La guerra contro l’Afghanistan e il nuovo quadro internazionale

I tragici avvenimenti dell’11 settembre e l’avvio dell’operazione “Giustizia Infinita” con la guerra in Afghanistan, hanno aperto, quantomeno secondo la vulgata che va per la maggiore, in maniera brusca e quasi improvvisa, una nuova fase della politica mondiale e degli assetti geopolitici internazionali. In realtà sul tuo libro “Afghanistan. Anno zero” (precedente, è bene ricordarlo, ai fatti che stiamo analizzando), vengono individuati elementi che già da tempo erano latenti e che facevano presagire un ritorno dell’Afghanistan, dopo oltre dieci anni, sotto i riflettori mondiali della politica.

La storia di questi ultimi mesi va guardata secondo due prospettive, quella della rottura e quella della continuità. L’esperienza in Afghanistan mi consente di affermare che i segni di una crisi in questo paese erano evidenti da tempo e bisognava essere ciechi per non vederli. E’ impossibile negare che il territorio controllato dal regime dei talebani non fosse diventato un covo di terroristi. Sotto il controllo e la protezione di Kabul, negli ultimi anni, si sono insediati non solo gli uomini di Al Qaeda, ma spazio hanno anche avuto i fondamentalisti islamici ceceni e tagiki, gli uzbeki del Miu (Movimento islamico dell’Uzbekistan) e il Partito Islamico di Liberazione della Kirghizia. Tutte queste forze, muovendosi in maniera certamente non invisibile ma sicuramente molto discreta, hanno posto in essere un vero e proprio monopolio delle armi. Un elemento di novità, indubbiamente, ma una novità, come dicevamo sopra, nella continuità. Ciò, infatti, è stato possibile non solo grazie ai talebani; questo tipo di situazione si è venuta sviluppando sotto tutti i governi afghani degli ultimi dieci anni, all’indomani della sconfitta dei sovietici. La stessa Al Qaeda e i talebani rappresentano due componenti inscindibili della politica estera degli Stati Uniti nelle regioni dell’Asia centrale. In particolare, proprio Al Qaeda, non rappresenta altro che il risultato finale di oltre 200.000 mujaheddin afghani e pakistani finanziati, armati e materialmente guidati dagli Stati Uniti contro i sovietici e dei quali Osama bin Laden, agente della Cia, né fu nientedimeno che l’organizzatore. Finita la guerra e sconfitti i sovietici, in un Afghanistan che sembrava normalizzato, in realtà iniziava un forte periodo di instabilità; all’origine la sanguinosa guerra tra le diverse fazioni dei mujaheddin che mandava in frantumi la coalizione antisovietica. Le armi non mancavano: l’immenso arsenale lasciato non solo dall’Urss e dagli Stati Uniti, ma anche da Cina, Arabia Saudita, Egitto e Turchia, si estendeva a macchia d’olio, superando anche i confini afghani e raggiungendo il Pakistan prima, e le centrali del terrorismo mondiale poi. Nel frattempo l’Urss andava in pezzi ed emergevano nuove potenze regionali dalle ex-repubbliche sovietiche. In questo contesto l’Afghanistran risvegliava vecchi e nuovi appetiti.

Ti riferisci al nuovo quadro geopolitico che si è delineato in Asia centrale, sullo scenario del Caspio, del Tagikistan, dell’Uzbekistan, del Turkmenistan, delle nuove vie della droga e del petrolio…

Esattamente. Questi sono i parametri per misurare l’azione politica degli Stati Uniti lungo il corso degli anni ’90. La comprensione degli avvenimenti succedutisi in questa area nei primi anni dell’era post sovietica, ci consente di capire e di dare risposte a molti quesiti odierni, risposte che il sistema mediatico mondiale non ci fornirà mai. E’ importante non dimenticare che questa già di per sé complessa situazione, diviene ancor più intricata se consideriamo il raggio d’azione di tutti i singoli soggetti. Ma andiamo per ordine. La scomparsa dell’Urss porta alla nascita degli Stati che sopra citavi, più il Kazachistan e la Kirghizia leggermente più a nord e ugualmente interessati al processo di riassetto della regione. Indubbiamente questi sono Stati non democratici, ma essi guardano all’Occidente e soprattutto agli Stati Uniti, come modelli. I circoli dirigenti parlano russo e alla nuova Russia sono legati dalla stretta somiglianza delle strutture socioeconomiche. A dividerle dall’ex madre patria russa sta invece la competizione per la rincorsa ai grandi capitali occidentali. La toponomastica gioca qui un ruolo decisivo. Tutte prive di sbocchi sul mare esse sono costrette ad appoggiarsi sui porti russi quando potrebbero usufruire di quelli ben più vicini dell’Oceano Indiano via Afghanistan. I primi a capire e a mobilitarsi su questo fronte sono i pakistani che intensificano il dialogo con le nuove repubbliche, esplicitando concretamente la loro volontà di porsi nel ruolo di gestori dell’ordine e della sicurezza delle nuove vie tramite l’uso di proprie milizie. E’ qui che entra in scena per la prima volta un gruppo , che si fa chiamare taliban, come strumento dei pakistani volto a quello scopo.

