Quali pensi che siano i reali scopi della guerra in Afghanistan?
Per comprendere quali siano i reali scopi della prima fase dell’operazione “Libertà duratura” – dietro la motivazione ufficiale della lotta al terrorismo, lanciata dopo gli attentati dell’11 settembre, sulla cui dinamica vi sono molti aspetti oscuri – basta leggere il rapporto sulla Quadrennial Defense Review (Revisione quadriennale della difesa), pubblicato il 30 settembre 2001 dal Dipartimento della difesa degli Stati uniti. Da esso emerge chiaramente che gli Usa, approfittando della disgregazione dell’Urss e del suo blocco di alleanze, vogliono imporre il loro ruolo di “potenza globale”, impedendo che si formino di nuovo potenze in grado di sfidare quella statunitense.
“Anche se gli Stati uniti non avranno di fronte nel prossimo futuro un rivale di pari forza – afferma il rapporto – esiste la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi. L’Asia, in particolare, sta gradualmente emergendo come una regione suscettibile di competizione militare su larga scala. Esiste la possibilità che emerga nella regione un rivale militare con una formidabile base di risorse”.
Non a caso la prima fase dell’operazione “Libertà duratura” è stata lanciata in Asia, in un’area – quella con al centro l’Afghanistan – di enorme importanza strategica. Essa confina (o è limitrofa), a nord, con Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Kazakistan – repubbliche che gli Usa vogliono distaccare definitivamente dalla Federazione russa, a cui esse sono rimaste collegate, dopo la digregazione dell’Urss, nel quadro della Comunità di stati indipendenti: in tal modo gli Usa intendono occupare il vuoto lasciato dal crollo dell’Unione sovietica.
A est, quest’area confina con Cina e India, potenze emergenti che gli Usa temono e vogliono tenere sotto stretto controllo: ciò che maggiormente temono è un riavvicinamento tra Cina e Russia, di cui è potenziale precursore il trattato di amicizia e cooperazione militare firmato nel luglio 2001 da Mosca e Pechino.
A sud, essa confina attra-verso il Pakistan con il Mare Arabico e l’Oceano Indiano, il cui controllo è di fondamentale importanza strategica per qualsiasi operazione militare in Asia.
A ovest, quest’area confina con la sempre più importante area petro-lifera che comprende il Golfo e il Caspio. Qui gli Usa intendono raf-forzare ed estendere la loro presenza militare ed influenza politica, per controllare non solo le fonti energetiche, ma i “corridoi” attraverso cui il petrolio e il gas naturale raggiungono i paesi consumatori. “Gli Stati uniti – sottolinea il documento del Pentagono – continueranno a dipendere dalle risorse energetiche del Medio Oriente, una regione in cui diversi stati pongono minacce militari” per “negare alle forze militari Usa l’accesso alla regione”.
L’Operazione “Libertà duratura” può avere un peso decisivo nella “guerra degli oleodotti”, che Washington ha iniziato a sostegno delle compagnie petrolifere Usa, anche contro quelle europee. L’apertura dell’oleodotto tra il porto azero di Baku sul Caspio e il porto georgiano di Supsa sul Mar Nero e il progetto di un altro da Baku al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, stanno sottraendo alla Russia l’esportazione del petrolio del Caspio. Rafforzando il controllo militare dell’area, gli Usa potrebbero aprire altri “corridoi”.
Rientra in tale quadro il progetto del “corridoio” energetico attraverso l’Afghanistan?
Certamente. C’è già da anni il progetto di un gasdotto e oleodotto che, dal Turkmenistan, raggiungerebbe il Pakistan attraverso l’Afghanistan. Esso avrebbe dovuto essere realizzato da un consorzio internazionale guidato dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, con cui i talebani avevano firmato un accordo nel gennaio 1998. Ma Washington non si era più fidata del regime talebano, sia per le sue crescenti tendenze anti-Usa, sia perché lo riteneva ormai inaffidabile per il controllo del “corridoio” afghano. L’Arabia saudita, che per anni (d’accordo con Washington) aveva finanziato i talebani in funzione anti-russa e anti-iraniana, aveva invece continuato a sostenerli. Nonostante che la Unocal si fosse ritirata dal consorzio, il progetto era andato avanti sotto la direzione della compagnia saudita Delta Oil.
