La guerra planetaria degli Usa e il movimento contro la guerra

Sulle cause profonde della “guerra infinita” di Bush (contro l’Iraq, e, poi, contro diversi altri paesi), credo che sulle pagine di questa rivista si sia già detto l’essenziale attraverso diversi e importanti contributi.
La strategia americana esposta nel documento della Casa Bianca del settembre scorso1, conferma e puntualizza le linee di tendenza già espresse a partire dal ’91 in analoghi documenti. La differenza è che in quest’ultimo, come non era mai accaduto in passato, si espone non solo, e non tanto, la dottrina della “guerra preventiva”, scandalosa per il diritto internazionale, su cui la maggior parte dei commentatori ha insistito2 (e che era già tra le righe in precedenti documenti strategici americani post guerra fredda), ma, soprattutto, un programma di espansione imperialistica degli USA su scala mondiale. Il documento, infatti, parte dalla premessa che l’unico modello di società che possa garantire prosperità e sicurezza è quello basato sul libero mercato e la liberaldemocrazia; tutto ciò che a questo modello non si conforma è il Male: economie non aperte alla penetrazione capitalistica, controllate centralmente da un potere statale (command economies), generano tirannide e terrorismo. La guerra di lunga durata contro il terrorismo proclamata da Bush è vista – letteralmente – come un’occasione favorevole, una opportunity, per esportare con la forza delle armi, campo in cui gli USA hanno attualmente il primato mondiale indiscusso, il modello classico capitalista, in modo da rilanciare un nuovo ciclo espansivo, “una nuova era di crescita economica globale attraverso liberi mercati e libero commercio”3.
A ben guardare, questo documento non è affatto di tipo “difensivo”, di un esecrabile “eccesso di difesa” che l’idea di “guerra preventiva” potrebbe evocare (si interviene per prevenire una minaccia, un pericolo più o meno remoto), ma aggressivo, è il Mein Kampf del XXI secolo. Il documento e tutte le azioni del governo USA confermano che, al di là di divergenze tattiche interne tra “falchi” e “colombe”, che riguardano essenzialmente il come meglio vincere la guerra, e non la strategia di fondo, gli USA, come hanno detto Castro e Mandela, sono oggi il maggiore fattore di instabilità nel mondo, i più pericolosi produttori di guerra, sono il nemico principale dei popoli. Per ragioni geopolitiche, economiche, militari: controllo diretto delle risorse fondamentali del pianeta attraverso la disseminazione di basi militari; peso smisurato della spesa militare e crescita abnorme del complesso militar-industriale; la guerra come via d’uscita dalla crisi di sovrapproduzione. Fattori economici (i crolli borsistici e la recessione incombente) e fattori strategici (una superiorità militare indiscussa nei confronti degli altri poli imperialistici, che potrebbe non esser più tale tra alcuni anni) spingono gli USA a promuovere oggi la guerra imperialistica su scala planetaria. Una guerra che, sul terreno militare, appare già vinta sulla carta e alla quale invitano a partecipare con ruolo chiaramente subalterno anche gli altri paesi imperialistici, in particolare la UE, con accordi bilaterali o multilaterali, o attraverso la NATO, o altre alleanze regionali.

USA ed Europa

Questo espansionismo illimitato degli USA è rivolto anche contro i paesi imperialistici europei e il Giappone e verso altre potenze regionali che potrebbero svolgere una funzione globale (Cina, Russia, India). Ed è questa la ragione per cui il nucleo duro della UE, l’asse franco-tedesco, indipendentemente dal colore dei rispettivi governi dei due paesi, cerca di porre degli argini, con dichiarazioni di rifiuto a partecipare all’intervento militare in Iraq o con schermaglie procedurali al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Un Iraq – e un Medio Oriente! – sotto totale controllo degli USA e delle multinazionali del petrolio che ad essi si appoggiano, porrebbe l’Europa sotto costante ricatto americano, ne limiterebbe le possibilità di espansione in un’area che, già agli inizi del XX secolo (la ferrovia Berlino-Baghdad), appariva lo sbocco “naturale” degli imperialismi europei. In un solo colpo, con la presa di Baghdad, gli USA si impadronirebbero di una risorsa strategica fondamentale e spegnerebbero per diversi anni le velleità della borghesia europeista di costituire un soggetto politico europeo, un polo imperialista attrezzato per le sfide del XXI secolo. La UE sarebbe ridimensionata ad area di libero scambio interno, utile all’espansione delle multinazionali USA, ma incapace di contrastarle sul terreno della forza militare. La conquista americana di Baghdad assesterebbe un duro colpo al progetto di costituzione politica europea e all’euro, alla sua ambizione di diventare la divisa di riferimento delle transazioni internazionali. Il Medio Oriente ritornerebbe ad essere area di indiscusso predominio del dollaro.
