La Germania, la guerra, le elezioni

La vittoria della coalizione Spd-Verdi nelle recenti elezioni ha evidenziato il ruolo strategico della Germania nell’equilibrio dei paesi e delle forze che agiscono nel campo dell’imperialismo. Se da un lato la campagna elettorale si è mostrata povera di opzioni strategiche in tema di alternative al liberismo e di crisi economica mondiale, dall’altro la presa di posizione di socialdemocratici e verdi contro la guerra contro la guerra all’ Iraq ha catalizzatolizzato il consenso degli elettori, ribaltando i pronostici delle ultime settimane. La chiave di volta che ha permesso alla coalizione di governo di recuperare su un terreno diverso il consenso perso a causa delle politiche economiche e sociali liberiste, è stato senza dubbio il “no” alla guerra. D’altra parte, la ricollocazione della Spd e dei Verdi non ha certo carattere strategico (in senso pacifista) e sarebbe rischioso enfatizzare la svolta come si trattasse di una nuova propensione antimperialistica. Ad una più attenta analisi emergono conflitti di natura economica tra i maggiori paesi europei, alla cui testa si trova la Germania, che hanno già contratto importanti accordi per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Iraq (incluse le prospettive di profitto delle imprese coinvolte nel trasporto e nella trasformazione del petrolio), che entrano in contraddizione (tipicamente inter-imperialistica) con gli Stati Uniti, interessati ad abbattere il regime di Saddam Hussein per vanificare quegli accordi e ottenere il controllo del petrolio irakeno. Non vi sono, quindi, elementi certi per prevedere quanto resisterà il governo tedesco di Schroeder-Fisher sulla posizione di contrarietà alla guerra. Molto dipenderà dal modo in cui evolveranno i rapporti di forza nella competizione globale geopolitica ed inter-imperialistica. E dalla capacità di mobilitazione popolare e di lotta delle forze autenticamente pacifiste e progressiste di influire sulla politica del governo, in un contesto in cui l’opinione pubblica tedesca resta comunque, nella sua grande maggioranza, ostile alla guerra (con o senza copertura Onu).
Per quanto riguarda, invece, lo scenario politico e parlamentare il rifiuto della guerra ha comunque prodotto nuovi equilibri. Da una parte, la sconfitta delle forze più conservatrici guidate dal candidato della Cdu-Csu Stoiber. Dall’altra, un arretramento sensibile della Pds, che si è vista sottrarre una parte di consensi, proprio sul tema della guerra, da socialdemocratici e verdi – protagonisti ieri, è bene ricordarlo, dell’aggressione della Nato contro la Jugoslavia.
In particolare, la Pds esce sconfitta dalle elezioni, scende dal 5,1% al 4% e perde la presenza nel Bundestag con un proprio gruppo parlamentare. All’interno del Partito del socialismo democratico si è aperta una discussione sulla linea finora assunta dal gruppo dirigente egemone. Tra le cause della sconfitta elettorale viene anzitutto chiamata in gioco l’incapacità di incidere sulle politiche economiche e sociali nei Lander (regioni con ampi poteri nell’ambito dello Stato federale) dove la Pds era al governo insieme ai socialdemocratici (o dava loro un sostegno esterno), e dove avrebbe rivelato una certa “arrendevolezza” di fronte a strategie liberiste e a misure contrarie agli interessi dei lavoratori.
E’ principalmente su questo aspetto che va formandosi nel partito, attorno alla presidenza di Gabi Zimmer, una nuova maggioranza politica e programmatica “di sinistra”, ideologicamente eterogenea, che va dal Presidente onorario Hans Modrow all’area del “Forum marxista”, alle componenti eco-pacifiste più radicali, fino all’area della piattaforma comunista (marxista-leninista), da sempre critica della evoluzione “socialdemocratica” del partito (ed una crescente perdita di influenza dell’ala più moderata e “riformista”, che fa capo a Gregor Gysi). In un intervento pubblico all’indomani delle elezioni, alcuni esponenti della “piattaforma” hanno sintetizzato così la loro analisi: “Il non ingresso della Pds nel Bundestag mette a rischio l’esistenza stessa del partito. La sua scomparsa sarebbe un trionfo per i reazionari di ogni colore… La sconfitta elettorale ha sicuramente molte cause, non da ultimo il fatto che molti hanno preferito dare il voto ai socialdemocratici anzichè alla Pds, per impedire una vittoria di Stoiber. Ma questo non basta a spiegare la nostra sconfitta. Il punto centrale è che un partito socialista non deve sostenere coalizioni di governo anche regionale, che promuovono misure contrarie agli interessi popolari, salvo poi dover pagare prezzi altissimi in termini di consenso tra la sua gente”.
Di questo quadro complesso della situazione tedesca, in cui si intrecciano crisi economica, venti di guerra e gravi difficoltà per la Pds, abbiamo parlato con Heinz Stehr, presidente della Dkp, il partito comunista tedesco.