A questo punto gli Usa si erano visti sfuggire di mano il controllo del “corridoio” afghano e, con esso, la possibilità di controllare l’approvvigionamento energetico dell’Asia con il gas e petrolio del Caspio. Si erano visti scavalcare dal loro più importante alleato nella regione, l’Arabia saudita, che aveva riattivato il progetto per realizzarlo e gestirlo senza gli Usa, d’accordo con i talebani, a loro volta d’accordo con il fuoriuscito saudita bin Laden. Si era prospettata quindi la possibilità che si costituisse una coalizione di paesi in grado di sfidare gli Stati uniti, sottraendo loro il controllo delle fonti energetiche da cui gli Usa dipendono in misura crescente e che vogliono controllare per influire sulle altre economie.
Si era verificata, in altre parole, la situazione prevista nel documento strategico pubblicato dal Pentagono, cioè “la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di re-gioni cruciali per gli interessi statunitensi, la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse”.
Quali conseguenze sta provocando l’operazione “Libertà duratura” nel mondo arabo e islamico?
Con la guerra in Afghanistan, gli Usa hanno voluto non solo colpire l’organizzazione di bin Laden e i talebani, ma impedire che nuovi e vecchi gruppi di potere, in Arabia saudita e in altri paesi della regione, possano uscire dalla sfera d’influenza statunitense. Essi hanno lanciato in tal modo un avvertimento, ricordando a tutti che gli Usa – come dichiara lo stesso documento del Pentagono – sono decisi a usare la loro forza militare per “cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.
Sotto la guerra in Afghanistan c’è quindi anche il conflitto tra il capitalismo dominante – quello statunitense e occidentale – e il capitali-smo del mondo arabo che vuole avere un ruolo non subordinato e un peso maggiore su scala internazionale. Per questo vi è una crescente opposizione alla politica statunitense, non solo tra le masse islamiche, ma anche tra le classi dirigenti: alcuni loro settori, come quello rappresentato da bin Laden, criticano le monarchie al potere, accusandole di sudditanza nei confronti degli Stati uniti e dell’Occidente, e aspirano a sostituirle.
Cercando di eliminare tali contraddizioni con la forza militare e la politica del “divide et impera”, Washington fa come l’apprendista stregone, che mette in moto forze senza riuscire poi a controllarle. L’operazione “Libertà duratura” sta provocando in tutto il mondo ara-bo e islamico una crescente reazione anti-Usa, sia tra le masse popolari, sia in settori delle classi dirigenti. L’operazione “Libertà duratura” mette nuovamente il mondo arabo e islamico di fronte alla umiliante, secolare condizione di inferiorità rispetto all’Occidente, riapre vecchie ferite storiche rendendole ancora più brucianti. Tale reazione è destinata a crescere se gli Usa, come hanno intenzione, apriranno nuovi fronti di guerra in Iraq e Somalia, zona quest’ultima di notevole importanza strategica, sia in rapporto all’Africa islamica, sia in rapporto all’Oceano indiano e alle rotte petrolifere.
Anche la crescente tensione tra Pakistan e India è frutto dell’operazione “Libertà duratura”. Essa ha suscitato in Pakistan non solo la ribellione della masse islamiche, che nonostante la dura repressione ha scosso le fondamenta del regime, ma ha provocato una situazione da cui lo stesso regime è uscito con le ossa rotte: esso ha visto distruggere il regime talebano, fino a ieri suo alleato, e quindi diminuire il suo peso nella regione, senza avere dagli Usa adeguate contropartite. Da qui il riaccendersi della tensione con l’India ad opera di gruppi islamici in cerca di una rivincita, e la possibilità di una nuova guerra che servirebbe anche al regime pakistano per ricompattare il paese.
In che rapporto si pone la guerra in Afghanistan con la crisi economica che ha di nuovo colpito gli Stati Uniti?
Per comprenderlo, bisogna anzitutto tenere presente che l’economia statunitense è la maggiore del mondo, ma anche la più indebitata. Il debito complessivo degli Usa, in continua crescita, ha superato i 18.800 miliardi di dollari, oltre il doppio del prodotto nazionale lordo. Il debito del settore privato non-finanziario ha superato i 10.000 miliardi; quello pubblico, i 5.800, oltre il doppio dell’intero debito estero dei paesi in via di sviluppo e di quelli dell’Europa orientale ed ex Urss. Alimenta il debito il crescente saldo negativo della bilancia commerciale: nel 2000, gli Stati uniti hanno esportato merci e servizi commerciali per 1.056 miliardi di dollari, ma ne hanno importati per 1.457, registrando un saldo negativo di 401 miliardi. Ciò è dovuto al fatto che essi consumano più di quanto producano e al peso negativo che la produzione estera dei loro gruppi transnazionali esercita sulla bilancia commerciale quando viene importata negli Usa. In tal modo, però, i 37 gruppi transnazionali Usa, facenti parte dei cento maggiori del mondo, si sono accaparrati nel 2000 oltre il 50% dei profitti complessivi dei cento. È in rosso anche la bilancia dei pagamenti (che, oltre alle transazioni commerciali, comprende i movimenti di capitali): nel 2000 ha registrato un saldo negativo di circa 450 miliardi di dollari.
