La Libia, Gramsci e il “dogmatismo storico”

Le posizioni sulla questione libica diffuse oggi in Italia e, più estensivamente, in Occidente, sembrano esprimere una forma di “dogmatismo storico” profondamente significativo sul quale vale la pena formulare alcune considerazioni. Si potrebbe entrare nel vivo della questione dibattuta affermando che non solo il popolo libico non è stato affamato dal proprio governo (il quale in alcuni decenni ha trasformato il proprio paese da uno dei più poveri del mondo qual era – in cui allora veramente si moriva di fame – ad uno dei più ricchi e moderni del continente africano, facendo uscire milioni di persone da una condizione di denutrizione e morte per inedia permanente), ma lo stes – so popolo in rivolta lamenta non già la fame, quanto la mancanza di libertà positiva. Si potrebbe aggiungere che in realtà non esiste un popolo libico in rivolta, come in maniera assillante si continua a ripete – re, bensì una parte della popolazione (per lo più proveniente dalla regione Cirenaica) che è antigovernativa ed un’altra ampia fetta di popolazione (per lo più proveniente dal la regione Tripolitania, e anch’essa composta di uomini, donne, vecchi e bambini), schierata orgogliosamente in difesa del proprio governo. Si potrebbe affermare che lo sventolamento delle bandiere del vecchio Re Idris (Cfr. Antonio Fer ra ri: E se in Libia la via di uscita fosse un re?, “Corriere della Sera” 1.3.2011) da parte dei rivoltosi, costituisce uno fra gli esempi che attestano la base retrograda dei convincimenti ideologico-politici di una cospicua componente degli oppositori. Si potrebbe parlare delle centinaia di consulenti militari USA, inglesi, e francesi, con la compresenza dei rispettivi servizi segreti, entrati in Cirenaica per fornire sostegno alla rivolta (Cfr. US military advisers in Cyrenaica, Debkafile 25.2.2011 e SkyTg24 25.2.2011). E si potrebbe andare avanti così per ore, adducendo esempi su esempi, ma ciò non risolverebbe quella che appare, a mio modo di vedere, come la questione fondamentale, ovvero il caso di “dogmatismo storico” di cui, come dicevo, mi sembra vittima gran parte dell’intellighenzia moralista occidentale, la quale, per seguire le consuetudini del proprio tempo, ha preferito chiudere i conti con il marxismo e le sue categorie concettuali, salvo poi sostituirle con termini postmoderni più alla moda e, così facendo, smarrire il senso della realtà e delle sue interconnessioni dialettiche. Tra questi termini fuorvianti vi sono quelli di “dittatore” o di “tiranno”. Sono termini che confondono gli avvenimenti anziché chiarirli come pretenderebbero di fare, giacché presuppongono l’esistenza di un’unica persona capace di governare per un lungo periodo un territorio, in odio e in svantaggio a tutti i suoi abitanti: ciò da un punto di vista storico è impossibile. Gramsci nei Quaderni del Carcere compie tutta una serie di studi su come nessuna formazione dirigenziale possa esistere senza una dose di consenso dalla sua parte, e senza essere legata a determinate forze sociali. Anche Berlusconi sarebbe ben poca cosa senza il sostegno dell’imprenditoria italiana, e persino il re Carlo Magno esprimeva il potere dei gruppi feudali. Gramsci non parla mai in carcere di “tiranni” o “dittatori”, ma di “cesarismi” o “bonapartismi”. Questi, spiega, non scaturiscono da capricci individuali di questo o quell’altro dittatore, ma da particolari condizioni oggettive: «si può dire che il cesarismo o bonapartismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca»; in questi casi «la soluzione» viene «affidata ad una grande personalità» (Quaderni del carcere, ed critica, Einaudi 1975, p. 1194), a «uomini provvidenziali o carismatici» (p. 1603); si verifica pertanto in questi casi una forte «influenza dell’elemento militare nella vita statale»; e tuttavia, ci tiene a precisare Gramsci, ciò non significa soltanto «influenza e peso dell’elemento tecnico-militare, ma influ – enza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico-militare (spe cialmente gli ufficiali subalter – ni) trae specialmente origine» (p. 1608); il cesarismo d’altronde «non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo regressivo, e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare, sia pure con certi compromessi limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente […] Si tratta di vedere se nella dialettica “rivoluzione-restaurazione” è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni “in toto”» (pp. 1194-1195). Gramsci afferma in sostanza che vi sono tutta una serie di circostanze storiche nelle quali la scelta ricade oggettivamente non già tra una democrazia ed una dittatura, tra libertà e cesarismo, bensì tra un “cesarismo progressivo” ed un “cesarismo regressivo”. Tutto questo, in seguito alla damnatio memoriae del marxismo, la maggior parte degli intellettuali lo ignora completamente, preferendo barcamenarsi confusamente con gli schemi più semplici e folkloristici del “popolo buono” contro il “tiranno cattivo”. Ma basterebbe rifletterci un momento per comprendere come tale manicheismo non soltanto confonda le cose ma, essendo viziato ideologicamente, le confonde in favore di una parte storica ben determinata: chi ha rivestito nei media il ruolo di dittatore o di tiranno negli ultimi due decenni? A seconda della convenienza del momento, queste categorie sono state attribuite a Saddam Hussein, a Milosevic, ad Ahmadinejad, a Hugo Chavez, a Morales, ad Arafat, a Fidel Castro, a Hu Jintao, a Putin, a Hamas, ed ora a Gheddafi, in sostanza, crudeli tiranni e feroci dittatori diventano a mano a mano tutti quei capi di governi non allineati agli Stati Uniti o che guardano agli USA in maniera più o meno dichiaratamente ostile. La cultura moralista che ha sostituito il materialismo storico e l’analisi dialettica con la teratologia e le narrazioni psicopatologiche, si rifiuta, o fa difficoltà a comprendere, quel che aveva invece ben compreso Gramsci: e cioè non soltanto che esistono dei “cesarismi progressivi”, ma che questi costituiscono spesso una necessità oggettiva la cui alternativa sarebbe un “cesarismo regressivo” con danni storici di durata epocale. Questa cultura, anziché restringere i propri orizzonti intellettivi, farebbe meglio a riprendere in mano tali categorie e ad applicarle anche alle vicende attuali; occorre domandarsi: posta “l’influenza dell’elemento militare sulla vita statale”, il regime di Gheddafi costituisce un esempio di “cesarismo progressivo” o di “cesarismo regressivo”? Vale a dire: le forze politiche e sociali che esso sostiene e a cui è legato sul pia – no nazionale e su quello internazio – nale sono forze progressive o forze regressive? Questo sarebbe il piano giusto sul quale bisognerebbe condurre le analisi: l’enfasi ribellistica indeterminata e le storielle sui tiranni psicopatici lasciamole ai bambini; fanno parte dell’armamentario retorico, dei nuovi Psychological Stra – tegy Board, possono essere buone per fare politica, ma nove volte su dieci vengono giostrate dall’alto e non hanno nulla a che vedere con la verità effettuale.