“La mia generazione ha perso”

Non è facile trovare parole consolatorie nell’ultimo album di Giorgio Gaber, impietoso fin dal titolo: “La mia generazione ha perso”. Dopo tanto tempo il cantautore milanese torna in sala di registrazione e lo fa per marcare la sua distanza dalla zuccherosa combriccola di cantautori cresciuti nel perbenismo ulivista che da qualche anno caratterizza gran parte della scena musicale italiana. Come sempre, rifugge dalle etichette e dai facili effetti per affermare un’individualità contraddittoria e problematica che ha, però, il pregio di non sfuggire i problemi. Un comunista? No. Proba bilmente non lo è mai stato e lui stesso non amerebbe essere definito così, ma i comunisti gli mancano, gli manca la capacità dei comunisti di essere “una forza, un volo, un sogno… uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”. E il succo del disco è che la sua generazione ha perso perché non è stata capace di tenere in vita la speranza. Non gli piace la globalizzazione e nemmeno l’idea del compromesso a tutti i costi. Non dà indicazione politiche, anzi non vuole neanche dare l’impressione di essere un “cantautore politico”, ma forse è meglio così. Nel libretto che fa da copertina all’album chiama vari testimoni a dare un senso alle parole delle sue canzoni. Per “Qualcuno era comunista”, il testimonial scelto è il segretario del Partito della Rifondazione Comu nista Fausto Bertinotti.
Il commento, poche righe, fa da “cappello politico” a un brano che costituisce un’emozionante riflessione sulla perdita d’egemonia da parte di una cultura che ha innervato la storia stessa del nostro paese. I comunisti? Un’anomalia di cui si sente una mancanza lacerante. Un’anomalia come lo stesso Gaber. In pochi possono vantare la sua “longevità” artistica (più di quarant’anni di attività) e nessuno ha attraversato come lui gli umori e le mode dell’Italia dal dopoguerra a oggi.
Tra i primi interpreti, alla fine degli anni Cinquanta, del nascente rock’n roll italiano è stato a lungo dominatore delle classifiche di vendita con canzoni d’intrattenimento popolare non prive di genialità. Personaggio televisivo di successo e cantante affermato all’inizio degli anni Settanta, all’apice della popolarità chiude ogni rapporto con la televisione e inizia a percorre l’Italia in lungo e in largo alla ricerca del contatto diretto con il pubblico. I suoi spettacoli di teatro-canzone, scritti insieme al fedele Sandro Luperini, diventano uno dei più rilevanti fenomeni della cultura italiana degli ultimi trent’anni.

Le dodici canzoni dell’album

Si può
Il tema è quello a lui caro della “libertà obbligatoria”. Siamo davvero liberi? Apparentemente sì, purché questa libertà non metta in discussione la “dittatura del mercato”, il sistema dominante. Siamo liberi di avere desideri inconsistenti e aspirazioni fasulle, ma “…con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?”

Verso il terzo millennio
L’analisi impietosa e desolata della condizione del pianeta rischia di provocare un’indignazione senza sbocchi che finisce per tradursi in grido impotente. Una soluzione c’è. È quella di non arrendersi e di guardare le cose per quello che sono. Solo così si può sperare di cambiarle perché, in fondo, “… non è mai finita…”

Il conformista
“Il conformista s’allena a scivolare dentro il mare della maggioranza…” era “marxista-leninista e dopo un po’…” s’è ritrovato “cattocomunista”. Opportunista e pronto ad adeguarsi a ogni mutar di vento, il conformista di oggi è sostanzialmente un qualunquista che mescola furbizia e capacità d’adattamento.
Quando sarò capace d’amare
Una canzone d’amore “adulta”: così definisce Ivano Fossati questo brano. Dolcissimo e con un testo inusuale, affronta il problema dell’amore fuori dai facili schemi cui ci ha abituato tanta parte della canzone italiana.

La razza in estinzione
È il brano più contraddittorio di tutto il disco, ma è anche quello da cui è presa la frase che dà il titolo all’album. Pessimista, ma non troppo, racconta come la sua generazione abbia “visto migliaia di ragazzi pronti a tutto che stavano cercando magari con un po’ di presunzione di cambiare il mondo. Possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso. La mia generazione ha perso”.

