali (Il Sole 24 Ore 16 gennaio 2001)

3 Indicativo della visione della destra americana sul ruolo della NATO, è il forum ospitato da Limes sul secondo numero del 2002, in cui gli esperti dell’Heritage Foundation – uno dei think thank più reazionari ma oggi egemoni negli USA – propongono una revisione della NATO che pone l’Europa in condizioni estremamente subalterne agli USA. In mancanza di queste condizioni, secondo John C.Hulsman, la NATO non servirebbe più agli interessi americani

4 Il servilismo filo USA del governo Berlusconi si sta rivelando uno degli elementi della sua crisi di credibilità e stabilità. Ma tale servilismo – confermato anche dall’espulsione dei dipendenti dell’ambasciata irachena in Italia chiesto dagli USA – getta nuovamente una luce inquietante anche sulla “cabina di regia” della sanguinosa repressione delle manifestazioni durante il vertice del G8 a Genova nel luglio 2001, si era infatti parlato di una “regia transatlantica” delle operazioni repressive, così come è difficile non pensare ad una eterodirezione nella ripresa dell’attivismo aggressivo e squadristico dei gruppi fascisti in Italia contro le manifestazioni ed il movimento.