Ma come fa l’economia Usa – definita “la locomotiva dell’economia mondiale” – a reggere questo enorme deficit? Attraverso il flusso di investimenti provenienti dal resto del mondo sotto forma di acquisto negli Usa di titoli di stato, di obbligazioni emesse da enti pubblici e società private, di azioni e altri tipi di investimento. Secondo la U.S. Trade Deficit Commission, creata dal Congresso, il valore delle attività straniere negli Usa supera di 2.000 miliardi di dollari quello delle attività statunitensi all’estero. È questo flusso di capitali stranieri investiti negli Usa che, facendo crescere la domanda di dollari sul mercato valutario, mantiene alta la quotazione della moneta statunitense. Ciò controbilancia la tendenza al ribasso dovuta al fatto che gli Usa, per pagare le importazioni, immettono sul mercato internazionale più dollari di quanti vengano acquistati dagli altri paesi per pagare le importazioni di merci e servizi statunitensi.
Che cosa attira i capitali stranieri negli Usa? Non solo i profitti che vi si possono realizzare. Soprattutto chi effettua grossi investimenti a lungo termine, lo fa nella convinzione che gli Stati uniti sono la “potenza globale”, decisa a sostenere con la forza militare la propria economia e, quindi, anche gli interessi di chi vi investe. La superpotenza statunitense – il cui cuore pulsante è il complesso militare-industriale – ha quindi la necessità organica della guerra, non solo per ridimensionare potenze regionali in ascesa e controllare aree strategiche come quella petrolifera Caspio-Golfo. Ne ha necessità perché, gettando la spada sul piatto della bilancia, riafferma la sua supremazia e quindi la sua affidabilità agli occhi dei grossi investitori. Questi, portando i loro capitali negli Usa, finanziano in tal modo il deficit statunitense. Ciò è ancora più necessario nei periodi di crisi, come quella che ha investito – non dopo ma prima dell’11 settembre – l’economia Usa. Tra i fattori che l’hanno determinata vi è l’eccesso di capacità produttiva in rap-porto a un mercato interno e internazionale ridottosi per effetto della crisi finanziaria globale che ha colpito anche le classi medie. La “locomotiva dell’economia mondiale” ha rallentato fino quasi a fermarsi.
La guerra ha permesso all’amministrazione Bush di varare un piano a lungo termine per ridare fiato all’economia Usa: il 24 ottobre la Camera dei rappresentanti ha approvato un primo pacchetto di aiuti per l’ammontare di 110 miliardi di dollari, 70 dei quali vanno ai maggiori gruppi economici sotto forma di riduzione di tasse. A fare la parte del leone sono la Ibm, la General Motors, la General Electric e poche altre società. Il resto va a settori sociali benestanti per aumentarne i consumi, e solo in piccola parte a programmi che i singoli stati dovrebbero varare per i disoccupati (a fine settembre i licenziamenti per crisi sono saliti a 1 milione e 400 mila, anche perché molte aziende hanno approfittato dell’11 settembre per effettuare riduzioni di personale già programmate).
Questa massiccia iniezione di denaro pubblico, effettuata dallo stato nelle casse dei maggiori gruppi economici privati, infrange il sacro dogma del liberismo, che Washington pretende sia osservato da tutti gli altri paesi, cioè che lo stato non deve intervenire nella vita economica del paese per avvantaggiare i gruppi economici nazionali. Con-temporaneamente, con la guerra, lo stato Usa sostiene gli interessi di questi gruppi in una regione – l’Asia – di enorme importanza economica e strategica. E, per accrescere la propria forza militare, inietta dosi ancora più massicce di denaro pubblico nelle industrie belliche private. Ad esempio, la Lockheed Martin riceverà dal Pentagono oltre 200 miliardi di dollari (434.600 miliardi di lire) per costruire 3.000 caccia Joint Strike, cui si dovrebbero aggiungere altri 200 miliardi come prevendite a paesi alleati e contratti di manutenzione.