«L’Unione europea e l’area valutaria imperniata sull’euro sarebbero tra i grandi sconfitti della guerra sotto un profilo strategico. Infatti, non soltanto le compagnie petrolifere europee sarebbero rimpiazzate da quelle americane in Iraq, ma più in generale sarebbero vanificate tutte le iniziative di diplomazia economica messe in piedi negli ultimi anni nei confronti del Medio Oriente e dei paesi del Golfo: tra le più recenti vanno citate almeno la sigla di un accordo commerciale con l’Iran (nonostante la feroce opposizione statunitense) e l’inizio di trattative per la creazione di un’area di libero scambio tra Unione europea e paesi del Golfo, entrambe del giugno-luglio di quest’anno. La gravità di tale battuta d’arresto può essere facilmente compresa ove si considerino: da un lato la dipendenza energetica dell’Europa da questi paesi; dall’altro il fatto che l’intero Medio oriente (per scambi commerciali e legami finanziari) gravita principalmente nella zona di influenza dell’euro […] tanto una ‘pax americana’ sull’area, quanto una situazione di instabilità permanente (se la guerra andasse un po’ mene ‘bene’ del previsto…) danneggerebbero in misura considerevole l’area valutaria dell’euro, allontanando tra l’altro lo spettro (per gli USA) di prodotti petroliferi pagati in euro anziché in dollari (tale decisione è stata assunta sinora solo da Iraq e Giordania) […] sarebbero fortemente colpiti tanto l’esportazione europea verso i paesi arabi che è all’incirca tripla di quella degli USA (nel 2000 63,7 mrd $ contro 23) quanto le banche europee che sono di gran lunga le più esposte sull’area (nei confronti di alcuni paesi si supera il 70% sul totale dei prestiti internazionali)»4.
La consapevolezza della posta in gioco spinge i fautori di una politica europeista, volta cioè a costruire un polo imperialista europeo autonomo dagli USA – e quindi a costruire uno Stato europeo con un esercito europeo indipendente dalla NATO (cosa alla quale gli USA si sono sempre consapevolmente opposti) – ad avviare un gioco a rimpiattino diplomatico nel tentativo di rinviare il più a lungo possibile l’aggressione all’Iraq, o, in subordine, di condizionare la politica degli USA in modo da non essere tagliati fuori dalla spartizione del bottino, dalla definizione dei futuri assetti del Medio Oriente (dato che gli strateghi di Bush non si propongono semplicemente di installare a Baghdad un governo Quisling filo USA ma di ridisegnare tutti gli equilibri politici e istituzionali della regione). Questa seconda opzione è ben presente all’interno dei paesi dell’area dell’euro, e giustificata come la più realistica. La rivista Limes, che nell’articolo del generale Fabio Mini del numero di settembre5 appariva notevolmente critica nei confronti della politica USA, denunciandone i rischi di destabilizzazione globale e giungendo a citare interi brani del Defence Planning Guidance – il documento scritto da Paul D. Wolfowitz e I. Lewis Libby nel 1992 a sostegno dell’americanocentrismo –, nell’editoriale (non firmato, attribuibile dunque al suo direttore Lucio Caracciolo) del numero successivo, dando ormai per scontata la guerra, si sofferma sulle diverse opzioni del “dopo Saddam” e propone:
«Come possiamo contribuire noi italiani ed europei a evitare che l’attacco all’Iraq si risolva in una catastrofe geopolitica, a limitarne i rischi e a coglierne le opportunità per la pacificazione del Medio Oriente? Anzitutto impedendo che l’America si culli nel suo tutt’altro che splendido isolamento. Al di là delle forme e degli abbellimenti diplomatici, la superpotenza aggredita l’11 settembre è sorprendentemente sola […] In Iraq il nostro ruolo sarà comunque minore. Britannici e forse francesi a parte, gli altri europei non avranno alcun rilievo nella fase di attacco, ma saranno chiamati a gestire il peacekeeping […] Contribuiremo così ad evitare che il paese si trasformi in un protettorato a stelle e strisce. Ancora, potremo incidere nella ricostruzione – sistema idrico, strade e ogni genere di infrastruttura – sulla base di uno scambio con il petrolio. Dopo Oil for Food, sarà Oil for Reconstruction […]6».
