La guerra, la resistenza, la pace

Nei giorni più caldi del conflitto in Iraq, alcune tue dichiarazioni in cui ti auguravi che il popolo iracheno resistesse all’invasione (considerazioni che a noi sono parse incontrovertibili e crudamente ancorate alla dura realtà dei fatti), hanno suscitato anche a sinistra e nel “movimento” perplessità e polemiche. Ricordavi che “l’impunità per gli aggressori sarebbe stato proprio il peggio”; che “chi vuole veramente fermare la guerra prima di tutto deve aiutare gli iracheni nella loro resistenza civile e armata” – che oggi continua in altre forme, ma continua; – che “se gli iracheni si sfarinano, l’arroganza della superpotenza americana diventerà ancora più grande”; che “resistere agli aggressori è da millenni la prima condizione per la pace” e che questa verità tu l’avevi imparata duramente di fronte alle panzer divisionen hitleriane; e che tu sei “un pacifista, non un calabrache”. A noi è parso il linguaggio coraggioso di un comunista, di un combattente, e non abbiamo mai pensato – non siamo in malafede – che esso comportasse una tua qualche indulgenza verso il regime di Saddam.
In una recente intervista che hai rilasciata a Luciana Castellina per la rivista del manifesto (maggio 2003) hai precisato che volevi “sottolineare il valore del resistere: nel concreto dello scontro armato e della prova di forza”. E che tu, “amante della pace”, sai bene che “dinanzi alla guerra in atto bisogna pur rispondere alla sua violenza: combattere, e anche sostenere l’aggredito che lotta con le armi in pugno”.
Oggi, chi sostiene questo approccio viene considerato – anche in alcuni settori del movimento e della sinistra radicale – come un “conservatore”, un “ortodosso”, un “vetero-comunista”, un portatore di una “cultura della forza” e del “nemico” del tutto incompatibile con una “cultura della pace e della non-violenza”. Uno che non ha saputo emanciparsi dalla peggior cultura politica del movimento operaio e comunista del Novecento. Mentre a noi sembra che certe critiche, quando sono in buona fede, nascono da una drammatica regressione all’idealismo, ad una rappresentazione ingenua e romantica della lotta per la trasformazione del mondo, che ci ricorda il socialismo utopistico dei primi dell’Ottocento, che Marx considerava assolutamente disarmante e a cui dedicò non per caso critiche roventi e impietose. Vuoi approfondire con noi questa problematica “del consenso e della forza”, a partire dalla lotta contro i fautori della guerra?

