La metamorfosi della NATO

La micidiale “guerra umanitaria” del 1999 contro Belgrado – l’ossimoro, ancorché troppe volte reiterato, ci restituisce in qualche misura quel grumo di follia che tra tante e ben più corpose altre ragioni sta tuttavia di sicuro alla base delle nuove strategie belliche del XXI secolo – fu condotta direttamente dalla Nato, senza autorizzazione delle Nazioni Unite e in un contesto internazionale in cui si andava ormai configurando un vero e proprio passaggio storico-politico per i destini dell’Alleanza atlantica. Non a caso in un summit dei Capi di Stato e di governo della Nato, svoltosi a Washington nell’ultima settimana di aprile di quell’anno, in piena attività bellica contro la Serbia, veniva messo definitivamente a fuoco e formalizzato, come orientamento condiviso dai Paesi membri, il Nuovo Concetto Strategico della Nato. La Nato, in quell’occasione, assunse definitivamente – come spiegano gli analisti di cose militari – i connotati e la funzione di polizia planetaria, preposta a tenere sotto controllo tutto ciò che in qualche misura avrebbe potuto da allora in poi mettere in scacco o attentare alla sicurezza dei Paesi alleati: dalle trasmigrazioni “fuori controllo” di gruppi umani alle azioni terroristiche, dalla messa in discussione per l’Occidente dell’accesso alle risorse energetiche – punto nodale – alle guerre a varia intensità che insanguinano intere regioni del mondo. C’è anche da ricordare che l’articolo 62 del nuovo “Principio strategico” sottolinea la necessità della “pianificazione nucleare collettiva”, lo “stanziamento di forze nucleari in tempo di pace” e “accordi di consultazione”, sulla scia di quelli che hanno caratterizzato il dibattito nucleare in seno alla Nato negli ultimi 50 anni. “L’Alleanza – si legge nel documento – conserverà forze nucleari adeguate in Europa. Queste forze devono avere le caratteristiche necessarie di flessibilità e capacità di sopravvivenza appropriate, per essere percepite come un elemento credibile ed efficace della strategica atlantica di prevenzione dei conflitti”. Così è spiegato, senza troppi giri di parole, nel documento approvato dal summit di Washington. L’arsenale di armi nucleari americane installato in Europa, sotto la copertura della Nato, è costituito da circa 180 bombe, situate in sette paesi diversi, tra cui l’Italia. Se il summit di Washington ha delineato un ruolo di gendarmeria planetaria per la Nato, va detto anche che tale ruolo, al di là delle nefaste finalità che si propone, assomiglia molto a quello di un’agenzia poliziesca di tipo privato, oppure a quella di uno Stato di polizia. Non soltanto infatti la Nato mantiene la dimensione super-militarizzata della sua tradizione ed è attrezzata, quando ce ne sia bisogno, ad azioni di vera e propria guerra (Serbia docet), ma soprattutto non è affatto chiara la fonte di legittimazione giuridica del suo nuovo ruolo di gendarme del mondo. Nessuna istituzione democratica internazionale riconosciuta ha discusso del cambiamento, e neppure nessun parlamento dei Paesi membri (in Italia un timidissimo tentativo di discussione in Senato fu rapidamente accantonato) ha avuto modo di dire la sua. Più esattamente, quindi, dobbiamo dire che ci troviamo di fronte all’idea – e alla pratica – di una polizia privata, in un meccanismo che lega l’Alleanza agli ordini dei governi alleati, ai loro accordi, ai loro dissidi, al di fuori di qualsiasi controllo delle istituzioni democratiche nazionali e internazionali. Ma soprattutto, e con sempre maggiore evidenza, la Nato risulta inserita – e la Casa Bianca lavora attivamente per inserirla sempre meglio – in quella strategia a geometria variabile su cui oggi gli Stati Uniti si stanno accanitamente esercitando per imporre al mondo il Nuovo Ordine Mondiale. Missioni militari targate Nato presidiano oggi la regione balcanica. Vengono chiamate missioni di peace keeping o di peace enforcing, a seconda del livello di forza militare che i contingenti Nato sono legittimati a esercitare per “costruire” o “imporre” la pace nelle zone di loro assegnazione. Con la pace però queste missioni poco o nulla hanno a che vedere. Si tratta infatti di inedite forme di protettorato, controllo di territori ritenuti strategici, quando non di vere e proprie azioni tese ad assicurare una presenza neo-coloniale da parte dell’Occidente e in specifico degli Usa. La Nato è arrivata anche in Afghanistan al seguito di Enduring Freedom (così è stata chiamata la guerra a direzione multinazionale organizzata nell’autunno del 2001 per abbattere il regime dei Taleban, complice secondo la Casa Bianca della rete