*Università di Urbino
E’ così adesso sappiamo che la rivoluzione d’Ottobre è stata la conseguenza nefasta della depressione di Lenin e del suo patologico maschilismo. Non lo leggiamo su “Oggi” o su “Panorama”, non lo veniamo a sapere dalla “Storia illustrata” o da qualche rivista semiclandestina dell’estrema destra ma a dircelo è direttamente “Liberazione”, il giornale di Rifondazione Comunista, a firma di Franco Berardi Bifo, uno dei capi dell’autonomia bolognese negli anni Settanta e successivo cultore delle teorie del General Intellect. Certamente non mancano i riconoscimenti alla figura del rivoluzionario russo, che, per quanto praticamente folle, è riuscito nell’impresa sovrumana di «modella[re] la storia politica del Novecento (non solo la storia del movimento operaio ma della forma-Stato in generale)». E però quel che colpisce è la precisione scientista e l’impietosità della diagnosi. La sua «visione della politica » ha «interpretato una corrente profonda dello psichismo maschile e moderno». Frustrato dallo scontro con la «potenza infinta del Capitale», Lenin – «come uomo e come maschio» ne finisce «frastornato», fino a maturare una grave forma di depressione. Tutte le scelte politiche più importanti della sua vita sono motivate dalle «crisi depressive» che incidono su un «fragile equilibrio psichico». Inutilmente gli studiosi di sinistra di mezzo mondo si sono scervellati, sino a scrivere intere biblioteche, per interpretare il Che fare?, o le Tesi di aprile, evidenziando la loro portata innovatrice sul piano teorico e politico. Perché dietro queste scelte, che alcuni autori leggono come vere e proprie rotture epistemologiche – pensiamo al Gramsci della Rivoluzione contro Il Capitale, pensiamo ad Althusser -, si nascondono soltanto delle crisi psichiche che precipitano in una tendenza ipersoggettivistica e volontaristica. Lenin parla della priorità della teoria sulla pratica, o della necessità di svolgere un’analisi concreta della situazione concreta? Contenuto manifesto di un testo latente! Perché in realtà, per Bifo, Lenin matura la «decisione di imporre la volontà sull’intelligenza », visto che «l’intelligenza è depressiva e la volontà è la sola cura che permetta di ignorare l’abisso». Il «volontarismo soggettivista rivoluzionario », che si impone sull’«autonomia sociale», non è che la traduzione politica dell’«ossessione volontaristica del maschio di fronte alla depressione ». Ecco allora che Lenin diventa paradigmatico di una carenza di fondo: quella «incapacità maschile di accettare la depressione» che, a guardar bene, cela una situazione di sostanziale «impotenza». Un’impotenza che si rovescia a sua volta in un’«idea paranoica di purezza». Questa – e non la necessità di affrontare il conflitto politico sociale con strumenti comparabili a quelli dell’avversario di classe – è la ragione che motiva l’idea del partito bolscevico come «nucleo d’acciaio» capace di «”rompere” l’anello debole della catena ». Questa la ragione per cui «l’impurità della classe operaia» va purificata attraverso l’imposizione di un «disegno esterno» ad opera di un «partito che sia portatore del Verbo » . Se invece Lenin avesse optato per il “principio di piacere”, se avesse scelto di andar via con Inessa Armand, sfuggendo alle grinfie della moglie-kapò, ne avremmo avuto tutti maggiore giovamento. Gli sarebbe stata più agevole «una elaborazione “morbida” della depressione» e avrebbe accettato «la propria finitezza » e «impotenza» e avrebbe così compreso la necessità di «confrontarsi col capitalismo» invece di cercare di «cambiarlo demiurgicamente » attraverso la rivoluzione. Questo è in sintesi il senso dell’articolo propostoci da Liberazione. Bifo infatti conclude: «Dal punto di vista della storia del movimento operaio novecentesco, dal punto di vista dell’autonomia strategica della società dal capitale, sono convinto che il Ventesimo secolo sarebbe stato un secolo migliore se Lenin non fosse esistito ». Se, in altre parole, non ci fosse stato l’Ottobre. Rina Gagliardi – altro noto storico di professione che Liberazione ha scelto di affiancare a Bifo come una sorta di controcanto ortodosso a fronte di cotanta “provocazione” – si perde in giri di parole per parlare di «sconfitte» e «tragedie » del comunismo novecentesco. Alla fine, però, evocando come al solito Walter Benjamin (che pure quanto a soggettivismo e a depressione non scherzava) e la «storia controfattuale» tanto cara a Bertinotti, sostanzialmente concorda. Dietro questa lettura proposta oggi da Bifo c’è ovviamente un complesso retroterra culturale che negli anni ha sedimentato una visione del mondo e una concezione del rapporto tra politica e società. C’è Foucault, c’è Reich, c’è l’Anti-edipo di Deleuze- Guattari, c’è il femminismo differenzialista e tutto quel «nietzscheanesimo postmodernista di sinistra», per usare le parole dello studioso tedesco Jan Rehmann, che ha accompagnato la mutazione genetica di una cultura di sinistra che in Italia ha sempre avuto qualche problema con la razionalità e il materialismo storico. E c’è poi la storia complicata dell’operaismo e il suo sfociare nell’idea mitologica dell’autonomia – e persino della