Ritengo che quando uno Stato (nel senso che si dà a questa parola nel 2003 del nostro del nostro secolo), senza un chiaro e provato motivo di difesa del suo territorio, invade con le sue forze armate (di terra, di cielo e di mare) il territorio di un altro Stato, per abbatterne il governo, occuparne il territorio e distruggerne eserciti, flotte aeree e navali e qualsiasi mezzo di difesa, compie un’aggressione.
Questo è ciò che ha fatto l’esercito angloamericano nel febbraio di quest’anno, dopo che non era riu- scito ad avere nemmeno il consenso della maggioranza del Consiglio di Sicurezza, e in concreto: di fronte al fallimento ormai palese del suo progetto di procurarsi l’autorizzazione dell’ONU al suo attacco militare.
E non è tutto. L’invasione dell’Iraq è stata compiuta prima che fossero state raggiunte prove sicure dell’esistenza di quelle armi segrete, che dagli Stati Uniti erano state presentate come primo e urgente motivo della guerra all’Iraq. Nemmeno al momento in cui scrivo, e quando ormai l’Iraq è sotto il pieno controllo americano, sembra che prove di queste armi siano state ritrovate.
Infine l’intervento armato anglo-americano in Iraq si è intrecciato ad una nuova teoria della “guerra preventiva”, che ha cancellato radicalmente l’idea della legittimità della sola “guerra di difesa”: principio che è un cardine della Costituzione del nostro Paese, e che del resto fu presentata come un principio fondamentale delle Nazione Unite.
Tale è il quadro, giuridico e politico, italiano e mondiale, in cui è scattato l’intervento armato militare in Iraq. Come chiamarlo se non “aggressione”?
E di fronte a una aggressione così clamorosa, e gravida di significati anche per ciò che riguarda l’assetto del mondo, a me è parso lecito evocare il diritto di “resistenza”: cioè il diritto (starei per dire l’obbligo morale) di opporsi con le armi alle armi dell’invasore. Non è andata così. Purtroppo la “resistenza” irakena non c’è stata o è rapidamente crollata dinanzi all’attacco dell’aggressore, per ragioni che prima di tutto rimandano alla figura sciagurata di Saddam e al carattere di cieca dittatura che segnava il suo regime.
Forse sono stato frettoloso o troppo fantasioso io nell’invocare il diritto a resistere. Questo non cancella che in Iraq e contro l’Iraq ci sia stata un’aggressione a tutto campo, e il mondo pacifista non sia riuscito né a fermare l’invasore americano né a stimolare germi di passione nazionale. Quanto all’Occidente pacifista – dobbiamo dirlo – è riuscito solo a compiere (penso, prima di tutto, a Gino Strada e ad Emer-gency ) un’umana opera di soccorso ai colpiti, e ad assistere i morenti e seppellire i morti. Dobbiamo guardare in volto crudamente l’accaduto.
Non so proprio dire se gli scontri armati, di cui sporadicamente e confusamente ci giunge oggi notizia da quella terra sfortunata, siano embrioni di una guerriglia islamica di domani o solo faville della disgregazione di quel paese occupato dallo straniero. Tante cose di quelle terre ancora le conosciamo ap-
pena, per sommaria approssimazione. E io – nel mio animo – non rinuncio ancora a quella mia – se vuoi gracile- speranza di una lotta – forse domani?, nel futuro – all’aggressione.
Quanto all’obiezione che tu mi esponi – e cioè (se capisco bene) ai dubbi dei pacifisti a riguardo dello scontro armato – la mia risposta è tutta nelle cose prima dette: quando l’aggressore spara scatta il diritto alla difesa. Altrimenti resterebbe una via spalancata di fronte a ogni aggressore. Non solo: io penso che questa rinuncia degli aggrediti alla resistenza alla fine darebbe un qualche alibi ai terroristi, e finirebbe per alimentare tristemente la disperazione dei “kamikaze”, che non riesco proprio a vedere come un sentiero per la riscossa dei palestinesi.
E infine: starei attento a una strategia che rischi di presentare il pacifismo come una via aperta all’iniziativa armata dell’avversario: e questo addirittura nel tempo della “guerra preventiva”, e cioè di una strategia generale che si affida così clamorosamente all’agire prima nell’affidarsi al ricorso alle armi: e stiamo parlando delle armi nuove e inaudite inventate dal mio secolo.

Nella già citata intervista a Luciana Castellina per la la rivista del manifesto dici che dobbiamo essere crudi e impietosi nella valutazione degli esiti della guerra contro l’Iraq, la prima (o quasi) messa in prova della guerra preventiva. E che quella di Bush non è solo una vittoria secca e rapida sul campo: due settimane per abbattere il nemico, ma configura l’insediamento diretto e armato della Superpotenza americana in un’area che tutti nel mondo riteniamo strategica. Intendi dire che – dopo mesi e mesi di braccio di ferro tra gli Usa e quel resto del mondo che si è opposto alla guerra (stati, chiese, imponenti movimenti di massa …) – il bilancio che se ne può trarre è quello di una vittoria secca e di un rafforzamento globale e strategico delle componenti più oltranziste dell’imperialismo americano (noi lo chiamiamo ancora così) e di una sconfitta grave del fronte della pace?