E come si spiega che i principali paesi europei partecipino oggi a un’altra guerra lanciata dagli Stati Uniti?
Va anzitutto ricordato che l’Unione europea non solo ha quasi rag-giunto gli Stati Uniti sul piano economico complessivo, ma in alcuni settori li ha superati. Secondo dati del 1999 forniti dalla Banca mon-diale nel 2001, il prodotto nazionale lordo dei 15 paesi della Ue è di poco inferiore a quello statunitense: 8.435 miliardi di dollari, contro gli 8.880 degli Stati Uniti. Ma le loro esportazioni e importazioni annue di merci sono il doppio di quelle statunitensi: 4.586 miliardi di dollari (nel 2000) contro i 2.040 degli Stati uniti. Tra i cento maggiori gruppi transnazionali del mondo, 31 hanno la società capogruppo nella Ue e 37 negli Usa. Quelli europei realizzano (secondo dati del 2000) il 29% del fatturato e il 33% dei profitti complessivi dei cento maggiori gruppi del mondo; quelli statunitensi, rispettivamente il 40% e 49%.
Con la crisi economica, antecedente all’11 settembre, gli Stati Uniti hanno perso ulteriormente terreno nei confronti dell’Unione europea, soprattutto nel campo degli investimenti esteri diretti: quelli in uscita dagli Usa sono calati, rispetto al totale dei paesi sviluppati, dal 15% nel 1999 al 13% nel 2000, mentre quelli dell’Unione europea, pur scendendo dal 76% al 74%, sono rimasti cinque volte superiori. Sono calati anche i flussi in entrata negli Usa: dal 35,5% al 28%, mentre quelli nella Ue sono saliti dal 56% al 61,5%. Ciò rivelava un calo di fiducia degli investitori internazionali nell’economia statunitense, e quindi una diminuita capacità degli Usa di finanziare il proprio deficit con i capitali esteri. Sintomo molto pericoloso, indice di una diminuita competitività economica degli Usa soprattutto nei confronti dell’Unione europea. Gli Usa, che nella partita della globalizzazione hanno in mano carte economiche di diminuito valore rispetto a quelle della Ue, hanno di nuovo gettato sul tavolo il loro asso: la superiorità militare che detengono nei confronti degli stessi loro maggiori alleati europei. Non occorre essere esperti di alta strategia per capire il gioco condotto dagli Stati Uniti nei confronti di un’Europa di cui temono la forza economica, soprattutto ora che l’euro entra in competizione col dollaro quale moneta per i pagamenti internazionali e per le riserve delle banche centrali. Il loro scopo è portare i paesi dell’Unione europea – sia singolarmente che come membri della Nato – sul terreno della guerra, in cui gli Usa primeggiano.
Ma come si spiega che i paesi europei partecipino a guerre – come quelle nei Balcani e in Afghanistan – da cui sono gli Usa a trarre maggior vantaggio?
La risposta è semplice: le principali potenze europee hanno approfittato anch’esse della disgregazione dell’Unione sovietica e del suo blocco di alleanze, e della conseguente profonda crisi della Russia, partecipando alla spartizione di aree di influenza sia nella re-gione europea che in quella asiatica. L’una in competizione con l’altra, hanno giocato ciascuna la propria partita cercando singolarmente di guadagnare più punti possibili, e hanno così permesso alla superpotenza statunitense di mantenere la leadership nei loro confronti. Le responsabilità di quest’Europa non sono dunque minori: pur sulla scia dell’imperialismo statunitense, essa ha rilanciato una propria politica imperialistica .
Come si inserisce l’Italia in tale quadro?