Molto più esplicitamente il generale Carlo Jean consiglia – sulla base dei rapporti di forza esistenti – di schierarsi con gli USA, ai quali l’Italia dovrà, attrezzandosi adeguatamente, fornire non solo e non tanto forze di “peacekeeping”, ma ciò che loro “più interessa”: “forze speciali” e “fanterie ad altissima tecnologia”, “preferibilmente addestrate negli Stati Uniti”7.
Vi sono dunque in Europa forze consistenti che puntano a ritagliarsi una spazio subalterno alla corte degli USA, la cui politica, in questo momento si dispiega a tutto campo per ottenere, tra l’ostentazione della forza e la promessa di graziose elargizioni, l’assenso, sia pure obtorto collo, all’impresa irachena e medio-orientale. Ma questa politica, ammesso che nel breve e medio periodo possa dare qualche vantaggio immediato alle imprese multinazionali con base in Europa, è strategicamente perdente per il progetto europeista. E’ il grido di dolore e di sdegno del direttore di Le monde diplomatique, una rivista che dell’autonomia europea ha fatto una bandiera:
«Nell’atmosfera di intimidazione di questa vigilia di guerra contro l’Iraq, molti dirigenti europei […] reagiscono con un riflesso canino, adottando, nei confronti dell’impero americano l’atteggiamento di servile sottomissione che si addice ai fedeli vassalli. E giacché ci sono, svendono in blocco indipendenza nazionale, sovranità, democrazia. Mentalmente, hanno ormai superato la linea che separa l’alleato dall’infeudato, il partner dalla marionetta. Per le loro forze armate, nella battaglia che si preannuncia, implorano un’ingloriosa funzione suppletiva. E, se possibile, dopo la vittoria americana, una goccia del petrolio iracheno…»8

La NATO

Il fattore principale sul quale gli USA fanno leva in questa fase per imporre le loro scelte ai riottosi alleati europei è chiaramente quello militare, nel quale il divario tra i due poli imperialistici appare nel medio periodo incolmabile9. E Gli USA hanno cercato di impedire con ogni mezzo la costituzione di un esercito europeo autonomo. Il Defence Planning Guidance pubblicato dal New York Times l’8 marzo 1992 scriveva testualmente: “Noi dobbiamo agire in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo che potrebbe destabilizzare la NATO”. E così gli USA riuscirono ad ottenere l’inserimento nel trattato di Maastricht di una apposita clausola (l’art. j4, par. 4) che prevede non solo che la politica di sicurezza europea rispetti gli obblighi derivanti per alcuni stati membri dal trattato atlantico del nord, ma che essa deve essere compatibile con la politica di sicurezza e difesa comune adottata in ambito NATO10. Al vertice di Praga di novembre 2002 gli USA sono riusciti ad imporre la creazione di una “forza di reazione della NATO” di 21.000 unità, piantando un ulteriore cuneo nel progetto di creazione della forza di reazione rapida europea: il vertice sottolinea che queste due forze dovranno essere complementari e non concorrenti…11 La lingua batte dove il dente duole.