Quindi i talebani sembrano essere una componente di un gioco ben più vasto di quello comunemente assegnato loro…

La stampa pakistana li definisce “studenti”, studenti del Corano. Essi vengono reclutati nelle madrassas, le scuole coraniche guidate da mullah fanatici ed ignoranti, dalle miserrime tendopoli di Peshawar. Generalmente sono figli di contadini cresciuti in condizioni di brutale povertà e sempre in costante ricerca di cibo. Sono migliaiae migliaia, un potenziale esercito. L’idea, indubbiamente geniale, fu quella di trasformare le madrassas in centri di formazione polivalenti. Essa fu partorita dai commercianti di droga pakistani, che si resero conto ben presto di come la guerra dei warlords locali aumentasse costi e rischi del lucroso traffico di oppio grezzo verso occidente sotto l’ombrello della Cia. Stime ufficiali dei profitti di questo mercato parlano di cifre vertiginose. I talebani rappresentavano un ottimo antidoto alle milizie dei mujaheddin.

Posta in questo modo la questione, sembra difficile comprendere in che modo i talebani possano aver conquistato il potere.

No, se si comprende la profonda trasformazione che investe le madrassas. Il leggero miglioramento della qualità della vita, un pur minimo avanzamento dei livelli di alfabetizzazione (si contano circa una decina di giovani alfabetizzati su un gruppo di tre-quattrocento allievi) e l’avvio di un processo di istruzione militare da parte dell’esercito pakistano e, soprattutto, dall’Isi, il suo servizio segreto, hanno posto le basi materiali per lo sviluppo delle loro forze. Ma questo non è sufficiente a spiegare la loro inarrestabile ascesa. Non si può dimenticare il doppio filo a cui è legata la “diplomazia” dei talebani, quella con Islamabad e quella con i warlords.
La prima, materializzatasi con una programmazione di interventi economici e politici in collaborazione con l’Isi e che hanno di fatto permesso l’accesso dei talebani ai sistemi informativi pakistani, incluso quello satellitare messo a disposizione dalla Cia negli anni della resistenza all’invasore sovietico. La seconda, ancor più importante, si è articolata tramite una politica di dialogo con le diverse fazioni di mujaheddin. E’ oramai assodato come i talebani abbiano conquistato grandi fette di territorio senza nemmeno combattere, comprandosi letteralmente uno ad uno ogni singolo warlord.

Dicevamo del riassetto geopolitico dell’Asia centrale dopo il crollo dell’Urss lungo le vie della droga e del petrolio. La partita, tutt’altro che regionale, nel tuo libro è stata definita globale. Infatti, nel gioco rientrano gli interessi soprattutto degli Stati Uniti e degli stessi sauditi.