L’Italia si inserisce in tale quadro con il “Nuovo modello di difesa”. Esso nasce nel 1991, quando, con il governo Andreotti (Dc-Psi-Pri-Psdi-Pli), la Repubblica italiana combatte la sua prima guerra, parteci-pando all’operazione “Tempesta del deserto” lanciata dagli Usa nel Golfo Persico. Sette mesi dopo la guerra, in ottobre, il ministero della difesa pubblica il rapporto Modello di difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90. È l’inizio della mutazione genetica delle forze armate: il loro compito, secondo il rapporto, non è più solo la difesa della patria (art. 52 della Costituzione), ma la “tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario”. Contemporaneamente, all’art. 11 sul ripudio della guerra quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, si sostituisce il criterio degli “interventi militari per la gestione delle crisi” ovunque siano toccati gli “interessi vitali” del paese. Viene così enunciata, a livello istituzionale, una nuova politica militare e contestualmente una nuova politica estera, con funzioni contrarie a quelle stabilite dalla Costituzione. Una volta varato, il Nuovo modello di difesa passa di mano in mano, da un governo all’altro, dalla prima alla seconda repubblica, senza mai essere discusso in quanto tale in Parlamento. A elaborarlo e applicarlo sono i vertici delle forze armate, ai quali i governi lasciano piena libertà decisionale, pur trattandosi di una materia di basilare importanza politica per la Repubblica italiana.
Nel 1993 – mentre l’Italia sta partecipando all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia e al governo Amato subentra quello Ciampi (Dc-Psi-Psdi-Pli) – lo stato maggiore della difesa dichiara che “occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio” per difendere o-vunque gli “interessi vitali”, al fine di “garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici” (Stato maggiore della difesa, Aggiornamento del modello di difesa, 1993). Nel 1995, durante il governo “tecnico” Dini, lo stato maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che “la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale” (Stato maggiore della difesa, Modello di difesa, 1995). Nel 1996, durante il governo Prodi (Pds-Ppi-Lista Dini-Ud-Verdi), tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa. “La politica della difesa – afferma il generale Angioni – diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera”. Essa costituisce – secondo l’ammiraglio Mariani – una “fondamentale risorsa strategica” per “ciascun paese che intenda avere un ruolo internazionale e sostenere adeguatamente lo sviluppo della sua economia”. E il generale Arpino rafforza il concetto affermando che “il potere aereo potrà fornire un contributo di primo piano quale vero fattore di potenza, per garantire all’Italia quel peso politico che vor-remmo avere, ma che sinora non è stato ancora possibile vederci rico-nosciuto” (Informazioni della Difesa, suppl. al n. 4 1996).
Nel 1999 – dopo che il governo D’Alema (Ds-Ppi-Ri-Udeur-Verdi-Sdi-Pdci) ha fatto partecipare l’Italia, sotto il comando Usa, alla guerra contro la Jugoslavia – la marina militare annuncia che l’Italia è riuscita ad “affermare il suo ruolo di media potenza regionale nell’area euro-mediterranea con interessi economici e commerciali di carattere globale”. “Si può dunque parlare – dichiara – di un crescente e solido ruolo geostrategico dell’Italia nel “Mediterraneo allargato”: spazio geopolitico comprendente, oltre al Mar Nero, anche le vie meridionali di accesso al Canale di Suez e cioè il Mar Rosso fino allo Stretto di Bab el-Màndeb e, più oltre, il Golfo Persico che, attraverso lo Stretto di Hormuz, è intimamente collegato al sistema mediterraneo di rifornimenti energetici” (Marina militare italiana, Rapporto 1999). La decisione del governo Berlusconi (Fi-An-Ccd-Cdu-Lega Nord-Biancofiore) di mandare le forze armate italiane a combattere un’altra guerra sotto il comando Usa, a quasi 8mila chilometri dalle nostre coste, si inserisce quindi in tale sequenza.
Va qui detto che sul “Nuovo modello di difesa”, imposto contro la Costituzione da questo tacito accordo “bipartisan”, non è stata con-dotta in Parlamento e nel paese, neppure da parte di chi si è schierato contro, un battaglia politica adeguata alla pericolosità di tale progetto per le basi stesse della nostra democrazia. Né si è riusciti a collegare organicamente tale questione alle lotte per il lavoro e migliori condizioni di vita, dimostrando come la crescente spesa militare sottragga risorse preziose ai bisogni sociali.
Mentre tu parli di imperialismo, Toni Negri e Michael Hardt negano che esso ancora esista: secondo loro, vi sarebbe oggi un nuovo sistema, definito “impero”. Che cosa pensi di questa teoria?
Prima di rispondere penso che si debbano riassumere, a grandi linee, le argomentazioni che essi usano, nel loro libro Empire (Impero), per dimostrare che non esisterebbe più l’imperialismo ma un nuovo siste-ma che definiscono “impero”.