La NATO svolge un ruolo essenziale nella strategia USA per condizionare e legare i paesi europei al carro della politica americana. Il fatto che la NATO sia stata messa in mora lo scorso anno nella guerra di conquista dell’Afghanistan non deve trarre in inganno: esso è una conferma del cosiddetto unipolarismo USA, della volontà e capacità degli States di operare con un sistema di alleanze “a geometria variabile”, ma non significa che la NATO, nella strategia USA, non debba svolgere un ruolo. Solo che questo ruolo non è affatto quello che si aspetterebbero i “partner” subalterni europei: il principale ruolo della NATO oggi è quello di tenere sotto controllo l’Europa stessa, di impedire che possa formarsi un polo europeo compiutamente autonomo12. E il sempre più ampio allargamento della NATO ai nuovi paesi dell’Europa centro orientale che poco più di un decennio fa erano nel Patto di Varsavia ha lo scopo di estendere la sfera di influenza USA anche in queste aree, che, per ragioni di contiguità geografica e di integrazione economica, appartengono “naturalmente” all’area dell’euro: attraverso la NATO, i cui comandi e le cui tecnologie militari sono essenzialmente statunitensi, essi finiscono nella sfera di influenza USA, che utilizza i parvenus nel club euroatlantico anche in funzione antieuropea. Se Schroeder e Chirac si oppongono alla guerra contro l’Iraq13, i nuovi venuti offrono entusiasti il loro sostegno e il loro territorio allo Stato più forte e alle sue politiche aggressive14. Bulgaria e Romania, ad esempio, si sono procurate il visto d’ingresso nella NATO mettendo a disposizione degli Stati uniti, per la guerra in Afghanistan e la futura guerra all’Iraq, le basi di Burgas e Costanza sul Mar Nero15.
Nei piani dell’amministrazione USA, la NATO deve svolgere il ruolo di forza militare e politica di pronto intervento nella guerra planetaria. Una forza al servizio della superpotenza e delle sue politiche, senza possibilità di decisione autonoma. Una forza dichiaratamente offensiva, pronta ad aprire a suon di bombe – come è stato contro la Jugoslavia – mercati ancora controllati centralmente, per insediare nei paesi vinti “società aperte16”.

L’ONU

Il riferimento che si fa all’ONU nel National Security Strategy del 2002 è puramente formale e strumentale, contraddetto nella sostanza dal rifiuto esplicito – e privo persino della foglia di fico di una qualsivoglia motivazione17 – di sottostare a una qualche giurisdizione internazionale. Nelle quotidiane esternazioni di Bush jr. l’ONU e le istituzioni internazionali appaiono avere un qualche valore solo nella misura in cui si piegano docilmente al bastone americano. Vinta la guerra fredda, rimasti unica superpotenza militare sul campo, gli USA intendono muoversi come arbitro indiscusso di ogni situazione, disposti a violare ripetutamente e in modo sostanziale il diritto internazionale, nella convinzione che, in assenza del contrappeso rappresentato in passato dall’URSS, non vi sia allo stato attuale nessuna forza in grado di fermarli. In molti casi, usando a seconda delle circostanze bastone e carota, sono riusciti a piegare gli altri membri del consiglio di sicurezza alla propria volontà, come accadde con la risoluzione 687 del 3 aprile 1991 (approvata con voto contrario di Cuba e astensione di Equador e Yemen), che spostava di botto tutta la questione dalla violazione delle frontiere del Kuwait (che nell’aprile del ’91 era oramai questione chiusa), alla detenzione di armi di distruzione di massa, che sarà il pretesto con cui si continuerà ad imporre all’Iraq un micidiale embargo, mantenendolo sotto tiro fino ad oggi. In altri casi, facendo direttamente ricorso alla violenza dei loro bombardieri, senza alcun avallo dell’ONU, come è accaduto con l’istituzione delle “no fly zones18” che hanno smembrato l’Iraq, con tutto il seguito di quotidiani bombardamenti.
Anche la risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU 1441, votata all’unanimità l’8 novembre 2002, dopo un estenuante braccio di ferro con Russia e Francia, che sono giunte a minacciare di presentarne rispettivamente una propria, appare estremamente vessatoria e umiliante per l’Iraq, non diversamente da quello che fu il “trattato di Rambouillet” per l’aggressione alla Repubblica Federativa Jugoslava. Essa è particolarmente insidiosa perché:
«fornisce una piena copertura ideologica alla tesi americana della esistenza di una grave minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale derivante dal non completamento della missione Unscom. In altre parole, la controversia sorta nella fase finale del programma di disarmo iracheno viene equiparata ad una situazione come quella verificatasi con l’occupazione militare del Kuwait e, non a caso il preambolo, richiama la risoluzione 678 (del 29 novembre 1990), che autorizzò l’intervento armato19».