separatezza – del sociale rispetto alla sfera politica (pensiamo a Marco Revelli), più vicina all’anarchismo e al liberalismo che al comunismo. Scavando più a fondo dietro le sue parole, però, non è difficile leggere anche un’altra dimensione, ben più inquietante – «unheimlich», direbbe Bifo – e pericolosa. Si nasconde cioè una lettura dei processi storici in chiave psico-patologica, e persino tendenzialmente biologista, che ha una lunga e poco entusiasmante tradizione. Una lettura che non è affatto di sinistra ma che è al contrario caratteristica della critica da destra della rivoluzione e, più in generale, dei movimento sociali. Già Edmund Burke interpretava la Rivoluzione francese come una sorta di complotto contro la civiltà europea e il Cristianesimo ad opera di un pugno di giacobini «fanatici» il cui «zelo maligno » è al limite del delirio. Altrettanto forte era la denuncia da parte di Taine delle componenti psicopatologiche e sostanzialmente narcisistico- depressive che motiverebbero le riflessioni di Rousseau e che tanta parte hanno avuto nell’Illuminismo francese prerivoluzionario e tanta influenza hanno esercitato su un altro famoso invasato, Robespierre. Il tema della sobillazione delle masse da parte degli intellettuali, che inoculano in esse la «malattia rivoluzionaria », si incrocia poi nel corso del XIX secolo con quello di un «virus» (Tocqueville) che assumerà spesso le sembianze dell’ebraismo, o del giudeo- bolscevismo o ancora, oggi, dell’islamismo. E’ una lettura che alla vigilia del Novecento trionfa in Nietzsche, che vede in Socrate – modello e prototipo di ogni rivoluzionario successivo, con la sua pretesa di «correggere l’esistenza» – una «forza demonica» segnata da un «progressivo intristimento delle forze fisiche e spirituali». E che viene riproposto più di recente da Mises, Hayek o Popper, che denunciano l’«invidia» dei malriusciti, i quali «per consolarsi e recuperare autostima» di fronte ai propri fallimenti individuano un capro espiatorio nel capitalismo e nelle classi ricche, meritevoli e felici. Al fondo, c’è chiaramente la critica della ragione «astratta», la cui hybris – la pretesa di conoscere la realtà nei suoi fondamenti (Heidegger) e, su questa base, di progettarne la trasformazione in maniera organizzata e collettiva – rappresenta la somma ingiuria nei confronti dei processi “naturali” o “divini” della storia ed è il germe di tutti i tentativi totalitari di operare violenza sul mondo. Si tratta di una feroce critica della rivoluzione che ha trovato una sistematizzazione politica in quella teoria del totalitarismo nata alla fine della Seconda guerra mondiale con la Dottrina Truman e ha avuto legittimazione accademica con il revisionismo storico oggi imperante. Al di là del suo preteso ribellismo, rispetto a questa linea Bifo è sempre stato coerente: anticomunista negli anni Settanta, anticomunista oggi. Il problema allora non è Bifo, le cui posizioni non fanno notizia. Il problema è Liberazione, organo di Rifondazione Comunista. Cosa vuol dirci questo giornale nel momento in cui ci propone un’analisi del genere? Quale linea culturale e, dunque, quale progetto politico ha in mente il gruppo dirigente del partito – al quale il giornale risponde come la vecchia “Pravda” a Breznev – quando approva questi articoli mentre censura occhiutamente tutto ciò che sia anche lontanamente fuori linea? Nel dopoguerra, queste stravaganti riletture della storia in chiave psicopatologica hanno trovato terreno fertile di diffusione nelle riviste popolari e da qualche anno costituiscono il principale format dell’uso televisivo della storia. La Weltgeschichte ne esce fuori come una vera e propria storia di mostri, un grand guignol i cui protagonisti assumono il profilo di pazzi criminali. E’ evidentemente un discorso pseudoscientifico che non spiega nulla e le cui ricadute conoscitive sono pari a zero. Le ricadute politiche di queste suggestioni dilettantesche, invece, non mancano. Anche l’amministrazione Bush, infatti, se ne è servita e continua a servirsene: basta ricordare come veniva dipinto Milosevic o leggere le analisi di Daniel Pipes sul mondo islamico. Con tutto quello che sta accadendo in Italia, alcune settimane fa (31/10/2007) “Liberazione” sentiva il dovere di proporre un reportage dal Berlino Porn Film Festival dal titolo emblematico: Il porno come terreno di conflitto? Provare per credere. Bisogna riflettere su tutto ciò, per capire cosa stiamo diventando. Nonostante il finanziamento pubblico e il costante dissanguamento del partito, Liberazione è un piccolo giornale con pochi lettori, di scarsa obiettività e discutibile qualità culturale. Si colloca, possiamo dire, sul terreno della propaganda, che è ancora più basso di quello dell’ideologia e che non ha nulla a che fare con quella conoscenza oggettiva della realtà per la quale il marxismo fornisce alcuni indispensabili strumenti. Non può che migliorare, ovviamente: ma per farlo dovrebbe evitare di frugare in questi bassifondi e darsi, semmai, modelli più nobili. Modelli di cui la storia del movimento comunista internazionale fornisce molteplici esempi, sin dai tempi di quell’Ottobre ormai così disprezzato.