Canzone dell’appartenenza
La società è riuscita grazie alla tecnologia a fornirci strumenti rapidi e veloci di conoscenza, di informazione e di comunicazione, ma l’umanità si sente sempre più isolata e sola. Ci manca l’idea di una comunità. Per questo, mentre sembra che tutto ci appartenga noi ci rendiamo conto di non appartenere a nulla.

Il potere dei più buoni
È una feroce canzone contro il buonismo imperante, quello che sfuma i contorni dei contrasti e pretende di annegare nella melassa dei buoni sentimenti anche il conflitto di classe. “È il potere dei più buoni, costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni, è il potere dei più buoni che un domani può venir buono per le elezioni”.

Un uomo e una donna
Un’altra canzone d’amore fuori dagli schemi affronta le difficoltà a costruire il rapporto fra due persone che vogliono impegnarsi in un progetto comune profondo e duraturo.

Destra e sinistra
Scanbiata per una sorta di inno qualunquista, la canzone è un’ironica e pungente analisi di quanto, in assenza di ideali e forse anche di idee, le differenze tra destra e sinistra rischiano di sfumare in una sorta di gioco senza senso. Non vale prendersela con altri che con chi ha contribuito ad arrivare a questa situazione: “Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra…”

Il desiderio
La sociologia, la psicologia, le terapie analitiche, addirittura la religione, sono da sempre costantemente impegnate a comprendere, ad elaborare teorie e a dare risposte sulla natura e sulle difficoltà dei rapporti umani. Per Gaber il mistero della forza vitale ha un solo nome: desiderio.

L’obeso
L’obeso della canzone è una sorta di rappresentazione simbolica di “un futuro che è sempre più presente. Mangia tutto, mangia il mondo come noi senza vomitarlo mai…”

Qualcuno era comunista
Nel sentirsi comunista ognuno ha tentato a modo suo di crearsi non solo un’identità, ma anche un’appartenenza capace di ridare un senso collettivo alla vita di milioni di persone. Nello stesso tempo l’identità comunista ha rappresentato un modo di essere “contro” per cambiare veramente la vita. Ora tutto questo non c’è più?

Qualcuno era comunista
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no.
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre.
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica.
Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche… lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era comunista perché prima… prima … prima… era fascista.
Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio.
Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento dì stipendio.
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe…
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai TRE.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin.
Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa.
Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi, solo in Uganda.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi.
Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.

Il commento di Fausto Bertinotti
riportato sulla copertina dell’album

Ci deve essere una ragione se, passati dieci anni da quel dannato scioglimento del PCI, la sua mancanza, il vuoto di quello che Pier Paolo Pasolini chiamò un paese nel paese, ci viene rappresentato in una ballata piuttosto che in un libro di storia o in una storia politica.
Forse, l’arte, l’immaginazione possono vestire il lutto, quando ancora esso non è elaborato, più della dottrina. 0, forse, una nostalgia struggente prende una forma poetica perché solo così può rinviare di nuovo ad un sogno che (ancora) non ha preso il corpo di una storia futura.
Qualcuno era comunista e adesso rivive nella voce di Gaber, nella musica, in tutti quei perché e in quei malgrado.
Sono storie di donne e di uomini veri, di una vita, di un frammento, di una grande politica, di un tic. Compongono la storia di un popolo. C’è un popolo quando ci sono le Tavole; c’è un popolo quando si passa tra le acque che si separano, verso la terra promessa. E quando c’è un popolo, dentro ci sono insieme miserie e nobiltà (d’animo). Quante volte abbiamo ascoltato le ultime strofe della canzone e provato un’emozione, come ascoltando l’autobiografia di una generazione.. Lo dobbiamo ad un artista di talento, un artista che amiamo, che ci ha spesso costretti al rasoio della cultura critica e dell’ironia. Qui, come in una sospensione, c’è un abbandono, tanto grande è il rimpianto e l’amputazione di noi.
E ora?
Ora è il tempo della pena. Ma, domani, quelli ritorneranno.
Fausto Bertinotti