Così com’è, questa risoluzione sarà usata – viene già usata – da diverse forze politiche dei paesi europei e della NATO per legittimare di fronte all’opinione pubblica il loro avallo alla guerra di Bush.
Di fronte a tale situazione, è forte la tentazione di considerare l’esistenza dell’ONU come un cane morto e di lasciar perdere qualsiasi battaglia tesa a difenderne il ruolo e le prerogative. (Tentazione analoga – anche se con valenza diversa – a quella che ritiene ormai tempo perso una battaglia a difesa della costituzione). La “costituzione materiale” dell’ONU – il suo funzionamento effettivo – è determinata dai rapporti di forza, la machiavelliana “verità effettuale”, e sarebbe illusorio e perdente appellarsi ad un’ONU ideale che oggi non c’è.
E, tuttavia, sull’ONU si svolge ancora una battaglia non secondaria, che costringe gli USA a misurarsi (il che non significa accettarle!) con le sue regole e con Stati che non sono allineati con la politica americana. La stessa risoluzione è già oggetto di due contrapposte interpretazioni – anglo-americani da un lato, Francia, Russia, Cina, dall’altro – e i tempi e i modi in cui essa è stata faticosamente partorita hanno mostrato al mondo una forte divergenza tra i membri del consiglio di sicurezza. Rispetto all’ONU occorrerebbe avere un atteggiamento materialistico, che non cada nel feticismo giuridico (ritenere giusto, “di diritto”, reale, tutto ciò che promana dall’ONU), ma che neppure consideri il diritto un mero feticcio, pura e semplice finzione. Se Bush dichiara di poter regolare i suoi conti con Saddam “con l’ONU o senza l’ONU”, non è affatto la stessa cosa, né per Bush, né per Sharon, né, in particolare, per Blair fare la guerra senza una qualche legittimazione internazionale. Possono farlo, ma apparirebbero agli occhi del mondo per quello che effettivamente sono: aggressori imperialisti. E non siamo ancora giunti ad una situazione in cui le democrazie parlamentari possano del tutto infischiarsene dell’opinione pubblica: non a caso dedicano enormi sforzi al controllo dei mass media per la costruzione del consenso, per inventare motivazioni etiche alla guerra, all’oppressione, allo sfruttamento (guerre etiche, guerre umanitarie, guerre per la libertà, per la giustizia, ecc.) perché la loro guerra appaia un bellum justum, benedetto dagli dei. L’ONU – con tutti i suoi enormi limiti – è uno dei luoghi nei quali gli aggressori devono misurarsi con le loro menzogne: decretarne la fine sarebbe oggi un regalo per Bush.

Un movimento di massa permanente contro la guerra planetaria degli USA

Questo titolo potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Perché non parlare di un movimento globale contro la guerra globale del neoliberismo? o contro la guerra in generale, contro tutte le guerre, per la pace permanente? Perché quanto più determinato e definito è l’obiettivo, tanto maggiore concretezza e determinazione si ha nell’azione politica. E se tutte le analisi convergono nell’individuare negli USA, nel loro sistema economico strettamente legato al complesso militar-industriale, nel loro disegno di dominio planetario per mantenere il predominio del dollaro e salvaguardare l’American Way of Life a spese dei popoli del mondo, il principale produttore e promotore di guerra, è contro la guerra degli USA che bisogna concentrare tutte le forze, senza disperderle in mille rivoli o in generici e confusi discorsi sulla globalizzazione. Bisogna invece gridare nome e cognome di chi oggi vuole e promuove la guerra.