terroristica di Al Qaeda e quindi, per automatismo non dimostrato, dell’abbattimento delle Twin Towers –, e sempre in Afghanistan la Nato è arrivata a supporto e direzione della missione di peace keeping denominata Isaf (International Security Assistance Force) nata per imporre l’ordine a Kabul dopo i bombardamenti alleati e permettere al governo filo-americano di Hamid Karzai di avviare una parvenza di impossibile normalizzazione in quel martoriato paese. E sull’arrivo della Nato a Bagdad entro l’estate del 2004, puntano gli Stati uniti per uscire dal pantano iracheno, per coinvolgere i riottosi franco-tedeschi a lavorare per garantire lo stato di fatto, mantenendo saldamente in mano il controllo del paese. La Nato insomma si presenta oggi sulla scena del mondo globalizzato in forme, con funzioni e con una capacità di proiezione strategica assai diverse da quelle che l’avevano caratterizzata all’origine e che ne hanno accompagnato per un lungo tratto l’evoluzione. Nello stesso tempo, però, la Nato è ancora largamente in fase di trasformazione e assestamento, essendo uno strumento essenziale ma non unico – come la guerra contro l’Iraq ha ampiamente dimostrato – di quella strategia fondata sull’unilateralismo bellico in forma preventiva che gli Stati Uniti del nuovo corso vorrebbero maneggiare liberamente per costruire il loro impero e su cui teorizzano a non finire le teste d’uovo del Pentagono. Un impero fondato non sull’occupazione massiccia ma sul controllo pervasivo del territorio, delle risorse, del business, dei punti nevralgici, come per esempio è la regione centro-asiatica, dove non a caso, nelle ex repubbliche sovietiche, gli Stati Uniti hanno piazzato nuove basi militari, che costituiscono il risultato più apprezzabile, dal loro punto di vista, della guerra contro l’Afghanistan.
L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord nacque in un’epoca storica assai diversa dall’attuale, in seguito al Patto di Washington del 4 aprile 1949 e all’interno di una logica e una visione del mondo preventivamente ostili al blocco sovietico. Vale infatti la pena di ricordare ancora oggi che il Patto di Varsavia, cioè l’alleanza militare tra l’Unione sovietica e i paesi che gli accordi di Yalta avevano assegnato all’influenza di Mosca, venne definito successivamente all’Alleanza atlantica, e anche come risposta alla medesima.
Strumento principe di quella lunga ed estenuante guerra fredda che così in profondità ha segnato la vicenda storico-politica della seconda metà del Novecento, la Nato fu concepita come un’unione di Stati amici, con un carattere istituzionale – il Trattato del 1949 venne assunto dai Parlamenti – e con lo scopo di accrescere la capacità individuale e collettiva di resistenza delle parti contraenti nei confronti di un eventuale attacco armato da parte dell’Urss. Fu quindi – stando alla lettera del Trattato – un’alleanza a carattere difensivo, con un circoscritto impianto operativo e concepita nell’ambito delle prerogative e dei vincoli delle Nazioni Unite. Basti pensare all’articolo 5 del Trattato. Esso è il più importante, in quanto stabilisce che in caso di un attacco armato contro uno o più paesi dell’alleanza, sia legittimo il ricorso all’uso della forza militare. Tale ricorso, ancorché di stretta ispirazione militare, venne nondimeno concepito con riferimento a quel ruolo di soggetto supra partes che doveva – o avrebbe dovuto – costituire, e in certa misura costituì, la base fondativa dello Statuto delle Nazioni Unite – quindi quello Statuto costituiva anche per la Nato la fonte giuridica legittimante l’azione armata –, e si affermava che qualsiasi misura di legittima difesa venisse presa, non solo doveva essere immediatamente segnalata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma doveva anche essere sospesa non appena lo stesso Consiglio avesse adottato “le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”.
Nel corso della prima lunga fase di vita della Nato, l’evoluzione più significativa fu compiuta dagli Stati Uniti: restii in un primo tempo ad assumersi l’onere di membro maggiore dell’Alleanza, dopo che assai rapidamente ne ebbero ottenuto il controllo militare e strategico assumendosene i costi maggiori arrivarono alla fine a una sorta di ambigua confusione fra organizzazione atlantica e braccio armato della diplomazia americana, dimostrandosi via via sempre più insofferenti dei limiti di validità geografica dell’Alleanza e dei riferimenti alle Nazioni Unite. Insofferenza che, come è noto, è giunta al livello di un attacco frontale senza precedenti in occasione della guerra contro l’Iraq.