Mentre “l’imperialismo era una estensione della sovranità degli stati-nazione europei al di là dei loro confini”, – essi affermano – “l’impero non stabilisce alcun centro territoriale di potere e non si basa su frontiere o barriere fisse. È un apparato di dominio decentralizzato e deterritorializzante che incorpora progressivamente l’intera realtà globale”. Da ciò deriva che “gli Stati uniti non costituiscono il centro di un progetto imperialistico, né lo può costituire nessun altro stato-nazione”.
Sarebbe quindi terminato il “regime storico derivante dalla conqui-sta”. In altre parole, non esisterebbero più potenze imperialistiche che mirano alla conquista, sia in termini territoriali, sia in termini economici, politici e strategici. Non esisterebbero più, di conseguenza, rivalità interimperialistiche. E le stragi che vengono provocate quotidianamente dagli Stati Uniti e altre potenze – con l’aggressione militare diretta, con il sostegno a regimi dittatoriali, con gli strumenti economici che uccidono più delle armi – che cosa sarebbero? Sarebbero, secondo gli autori, solo la “pratica” di un sistema che aspira a “una pace perpetua e universale al di fuori della storia”.
Si tratta, a mio parere, di una costruzione teorica di cui la realtà di-mostra l’infondatezza. Come si può affermare che non esiste più “alcun centro territoriale di potere”? Basta ricordare, ad esempio, che le società capogruppo dei cento maggiori gruppi transnazionali – gigan-teschi conglomerati che dominano in tutti i campi dell’economia mondiale e le cui dimensioni economiche superano quelle di interi paesi – sono concentrate per il 95% negli Stati Uniti, in Giappone e in otto paesi dell’Europa occidentale, ossia in una decina di paesi che costituiscono il centro dell’economia mondiale. E come si può affermare oggi, di fronte alla guerra globale lanciata con l’operazione “Libertà duratura”, che gli Stati uniti “non costituiscono il centro di un progetto imperialistico”? Basta leggere il documento strategico del Pentagono, di cui abbiamo già parlato.
Nell’argomentare il concetto di impero, Negri e Hardt sostengono che esso “si presenta non come un regime storico derivante dalla conquista, ma piuttosto come un ordine che effettivamente sospende la storia e quindi fissa per l’eternità lo stato di cose esistente”. Essi sembrano ignorare che chiunque nella storia abbia costruito un impero – dall’antichità fino all’epoca moderna – lo ha concepito come destinato a durare per l’eternità in un regime di “pace”, la “pace” imposta dai conquistatori agli assoggettati. Infondata, penso, è anche l’affermazione, collegata alla precedente, che “l’impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma crea anche il mondo stesso in cui abita”. In realtà, chiunque nella storia abbia costruito un impero ha cercato non solo di amministrare territori e popolazioni, ma di creare un proprio “mondo”, imponendo il sistema politico, economico, sociale, giuridico, militare, culturale più idoneo alla conservazione dell’impero stesso.
Da questa teoria, gli autori ricavano una indicazione politica precisa: essi criticano la “strategia di sinistra” di “difendere il locale ed erigere barriere ai crescenti flussi di capitali”, definendola una “posizione lo-calistica falsa e dannosa”. Non si capisce però a quale “sinistra” si riferiscano: la loro critica, ad esempio, non può essere certo fatta a governi come quelli di D’Alema, Blair o Schröder, che si sono posti all’avanguardia nel demolire le barriere che ostacolavano l’integrazione dei loro paesi nel “mercato globale”.
“È meglio, sia sul piano teorico che pratico, – sostengono Negri e Hardt – entrare nel terreno dell’impero e confrontarsi con i suoi flussi di omogeneizzazione ed eterogeneizzazione in tutta la loro complessità”. Non si dovrebbe quindi opporre resistenza ai processi di globalizzazione, in quanto “la costruzione dell’impero rappresenta un passo avanti” rispetto alle precedenti strutture di potere, così come il capitalismo – insisteva Marx – è “migliore delle forme di società e dei modi di produzione precedenti”. “Il passaggio all’impero e i suoi processi di globalizzazione – concludono gli autori – offrono nuove possibilità alle forze di liberazione. […] Il nostro compito politico non è semplicemente resistere a questi processi, ma riorganizzarli e ridirigerli verso nuovi fini”.