Evidentemente. L’azione pakistana volta, come dicevamo, ad un’azione di controllo sui traffici dalle ex repubbliche sovietiche all’Oceano Indiano è tanto più chiara se consideriamo che l’Iran (ora con l’assenso di Mosca) aveva cominciato a firmare una serie di accordi di transito con le ex repubbliche sovietiche della Comunità degli Stati Indipendenti. Si prefigurava in tal modo una via alternativa ai traffici dell’Asia centrale attraverso l’Iran e l’India. Questa opzione allarmò in primis Washington, ma non certo di meno Rijad. Per i primi il materializzarsi di questa ipotesi avrebbe significato una débacle strategica a 360°. Innanzitutto avrebbe rischiato di far rientrare sotto il controllo iraniano i flussi petroliferi del bacino del Caspio che, tanto per dare il senso delle dimensioni, rappresenterà negli anni a venire l’area di maggiore importanza strategica per tutto il settore energetico. Anche qui è bene ricordare con un occhio al calendario, che siamo nella prima metà degli anni ’90 e l’Iran rappresenta ancora il nemico principale. Non di minore importanza sarebbe l’ineluttabile perdita di influenza degli Stati Uniti sui Paesi del Csi, conseguenza immediata dell’apertura di questa nuova via. Come non da meno sarebbe il danno rappresentato da un restringimento dei margini d’azione verso la Russia (connivente con il piano di Teheran) e l’India. Per l’Arabia Saudita, se possibile, il concretizzarsi di una simile ipotesi avrebbe comportato ripercussioni ancor più gravi. Non è un mistero che il regime degli ayatollah in Iran si era da tempo candidato a Stato leader del mondo islamico in contrapposizione a Rijad mentre quest’ultima appariva sempre più screditata proprio agli occhi di quel mondo in virtù della sua alleanza con l’infedele americano. La necessità di rilanciare la propria immagine nel mondo islamico e la lotta per l’egemonia al suo interno sono state durante tutto il corso degli anni ’80, il filone di interesse che ha portato l’Arabia Saudita ad appoggiare in maniera sostanziosa la guerra contro l’Urss dei mujaheddin. Nuovo lustro alla casata reale e, decisamente più importante, la costruzione di uno Stato islamico sunnita in Afghanistan, fondamentalista al pari degli sciiti iraniani, ma fortemente condizionabile dai cospicui capitali sauditi, hanno guidato l’azione di Rijad in questi ultimi due decenni.

E’ in questo momento, dunque, che gli interessi diversi per le riserve di petrolio e gas del bacino del Caspio esplodono…

Per l’appunto. I primi ad arrivare in zona furono quelli della Chevron, fortemente sostenuti dal Governo americano e appoggiati dal presidente kazako Nazarbajev. Ora il problema non era costituito tanto dalla fase estrattiva, quanto da quella della distribuzione e quindi dalla costruzione delle infrastrutture. La progettazione di gasdotti e oleodotti poneva interrogativi di natura politica, economica e diplomatica. Il primo nome ad emergere fu quello di Carlos Bulgheroni, un italo-argentino presidente della Bridas, una compagnia petrolifera argentina. Bulgheroni intuì che il Turkmenistan era la chiave di volta per aprire i rubinetti del Caspio in direzione del Golfo Persico. Il trattato firmato con il presidente turkmeno Nijazov prevedeva l’esclusiva dei diritti di estrazione del giacimento turkmeno di Yashlar, al confine afgano e il 50% degli introiti. Da questo trattato la Russia era out, del resto sia Nijazov che gli americani volevano che la Russia perdesse la sua presa residua sull’area. La vera svolta arriva tra il ’91 e il ’94 quando prende corpo il progetto di una pipeline che attraverso l’Afganistan potrebbe portare gas e petrolio da Yashlar alle sedi di stoccaggio delle riserve energetiche pakistane. In Afganistan in quegli anni infuria la guerra tra i mujaheddin. Bulgheroni incontra tutti i warlords, a tutti promette dividendi cospicui e chiede loro di garantire che la costruzione dell’oleodotto non sia impedita e che una volta terminato esso non divenga oggetto di dispute e di ricatti. Ma il costo dell’operazione è alto e occorrono altri capitali; è in questa sede che entra in gioco la compagnia petrolifera Unocal, il cui consulente principale è niente meno che Henry Kissinger. La situazione evolve in fretta, fatti i suoi calcoli Nijazov conviene che sia molto più utile per lui coinvolgere direttamente gli Stati Uniti di cui la Unocal è espressione che spartire il bottino anche con Bulgheroni che viene scaricato nell’ottobre ’95. Nijazov firma due contratti con la Unocal (che a sua volta associa Delta Oil Company, di proprietà della famiglia reale saudita). I contratti prevedono la costruzione rispettivamente di un gasdotto e di un oleodotto attraverso l’Afganistan. Nella presentazione del progetto viene esplicitamente dichiarato che “uno dei maggiori ostacoli alla sua realizzazione è l’instabilità politica in Afganistan, ed è di fondamentale importanza che si costituisca un organismo unico capace di rappresentare tutto l’Afganistan”. E’ in questo preciso momento che il progetto di Islamabad di prendere il controllo definitivo sull’Afganistan e di trasformarlo in protettorato, riceve l’assenso sia dagli Stati Uniti, sia dall’Arabia Saudita. Ciò verrà, come detto in precedenza, tramite il profondo mutamento delle madrassas e con l’artificiale formazione dei talebani.