Una delle cause del grande successo della mobilitazione di Firenze risiede nella protervia con cui Bush e Blair hanno dichiarato di voler fare la guerra e rovesciare Saddam senza saper fornire un pretesto credibile. E’ la prima volta, dall’inizio della nuova era del dopo guerra fredda inaugurata nel 1991 con la prima guerra contro l’Iraq, che gli apparati mediatici di organizzazione del consenso sono stati in difficoltà, non sono stati convincenti, hanno arrancato tra motivazioni incerte e contraddittorie: la demonizzazione del nemico già demonizzato non è riuscita. E certo non è estraneo a questo insuccesso dell’apparato mediatico internazionale il fatto che alcuni paesi europei non fossero d’accordo questa volta con la guerra di Bush. Com’è strano sentire oggi dire NO alla guerra quegli stessi Schroeder e Joshka Fischer che avallarono le menzogne più infami per giustificare l’aggressione alla Jugoslavia! E leader dell’Ulivo che solo un anno fa andavano a Taranto a benedire i marinai italiani mandati a far la guerra infinita agli ordini diretti dei comandanti americani, mostrarsi oggi – molto cautamente, s’intende! – contrari a questa guerra! Repubblica e L’Espresso non fanno – come solo tre anni fa accadeva – prime di copertina a la “Hitlerosevic” per demonizzare gli iracheni e Saddam. C’è una singolare, strana asetticità negli articoli dei giornali sulla crisi irachena. Non possiamo che rallegrarcene. Essa è il frutto delle contraddizioni della realtà, delle contraddizioni tra poli imperialistici: nella guerra contro l’Iraq non c’è coincidenza di interessi, tra il paese più indebitato al mondo, il paese che più spende al mondo in armamenti, e gli altri paesi capitalistici dell’area dell’euro, i cui sistemi – per ragioni storiche, economiche, politiche, culturali – non consentono attualmente di orientare la produzione in senso prevalentemente bellico (come si è visto anche al vertice NATO di Praga20).
Un movimento contro la guerra deve avere la capacità di individuare correttamente queste contraddizioni – sarebbe quanto mai sbagliato vedere un’unica nebulosa indifferenziata, “neoliberista” e guerrafondaia – per approfondirle in funzione dell’obiettivo principale: contrastare l’imperialismo USA; smascherarlo, isolarlo: è un obiettivo che, per quanto sinora detto, non si limita alla guerra contro l’Iraq, ma abbraccia un’intera fase storica.
C’è un enorme lavoro da fare capillarmente, a livello di massa e in profondità – in tutti i luoghi di lavoro, di studio, di aggregazione, di svago, fabbriche, scuole, sindacati, parrocchie, associazioni, club sportivi – trovando le forme più adeguate di comunicazione – dalla conferenza al dialogo informale, dai video alle performance teatrali21 – per informare sulla guerra di Bush, per sbugiardare le reali intenzioni e i reali interessi degli USA, per dire che la guerra americana non soltanto è disumana e ingiusta, ma è anche contro gli interessi dei lavoratori: più cannoni uguale meno scuole, meno ospedali…
La prima battaglia da vincere è quella dell’informazione. Poiché non possediamo televisioni o altri potenti mezzi di comunicazione di massa centralizzati, si tratterà di costruire migliaia di momenti di incontro e discussione, utilizzando sapientemente i nuovi spazi che oggi si possono aprire. In primo luogo nella CGIL, che rimane una grande organizzazione di massa. Essa nel ’99 si schierò con la guerra contro la Jugoslavia e la sostenne ideologicamente partecipando alla “missione Arcobaleno”; oggi si pronuncia contro la guerra. Occorre lavorare per far sì che a questo pronunciamento seguano fatti e mobilitazione.
Un lavoro capillare di informazione è fondamentale per consolidare e allargare il dissenso alla guerra. Esso deve essere a un tempo profondamente etico e motivatamente politico. Occorre costruire argomentazioni forti contro la guerra, evitando la trappola di lasciarsi trascinare sul terreno dell’avversario: se è totalmente infondata la relazione che Bush istituisce tra terrorismo e guerra, se è vero che la campagna antiterroristica è il pretesto-passepartout per la guerra americana di lunga durata, che senso ha continuare a ripetere frasi sulla “spirale terrorismo/guerra”, o sostenere che “la guerra non ferma il terrorismo”?
Per dare solidità, continuità, capacità di irradiazione al movimento è essenziale la costituzione di coordinamenti contro la guerra su scala locale, nazionale, internazionale. Non importa in questo momento il nome che si danno – social forum, comitati contro la guerra, coordinamenti – quanto i contenuti e le modalità d’azione, che devono mirare a raggiungere il numero più ampio di persone, senza preclusioni, senza settarismi, senza fughe in avanti. Fondamentale è il lavoro di massa (come si diceva un tempo), con chiarezza di contenuti e obiettivi.