Secondo tale concezione, si dovrebbe ad esempio non ostacolare ma sostenere il Fondo monetario internazionale quando abbatte le barriere ai flussi di capitali, favorendo i processi di globalizzazione per av-vantaggiare le economie più forti e i loro gruppi transnazionali, o l’Organizzazione mondiale del commercio, quando abbatte quelle barriere tariffarie che proteggono le economie più deboli dall’impari concorrenza commerciale delle economie dominanti. Si dovrebbe, in ultima analisi, costruire non movimenti anti-globalizzazione, ma movimenti pro-globalizzazione.
In realtà, le dure lotte popolari contro gli effetti della globalizzazione che si svolgono nelle varie parti del mondo non si basano (come sostengono gli autori) su “una strategia politica che comporta il ritorno al vecchio ordinamento”, ma si pongono in vari modi l’obiettivo di un generale cambiamento del sistema globale. Non praticano quindi una “falsa dicotomia tra il globale e il locale”, concependo quest’ultimo come una sfera separata dal resto: le lotte che si sviluppano sul piano locale scaturiscono dagli effetti locali della globalizzazione e affrontano questioni di carattere globale.
Quali sarebbero le conseguenze, se tale teoria venisse adottata?
La teoria di Negri e Hardt (che comincia ad avere seguaci anche nella sinistra) è, secondo me, deviante e smobilitante. È vero che l’odierna fase storica è caratterizzata da un sistema globale capitalistico, che pervade in varia misura l’intera realtà sia sotto il profilo economico che sociale e culturale. Ciò non significa, però, che sia un sistema decentralizzato. Esso è dominato gerarchicamente dalle oligarchie del centro dell’economia mondiale (Nord America, Europa occidentale e Giappone) e dalle loro emanazioni: i gruppi transnazionali che, basati nei paesi del centro, operano su scala globale con filiali e investimenti esteri per sfruttare le risorse umane e materiali dell’intero pianeta; gli istituti finanziari che dominano, con i loro capitali, il mercato mobiliare e creditizio mondiale; i governi che rappresentano, direttamente o indirettamente, gli interessi di tali oligarchie, e gli strumenti militari da loro usati per sostenerli; le organizzazioni intergovernative, come il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio, che funzionano da grimaldelli nelle loro mani per scardinare qualsiasi barriera ostacoli i loro interessi.
Queste oligarchie, pur avendo una base nazionale, non si identificano però con lo stato-nazione, ma se ne servono come sostegno economico, politico e militare ai loro interessi: la strategia di un gruppo transnazionale, ad esempio, non si basa sugli interessi nazionali del paese in cui ha la casa madre, ma sui propri interessi globali. In questo senso, un grande gruppo transnazionale è sostanzialmente apolide. Fra queste oligarchie esiste un rapporto fatto di rivalità e alleanze. Nell’uno e nell’altro caso, quelle che hanno come base uno stato militarmente potente si avvalgono di tale superiorità.
Ciò è avvenuto, ad esempio, quando, terminata la Guerra fredda, è caduta la motivazione della “minaccia da Est” che aveva mantenuta coesa l’Alleanza sotto l’indiscussa leadership statunitense: usando la loro superiorità militare, prima nel Golfo quindi nei Balcani, gli Stati Uniti sono riusciti non solo a rivitalizzare la Nato ma a rafforzare la loro leadership nei confronti degli alleati. Ora, con l’operazione “Li-bertà duratura”, essi cercano di andare oltre, imponendo un monolitico regime politico-militare globale sotto la loro leadership. Si infrange così contro la realtà la teoria di Negri e Hardt che, al “regime storico basato sulla conquista”, è subentrato “un apparato di dominio decentralizzato” – “l’impero” – e che “gli Stati uniti non costituiscono il centro di un progetto imperialistico”.
Seguire tale teoria significherebbe perdere di vista quello che è oggi l’obiettivo principale: costituire il più vasto fronte mondiale per impe-dire che l’imperialismo statunitense realizzi tale progetto. Significherebbe non capire che tale progetto costituisce la punta di lancia di una strategia complessiva, attraverso cui le forze dominanti del sistema capitalistico globale (non solo quelle statunitensi) cercano di instaurare un regime che impedisca cambiamenti sociopolitici tali da mettere in discussione l’ordine attuale.
Nella scomparsa dell’Urss, molti avevano individuato il venir meno della contrapposizione Usa-Urss e quindi l’avvio di un periodo di pace su scala mondiale. La storia del decennio trascorso dalla fine dell’Urss ha invece dimostrato il contrario. Quale fase si è a-perta, secondo te, con il crollo dell’Unione Sovietica?