Possiamo affermare che, alla luce dei fatti, questa ipotesi di ridefinizione degli equilibri e dei rapporti di forza nella regione – ipotesi guidata dagli Stati Uniti – sia naufragata con l’avvio delle operazioni militari contro il regime di Kabul ?

Si, anche se attorno al fallimento della costruzione di una sorta di protettorato in una regione definita nei documenti ufficiali “area di interesse strategico”, è carica di implicazioni che la rendono ben più complessa di quanto potrebbe sembrare. Innanzitutto il primo dato, il più evidente, è l’affondamento dell’Afghanistan. Da Kabul a Kandahar questo Paese è un cumulo di macerie. E’ del tutto evidente che le responsabilità vanno assegnate a tutti quei soggetti che da venti anni, ma con una intensificazione in questi ultimi dieci anni, sono stati presenti in questo scenario. Come è insindacabile il fatto che una vera classe dirigente non è stata creata. La spinta verso l’analfabetismo generalizzato è divenuta pratica di governo. I talebani non hanno ricostruito nulla. Un Afghanistan così non è servito a nessuno: né al Pakistan, dove seppur il traffico della droga è sempre fiorente, i suoi proventi hanno finito per divenire l’unico motore della sua economia, né agli Stati Uniti, dove i vari governi pur non avendo mai riconosciuto il regime dei talebani, impresentabile nel consesso internazionale, hanno sempre tentato di stabilire buoni contatti. Il progetto Unocal-Delta Oil rimane irrealizzabile. Problemi sono sorti anche per la Russia e le altre repubbliche ex-sovietiche, alle prese con le rispettive opposizioni islamiche logisticamente assistite da Kabul. Che gli Stati Uniti non potessero più sostenere il regime dei talebani era già evidente quando iniziai a scrivere il mio libro, ciò anche in virtù di una nuova, timida, apertura verso l’Iran di Khatami. E’ fuori da ogni dubbio che perdere l’appoggio degli Stati Uniti per i talebani avrebbe significato la fine. E questo è quello che è accaduto.

Ma altrettanto evidente è che ben poco ha a che fare la lotta al terrorismo internazionale…

Certo. Tutta la storia della presenza americana in Afghanistan deve essere letta come la continuazione della loro politica espansionista. Ma l’11 settembre, a mio modo di vedere, non costituisce tanto una rottura quanto un’accelerazione, o almeno una rottura nella misura in cui il succedersi degli eventi mondiali cambia marcia. A tutto ciò non è estranea la grave recessione che ha colpito l’economia americana. Anche a questo epilogo non si è giunti in maniera improvvisa. I segni erano evidenti già dalla seconda metà degli anni ’90, ma è il 2000 l’anno della svolta: la globalizzazione così come concepita fino a quel momento entra in crisi, ed è una crisi che colpisce le economie occidentali ed in particolare quella americana. Greenspan è uno dei primi ad intuire come si evolvono le dinamiche. Egli capisce che quella che si è andata per anni espandendo non è altro che una bolla speculativa del tutto estranea all’economia reale. Ma non è solo lui ad accorgersene, lassù, sul ponte di comando qualcuno sapeva, e chi sapeva in questi ultimi anni ha sempre sperato in quello che più volte è stato definito “un atterraggio morbido”.
L’atterraggio morbido non c’è stato, al suo posto abbiamo avuto l’11 settembre.

Un contesto inedito, dunque. Ma qual è allora l’assetto che si va prefigurando?

La crisi che ha colpito gli Stati Uniti nella seconda metà di anni ’90 non è stata soltanto di ordine economico. Ad essa si è accompagnata anche una perdita di egemonia tecnologica e culturale. Ora la ripresa e il rilancio dovranno passare inevitabilmente per la costruzione di nuove forme di influenza e potere. La parola d’ordine è sostituire l’oramai tramontata forma di egemonia con cui gli Stati Uniti hanno allargato il loro raggio d’influenza su scala globale, con un’altra più consona alle nuove esigenze della globalizzazione. Come dicevo sopra, nel 2000 quando la globalizzazione entra in crisi, chi negli Stati Uniti sapeva comprende che i vecchi schemi non funzionano più e conclude che i tempi sono maturi per un nuovo approccio nella gestione dei rapporti internazionali. Un approccio che non può che basarsi sull’unica prospettiva in cui gli Stati Uniti sono ancora egemoni, quella dello strapotere militare. Lo sviluppo di questa forma di dominio è la faccia della nuova globalizzazione. Ciò comporta l’estinzione dei trattati internazionali come strumenti di regolazione delle controversie e degli assetti internazionali, affermando la primazia della forza. Si sviluppa il keynesismo di guerra come modello di sviluppo economico.