Sinceramente sì: voglio dire queste cose. Le sconfitte più brucianti bisogna guardarle in viso con coraggio. E trarne anche le lezioni adeguate e necessarie.
Tento di uscire dal generico. È da tempo che nelle mie testarde riflessioni io insisto a porre la domanda sulle strade e i modi per incidere sui “poteri”. E – palesemente mi sembra – alludo ai poteri che decidono sulle chiavi della società, e quindi – di certo – sulle armi e sul nuovo e sconvolgente ruolo che esse oggi hanno nell’agire politico. Pesare sui poteri (sì, detto al plurale: perché plurale è la struttura di comando delle nazioni del Novecento: anche quando hanno dimensione imperiale) fu il tema che evocai anche in quell’emozionante incontro in una sala della Fortezza da Basso nei giorni memorabili della marcia mondiale di Firenze.
Tutti lo vediamo a occhio nudo. Le mutazioni avvenute in questa trama dei poteri politici mondiali nell’ultimo ventennio (e – per essere chiaro – con il crollo rovinoso dell’impero sovietico) sono state enormi. Più esattamente si è aperta un’epoca in cui è entrata in discussione tutta la relazione su scala mondiale fra il Capo americano e le complicate varianti delle Potenze rivali, e prima di tutto la relazione con l’Europa. Non si tratta solo del Medio Oriente: oggi tutta la geografia politica dell’Europa è in questione. Sono in campo domande brucianti: che sarà la Confedera-zione europea, se sarà? Quale la dislocazione finale di un Putin, cioè dell’enorme Russia? Ed è davvero finita la NATO? E quale sarà il rapporto nuovo tra euro e dollaro? Eccetera.
Sostengo dunque che non c’è (non c’è ancora?) né un impero universale e nemmeno (per favore, non ti stupire) una scomparsa degli Stati nazionali e delle loro varianti giuridico-sociali.
Certo: questo mondo complesso è oggi clamorosamente sotto l’egemonia pesante dell’imperialismo americano à la Bush. Ma all’interno esistono e resistono ancora specifiche varianti nazionali, e forti diversità di sistemi di potere e di coalizioni sociali in competizione: e pesano – e come – nella vita dei singoli paesi.
Ecco allora la questione: siamo in grado di incidere su questo tessuto di poteri secondo una strategia? E la varietà e la complessità dei movimenti new global hanno sviluppato un confronto adeguato sulle strategie da coordinare e da sorreggere in questa trama articolata di poteri mondiali? Siamo in grado, per esempio, di portare, a questo livello politico, contemporaneamente la manovra e l’uso e la presenza della nascente Confederazione europea, e anche di definire le ripercussioni di questi eventi sconvolgenti all’interno del tuttora esistente Stato italiano? E con quali nessi e articolazioni? Con quali speranze per un obiettivo pacifista, e quale incidenza sui nodi della controversia mondiale?
Questo esige – a sinistra – ricerche comuni e costruzione di strategie persino quotidiane. Si può?
A guardare la vicenda del referendum sull’articolo 18 si direbbe di no. Io ho votato sì per quel referendum. Può anche darsi – ma non lo penso – che io abbia sbagliato. Ma non ho assolutamente capito l’astenersi: visto che la prova in ogni modo era in campo e ad essa non si poteva sfuggire: e l’andare al mare poteva solo allargare e raddoppiare la sconfitta. Perfino ai fini di una riflessione critica sull’estensione o meno dell’applicazione di quell’articolo 18 poteva essere molto più fecondo e attivo, se non si approdava a quel disastroso 25%.
E allora: che intendo io con il discorso sui “poteri”? Ecco: anche il vaglio, tempestivo e consapevole, della prova sull’articolo 18.– nel corpo articolato dello schieramento di centro sinistra: con una maturazione delle decisioni, con impegni pubblici, e consapevoli adeguamenti della condotta comune (di sindacati e di partiti, di movimenti e di avanguardie) – nello scontro in campo fra figure diverse del centro-sinistra, e anche scambi, sostegni, sviluppi tra giornale e giornale, tra istituzioni particolari e rappresentanze partitiche classiche. Eccetera.
Certo: questa ricerca per una strategia sui poteri chiede un livello alto, e una trama di comunicazione tenace. Ma se no, come? E se non ora quando?

In una recente stimolante intervista a il manifesto Mario Tronti ha ripreso alcuni di questi interrogativi: “negli Stati Uniti si è realizzata una potenza di livello unico. Come si contrasta una potenza così? … non solo con la moltitudine …, bensì anche con un equilibrio di potenze … Questo strapotere non si ferma solo con le bandiere arcobaleno alle finestre … Ci può essere un’opinione pubblica enorme ma impotente a fronte di una potenza solitaria priva di forze di contrasto”. Che ne pensi di questa valutazione?

Personalmente credo che il quadro mondiale sia più articolato e anche più confuso, più oscillante o almeno ancora in dubbio.
Anche le contraddizioni che segnano questo globo del Duemila sono più differenziate. Vedo il senso forte della preoccupazione di Tronti. Ma lo spazio per le articolazioni c’è. Io temo la compiacenza verso i Grandi: l’accettazione del loro monopolio, quando non era ancora trionfato.
Non ci credo che l’America abbia tutto in mano. Il globo è ancora multiplo. Ancora una volta sono i “deboli” e i medi che danno prematuramente per chiusa la partita: oppure – guarda come sono testardo … – non si danno da fare sui poteri. Asciugano la “politica”. E invece Bush sì che ne pratica di politica, a volte persino affannosamente.
Certo: questo chiede che sbiadiscano le parrocchie e parrocchiette che tutelano con tanta quotidiana compunzione i loro piccoli vessilli. Un piccolo esempio per tutti: ma possibile che sull’articolo 18 non si riuscisse a trovare un accordo diverso da quel futile frantumarsi tra voto e non voto?