Con il 1991 e il crollo della superpotenza sovietica, gli Stati Uniti d’America rimasero l’unica potenza egemone, incontestata su tutti i piani, soprattutto su quello militare. Sparita l’Urss e dissoltosi lo schieramento del Patto di Varsavia, la Nato perdeva le ragioni storiche che ne avevano giustificato, nella propaganda occidentale, la legittimità. Ma anziché decadere, come da alcune parti ci si aspettava, la Nato fu guidata dai paesi membri in un complesso percorso di metamorfosi, segnato da tappe politico-militari, appuntamenti strategici, elaborazioni di teoria militare. Si spiega facilmente una tale scelta dal punto di vista della superpotenza rimasta, gli Stati Uniti, che, dopo essere divenuti nel corso dei decenni i sostenitori principali della Nato, si venivano a trovare ora nelle mani un vero e proprio braccio armato, dall’immagine e dalla configurazione politicamente accettabile sia all’esterno – cioè presso i paesi dell’alleanza – sia all’interno della nazione americana. Ma anche i paesi europei non erano disponibili a rinunciare a uno strumento di difesa collettiva tanto più rassicurante in quanto faceva superare a ciascuno di essi i problemi di un sistema di difesa singolo, nazionale, dopo essersi posti per più di quarant’anni al riparo dell’ombrello Nato. L’attuale dibattito sulla difesa europea, così invischiato nella trappola totalizzante della dimensione militare e nelle problematiche dell’esercito europeo, emblematicamente dimostra quanto la presenza della Nato sia ancora determinante per le scelte politiche e le strategie militari dell’intero Occidente, con Francia e Germania alla ricerca di una qualche forma di autonomia europea su questo terreno, e gli Usa impegnati a condizionare le scelte dell’Unione nel senso di una complementarietà alla Nato della difesa europea. Il che vuol dire di una più diretta subordinazione dell’Europa all’alleato americano.
Della metamorfosi dell’alleanza fa parte anche il versante dell’allargamento ai paesi dell’ex blocco sovietico, che si è sviluppato nel corso degli anni Novanta del secolo scorso e ha avuto come ultimo – ma non ancora definitivo sbocco – il vertice di Praga. Anche l’aspetto dell’allargamento a est fa parte di un percorso lungo e complesso, che è andato di pari passo che i processi di formazione delle nuove statualità fuoriuscite dalla deflagrazione del Patto di Varsavia. Il vertice di Madrid del 1997 avviò l’apertura dell’Alleanza atlantica ai paesi di quell’area. Dopo l’adesione di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, avvenuta nel 1999, il vertice di Praga, nel novembre del 2002, ha accolta nei suoi ranghi Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, in un’estensione senza precedenti. In questo nuovo contesto la Nato è destinata a svolgere sempre più un ruolo di ingranaggio importante quanto si vuole ma all’interno di una strategia dominata direttamente e attivamente dal ruolo politico-militare e dalla forza dell’apparato di guerra dell’alleato maggiore, vero e proprio domino mondiale delle nuove guerre. Il quale non perde occasione per rimbrottare, strattonare, mettere in riga gli alleati europei quando qualcuno dia segno di dissenso, come è avvenuto in tutta la vicenda irakena, ma anche in altre decisive occasioni. Le insufficienze politico-militari e strategiche degli alleati, ha sentenziato mesi fa il generale Naumann, a capo del Comitato militare della Nato tra il 1966 e il 1999, si sono evidenziate durante le operazioni dirette dagli Stati Uniti in Afghanistan “rendendo evidente il problema di un radicale ripensamento del ruolo della funzione, dello stesso futuro dell’Alleanza atlantica”. Il che, detto in altro modo, significa appunto un completo adeguamento dell’Europa alla leadership politico-militare della Casa Bianca. Il problema del futuro della Nato, degli aggiustamenti e dei bilanciamenti che l’Alleanza conoscerà, si gioca oggi essenzialmente su questo terreno, che è poi lo stesso della difesa europea. Lo spazio di autonomia europea, d’altra parte, se si rimane nel gioco delle più o meno grandi potenze regionali o della competizione militare dell’Europa con gli Stati Uniti invocando la formazione dell’esercito europeo, è destinato a essere stretto come la cruna di un ago.