Ma per compiere una ristrutturazione simile tramite l’uso della forza militare, non è sufficiente il volerlo . E’ necessario convincere l’opinione pubblica, e per farlo, si deve costruire il terreno su cui agire attivando gli strumenti e le risorse di quella che Chomsky ha definito la fabbrica del consenso, in pratica tutto l’armamentario che durante lo scorso secolo ha agito per oltre un cinquantennio contro il nemico sovietico e negli anni ’90 contro Saddam Hussein prima e Slobodan Milosevic, poi.

Si, anche se la portata dello scontro odierno, paragonato a quelli dell’ultimo decennio, è di natura ben diversa e superiore. Là si compivano azioni di carattere regionale, oggi è in gioco il futuro del mondo. Ed è proprio per l’entità di questo piano che, effettivamente, si è dovuto artificialmente costruire uno scontro ideologico di proporzioni inedite e, se vogliamo, per certi versi addirittura superiore a quello che per decenni ha contrapposto gli Stati Uniti all’Urss, il capitalismo al socialismo reale.
Qualcosa che sconvolgesse le coscienze mondiali, uno scontro colossale, una guerra di civiltà, qualcosa di tremendamente spaventoso. E che cosa può spaventare talmente tanto il mondo intero, tanto da avallare provvedimenti che mettono a rischio la stessa sopravvivenza del genere umano, se non il fattore religioso.
Lo scontro ideologico tra Est e Ovest rimase in ogni caso all’interno della civiltà cristiana. Oggi la contrapposizione è con l’Islam, una religione ed una civiltà diversa dalla nostra, e i musulmani sono oltre un miliardo e trecento milioni sparsi su tutta la superficie terrestre. Cosa ci spetta alla fine non possiamo saperlo.

Lo schema che qui delineiamo è indubbiamente funzionante e pienamente corrispondente allo stato di cose oggettivo. In ogni caso è una realtà il fatto che l’11 settembre il Pentagono e le Twin Towers di New York siano stati colpiti dal terrorismo dei fondamentalisti islamici, o no?

Quello dell’11 settembre è il più classico esempio di terrorismo di Stato. Coloro, e sottolineo il plurale, che hanno agito in quell’operazione rispondono a più e diversificati interessi interagenti tra loro. Esistono terrificanti indizi che provano la multilaterale azione dei servizi segreti, deviati e non, dei pakistani, dei sauditi, del Mossad e della Cia, una cupola segretissima, una formidabile organizzazione che ha eterodiretto tutta l’operazione e di cui gli Stati Uniti sono stati garanti.

Ma gli altri poli imperialisti mondiali, penso all’Europa e al Giappone, che ruolo hanno o avranno in questo nuovo ordine?

Gli Stati Uniti hanno all’ordine del giorno della propria agenda la conquista del mondo e la loro forza relega gli antagonisti internazionali in ruoli subordinati. Il Giappone è già stato messo economicamente in ginocchio e da dieci anni è fermo. Il vero ostacolo alla realizzazione dei propri progetti, gli Stati Uniti lo hanno trovati nell’area dell’Euro. Finché l’economia americana ha tirato, un’Europa in crescita è rimasta a lungo un problema secondario. Nel momento in cui tale situazione ha cessato di esistere, gli Stati Uniti si sono adoperati immediatamente a trasformare l’Europa da concorrente a vassallo, mediante, guarda caso, due guerre: quella del Kossovo e quella odierna. Sintomatica è l’espressione che Brezinsky ebbe ad usare nel ’99 alla conclusione del conflitto contro la Jugoslavia: “L’Europa è tornata ad essere un’entità geografica”.