L’idea che la scomparsa dell’Urss e del campo socialista potesse aprire un’era di pace era assolutamente infondata e pericolosamente illusoria. Eppure ha conquistato la stragrande maggioranza, anche nella sinistra. Molti si sono lasciati ammaliare dalla retorica idealistica del “distensionismo”, seminata a piene mani per addormentare le coscien-ze. Non hanno quindi colto il significato storico della digregazione dell’Unione sovietica, del dissolvimento del Patto di Varsavia e del Comecon, della crescente reintroduzione in Cina del capitalismo e di fenomeni analoghi: quello di una sconfitta, il fallimento della prima grande esperienza di costruzione di un’alternativa al capitalismo.
Tale esperienza resta comunque una delle tappe fondamentali nella storia dell’umanità. La critica distruttrice condotta contro di essa, con l’argomento che l’Unione sovietica o la Cina non avrebbero mai realizzato niente che potesse essere definito alternativo al capitalismo, ma solo varianti del capitalismo stesso, non ha alcun fondamento storico.
Detto questo, bisogna però fare un serio bilancio storico per indivi-duare le cause interne che hanno portato al fallimento del socialismo negli specifici contesti nazionali. Anche se tale bilancio è ancora lar-gamente incompleto, si può individuare quella che quasi certamente è stata la principale causa interna.
Nei paesi socialisti, la centralizzazione politica ed economica si è tradotta in gestione burocratica. Ciò ha impedito di realizzare l’obiettivo storico della graduale abolizione delle differenze di classe, poiché in queste società si è riprodotta, pur in tempi e modi diversi da paese a paese, una minoranza privilegiata: uno strato di burocrati che ha gestito il potere per se stesso e non per il popolo che diceva di rappresentare. Tendendo a conservare e riprodurre se stesso, esso ha soffocato il rinnovamento delle relazioni sociali e, allo stesso tempo, ha rallentato lo sviluppo delle forze produttive con una gestione burocra-tica dell’economia che ha provocato sprechi e inefficienze.
In questa fase storica, il capitalismo è dunque uscito vittorioso dal confronto col socialismo. La realtà dimostra, però, che il sistema capitalistico porta spontaneamente, per le stesse leggi economiche che lo governano, a favorire la soluzione di un problema a scapito di un altro, il vantaggio immediato piuttosto che quello a lungo termine, l’interesse di una oligarchia invece che quello della maggioranza. In un mondo sempre più interdipendente, esso crea crescenti squilibri – sia nei rap-porti sociali, sia nel rapporto uomo-ambiente – che ci stanno portando verso situazioni catastrofiche.
Quale può essere la prospettiva?
La questione di fondo che si pone con ancora maggiore urgenza è, a mio parere, se possa esistere un sistema socioeconomico diverso da quello attuale e quale possa essere.
Occorre “resuscitare” l’idea della nuova società di liberi ed eguali. A coloro che giudicano questa idea utopistica e massimalistica e ci ri-chiamano alla “concretezza” della lotta politica, possiamo rispondere: non ci può essere alcun reale passo avanti nella lotta politica, se non ci si prefigge una mèta storica. Senza un grande progetto di cambiamento, ogni lotta quotidiana, anche quando è vittoriosa, esaurisce la sua spinta senza contribuire alla costruzione dell’alternativa.
Ciò non significa sottovalutare la lotta quotidiana per rendere meno duro lo sfruttamento capitalistico: significa inquadrarla in una grande progetto di cambiamento della società. Ad esempio, di fronte al pro-cesso di privatizzazione che sta sottraendo a qualsiasi forma di con-trollo democratico i settori fondamentali per la società, non basta op-porsi di caso in caso. Occorre contrapporre un progetto complessivo, basato sul concetto che le attività fondamentali devono essere non di proprietà privata ma di proprietà collettiva (sia statale ai vari livelli, sia in forme cooperative) e gestite con sistemi e metodi realmente democratici che ne garantiscano l’uso sociale nell’interesse della collettività. Occorre riproporre con chiarezza e decisione l’obiettivo storico, di cui non si parla quasi più, dell’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
La necessità di tale progetto scaturisce non dalla mente di pochi co-munisti nostalgici, ma dalla pratica di tutti coloro che ovunque nel mondo subiscono le conseguenze della globalizzazione capitalistica, di tutti coloro che si ribellano allo sfruttamento e all’ingiustizia: è il progetto di un nuovo ordine democratico mondiale, il progetto di globalizzazione della giustizia sociale.