Uno dei quali in questo momento è tallonare il parlamento e il governo su tutte le questioni di politica internazionale per potersi mobilitare per tempo, anche se – o proprio perché – la tendenza è quella, se va bene, di coinvolgere il parlamento a cose fatte, come fece il governo D’Alema per l’aggressione alla Jugoslavia. Ma proprio questa tendenza extraparlamentare dei governi di guerra va denunciata e combattuta, perché con la guerra-stato d’emergenza, come è già accaduto tante volte, vengono violate e soppresse le garanzie costituzionali. Anche in questo caso, stracciare la carta costituzionale come stracciare la carta dell’ONU serve prima di tutto ai guerrafondai. In questo senso un’importante occasione è stata persa col vertice NATO di Praga (in cui il presidente del consiglio, tra l’altro, ha promesso carne da cannone per la NATO), scivolato via, a ridosso della grande manifestazione di Firenze, senza alcun dibattito parlamentare. Un errore da non ripetere…

Note

1 Il documento The National Security Strategy of The United States of America, reperibile al sito www.withehouse.gov è stato pubblicato in italiano come inserto da Liberazione il 10.10.02.
2 Cfr. il bell’articolo di Alessandro Portelli, “La cultura di Bush”, in la rivista del manifesto, novembre 2002, p. 39-43. Cfr. anche Luigi Pintor “La guerra preventiva”, il manifesto 11/9/2002.
3 Cfr. capitolo VI del documento della Casa Bianca.
4 Vladimiro Giacché, “Irak: una guerra e i suoi perché – controllo dell’Eurasia, armi e petrolio”, in La Contraddizione, n. 93, novembre 2002, p. 24.
5 Fabio Mini, “Un anno dopo”, in Aspettando Saddam, I quaderni speciali di Limes, settembre 2002, p. 7-26.
6 “L’impero che non c’è”, in Limes – L’Arabia americana, n. 4/2002, p. 16. I passi in corsivo sono miei (A.C.). Limes, al pari di Bush, vede nella guerra un’opportunità per fare affari e sposa acriticamente la versione americana della “superpotenza aggredita” che deve difendersi. Ma, nei fatti, chi sta aggredendo il mondo?
7 Carlo Jean, “Per servire noi stessi dobbiamo servire agli americani” in Aspettando Saddam, cit., p. 96-97. Cfr. anche: “Per il peso internazionale nell’attuale contesto strategico, una compagnia di forze speciali conta più di una flotta o anche di uno stormo aereo, già disponibile agli USA in grande quantità” (p. 96). Berlusconi, al vertice di Praga, si è subito adeguato, promettendo 10.000 uomini nei prossimi anni.
8 Ignacio Ramonet, “Vassallaggio”, in Le monde diplomatique, ottobre 2002, p. 1.
9 Carlo Jean, cit., p. 91. Cfr. anche Francesco Paternò, “La Nato extra-large ad est”, il manifesto, 22.11.2002: Nel campo delle comunicazioni e guerra elettronica, per Joseph Ralston, capo militare (uscente) della Nato in Europa, il Pentagono ha una disponibilità di mezzi superiore tra il 90 e il 100%, dell’80% negli aerei per il rifornimento in volo, ancora del 100% nei 180 bombardieri a lungo raggio equipaggiati con missili dell’ultima generazione, tutti battenti bandiera Nato ma tutti in forza all’Usaf. E questo è solo la parte nota dell’elenco della spesa: “Quando si bombardò in Bosnia – ricorda un diplomatico europeo – in una sola settimana noi eravamo riusciti a raschiare il fondo del barile”.
10 Cfr. D. Gallo, “Il ‘nuovo ordine internazionale’ fra predominio degli Stati Uniti, debolezza dell’ONU e militarizzazione delle istituzioni europee”, in Allegretti, Dinucci, Gallo, La strategia dell’Impero, Ed. Cultura della pace, Firenze, 1992, p. 76.