E’ innegabile però, che Russia e Cina rimangano oggettivamente soggetti conflittuali al nuovo ordine che si va delineando. Tra l’altro, in parte, ciò è emerso nella costituzione della stessa “Grande Alleanza” mondiale contro il terrorismo messa in piedi dagli Stati Uniti, un’alleanza che sembra poco credibile ad un’analisi più attenta delle motivazioni che hanno portato i diversi soggetti statuali ad unirsi…

La Cina rappresenta indubbiamente il nuovo nemico per gli Stati Uniti. La Cina è a tutt’oggi l’unico Stato nazionale che può prendere autonomamente delle decisioni senza chiedere niente a nessuno. Nell’arco di un ventennio, o forse anche meno, la Cina diverrà un nemico temibile per gli Stati Uniti. Per quello che riguarda la “Grande Alleanza” contro il terrorismo è bene chiarire subito un equivoco che rischia di indurre a pesanti errori di valutazione: essa, semplicemente, non esiste. La Cina ha appoggiato, peraltro in maniera non troppo convinta e senza impegni particolari, l’ingerenza statunitense in Asia centrale esclusivamente per i propri interessi. Questo le permetterà di avere mano libera in Tibet e nello Xijang, la regione al confine afghano a maggioranza musulmana, che negli ultimi anni ha le dato alcuni problemi (anche se di modesta entità). Per la Russia il discorso è più complesso. Essa è oggi estremamente debole e Putin di questo ne ha piena coscienza. Dopo l’11 settembre i colloqui tra lui e Bush si sono fortemente intensificati fino a giungere ad una vera e propria trattativa ravvicinata. Come ovvio, anche Mosca, come Pechino, intende trarre quanti più vantaggi possibili da questa operazione. Operazione che comporta per la Russia rischi ancor maggiori rispetto ai cinesi. Putin ha giocato le sue carte mettendo sul piatto della bilancia la conservazione del trattato Abm del ’72, l’ingresso della Russia nella Nato nell’ambito dell’espansione ad est dell’Alleanza, la rinegoziazione del proprio debito e la gestione comune della politica in Asia centrale. I russi hanno ricevuto piena soddisfazione per ciò che concerne il loro ingresso nella Nato. D’altra parte gli Stati Uniti sanno bene che questa consiste soltanto in un’operazione di facciata, poiché non solo in futuro, ma già da oggi, la stessa Nato sembra sempre più esautorata dalla loro strapotenza militare. Un punto a loro favore i russi lo hanno segnato anche nella questione dell’Asia centrale. Sul petrolio del Caspio Putin non ha voluto transigere, arrivando a disegnare le aree di influenza di questa nuova Yalta asiatica. Nell’orbita americana dovrebbero rientrare l’Uzbekistan, l’Azerbaijan, il Turkmenistan e la Georgia, sotto quella russa resterebbero il Tagikistan, la Kirghizia e il Kazachstan. Dove Putin, prevedibilmente, non ha potuto cogliere successi, è stato sul trattato Abm, tanto più che sembra che dal Cremlino sia già stata varata la rincorsa al riarmo con missili di nuova generazione. Per il resto i grandi vassalli asiatici di Washington sono alle prese con gravi crisi politiche interne che rendono esplosive le rispettive situazioni all’interno dei loro confini. La verità che emerge è quella che, lungi da avere ai propri piedi più di mezzo mondo, gli Stati Uniti oggi si trovano ad essere il Paese più potente al mondo ma estremamente isolato.

Quali sono le prospettive di lotta e gli strumenti da impiegare per contrastare il completamento di un quadro internazionale “ orwelliano”?

Allo stato attuale delle cose quello che oggi risulta, a mio modo di vedere, di vitale importanza è la costruzione di una nuova teoria. E’ questo lo strumento più importante che oggi ci manca, una teoria per capire le dinamiche secondo le quali il mondo si evolve. Lo stesso Marx non è più sufficiente; ciò è dovuto al fatto che Marx ha vissuto nella seconda metà dell’ottocento e semplicemente non poteva neanche immaginarsi il mondo del XXI secolo, un mondo guidato dall’elettronica, dalla telematica, dalle comunicazioni in tempo reale. Di Marx dobbiamo, al contrario, riprendere e preservare la metodologia d’analisi, uno strumento dall’insuperata precisione.
Come lottare? Noi disponiamo, diversamente dal passato, di uno straordinario potenziale intellettuale; questo deve essere messo in condizione di svilupparsi e di agire attraverso la costruzione di un movimento di lotta su scala mondiale.
All’ordine del giorno, per tutti i popoli del mondo, c’è l’opposizione alla guerra.; essa rappresenta oggi, per come si delinea su scala planetaria, il possibile affossatore della civiltà umana, il cavallo di Troia della barbarie. La guerra deve rappresentare per tutti noi il principale nemico.