11 Le monde, 22.11.02. Si veda anche il contenzioso sugli aerei da trasporto militari: gli europei stanno sviluppando con l’Airbus l’A-400M; gli USA propongono che i paesi NATO adottino in leasing i loro C-17.
12 “E’ chiara la ragione per cui Washington preme per l’ulteriore espansione a est della Nato, dopo che questa ha inglobato nel 1999 i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca): estendere e rafforzare la Nato, ancora saldamente sotto leadership Usa, impedendo che l’Unione europea crei una propria struttura militare autonoma” (Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, “L’Alleanza atlantica nel Castello di Praga”, il manifesto,19.11.2002).
13 Al vertice di Praga del 21-22 novembre 2002, che consacra l’ingresso di 7 nuovi membri, Joshka Fisher ha dichiarato che il suo paese non parteciperà ad azioni militari contro l’Iraq. Cfr. Le Monde, 22.11.02, “Elargissement historique de l’OTAN vers l’Est “. In un altro articolo si osserva che Bush e Blair non sono riusciti a far passare una dichiarazione più dura sull’Iraq, che implicasse il coinvolgimento diretto della NATO per l’opposizione di Germania e Francia, che ha rifiutato che il vertice NATO servisse da preparazione a un’operazione militare.
14 Si veda ad es. l’articolo de Le Monde, del 20.11.02, “M. Bush veut une OTAN renforcée face au terrorisme”, in cui si sottolinea come il presidente USA sia meglio accolto in questi paesi che in quelli dell’Europa occidentale. Cfr. Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, “L’Alleanza atlantica nel Castello di Praga”, il manifesto,19.11.2002: “Il presidente ceco Havel, in visita a Washington, ha garantito al presidente Bush la collaborazione del suo paese nella guerra contro l’Iraq e ha messo a disposizione degli Usa il territorio ceco per una possibile dislocazione di missili per lo “scudo spaziale”. La Lituania, ancor prima di entrare nella Nato, ha cominciato ad acquistare armamenti statunitensi, a partire da 60 missili antiaerei Stinger per un valore di 31 milioni di dollari. La Bulgaria procede, su direttiva di Washington, a una drastica epurazione delle forze armate, espellendo migliaia di ufficiali (non “affidabili”) per sostituirli con 2.175 giovani e fidati ufficiali, formati da istruttori statunitensi e in grado di parlare un ottimo inglese, anzi americano”.
15 Cfr. Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, cit.
16 Si veda l’articolo di due esponenti dello staff strategico USA, R. D. Asmus e K. M. Pollack, “Rifondiamo la NATO per democratizzare il Medio Oriente”, in Limes – L’Arabia americana, n. 4/2002. In esso si sostiene la tesi di una possibile cooperazione tra Europa e USA, sotto l’egida di una NATO rifondata ad hoc, per “modernizzare il Medio Oriente, mettendo da parte le divergenze sul conflitto arabo israeliano” (p. 79), ridisegnando gli assetti istituzionali ed economici di tutta la regione, dall’Iraq all’Iran, dall’Arabia all’Egitto, dove le “moribonde economie nazionali” tardano ad essere privatizzate (p. 81). Ma la guida del processo non può che essere degli USA: “E’ impensabile dare all’Alleanza atlantica una nuova prospettiva strategica senza la leadership degli Stati Uniti e del loro presidente. Sebbene l’Europa possa fare molto, la guida di questa nuova fase deve essere assunta da Washington. Nessun altro paese possiede l’autorità e l’influenza per stabilire l’orientamento strategico e le priorità che l’ambizioso progetto qui delineato richiede” (p. 85). I due autori invocano (un’altra profezia che si autoavvera?) un grande attentato in Europa per convincere i riottosi alleati: “Ma l’Europa è all’altezza di questa sfida? I nostri alleati non hanno ancora avuto la loro Pearl Harbor, che li avrebbe costretti a ripensare profondamente le loro priorità nazionali […] Possiamo sperare solo che il vecchio continente impari dagli errori dell’America. Ma per arrivare a questo forse dovrebbe subire un grande attacco terroristico come quello delle Torri Gemelle” (sic!!) (p. 84). Avvertimento in puro stile mafioso.
17 Cfr. cap. IX di The National Security Strategy: “Pren