Qual è il quadro politico all’indomani delle elezioni?

Le elezioni per il Bundestag dimostrano che i rapporti numerici in parlamento sono labili, allo stesso modo di quelli economici e politici. Questo ha impedito quel cambio di personale voluto da gruppi di interesse molto influenti tra gli imprenditori, dalla Cdu-Csu e dai liberali della Fdp, che miravano a marcare una svolta politica in senso reazionario. Se questo non è accaduto è per via del cambiamento di posizione dei socialdemocratici e dei verdi sulla guerra all’Iraq e di un riavvicinamento più visibile con i sindacati. Gli sviluppi futuri mostreranno quanto durerà questa posizione.
Le elezioni hanno confermato la precedente coalizione “rosso-verde”, ora si tratta di rafforzare l’opposizione alla guerra e allo smantellamento della democrazia e dello Stato sociale. Anche se Stoiber ha perso, il consenso elettorale che ha ottenuto la destra è inquietante. La sua crescita in voti è stata favorita dalle scelte del governo Schröder-Fischer, che ha portato avanti, negli aspetti essenziali, la politica di Kohl. Le aspettative degli elettori di un’altra politica, di una riduzione più consistente della disoccupazione, del miglioramento delle condizioni di vita, di riforme ecologiche, di pace e non di guerra, sono state deluse. Le promesse elettorali sono state per la maggior parte contraddette dalla Realpolitik di verdi e socialdemocratici. Si spiega così il calo elettorale della Spd (-2,4%) e la crescita della Cdu-Csu (+3,4%). Il partito socialdemocratico ha smarrito la coesione con gli iscritti e con la base elettorale. I temi di fondo, le sfide strategiche del futuro, sono rimasti fuori dalla campagna elettorale.
L’altro elemento è la sconfitta della Pds che non avrà più un gruppo parlamentare al Bundestag. Questo rende necessario rafforzare la presenza nei movimenti e promuovere iniziative extraparlamentari. I partiti neofascisti, infine, non hanno ottenuto nessun deputato; tuttavia l’aumento dei voti alla Npd e ad altri gruppuscoli demagogici, nazionalisti e xenofobi deve preoccupare tutti i democratici e gli antifascisti. La lotta contro le derive di destra e contro il neofascismo va rafforzata.

Il tema che in una campagna elettorale povera di discriminanti strategiche, ha dominato e infine deciso sugli orientamenti generali, è stata la guerra. Cosa ha spinto la coalizione “rosso-verde” a un rifiuto dell’attacco americano all’Iraq, ad abbandonare il “realismo” politico e l’attivismo dimostrati nella guerra contro la Jugoslavia ?

Nelle ultime settimane di campagna elettorale è aumentata la preoccupazione di molte persone per il mantenimento della pace, messa a rischio dai piani di guerra degli Stati Uniti. Anche se la coalizione riconfermata al governo ha avuto un ruolo decisivo nell’aggressione della Nato contro la Jugoslavia ed ha avviato un piano di riarmo della Germania, gli elettori hanno dato fiducia alla recente scelta “pacifista” della Spd e dei Verdi.

Per molti analisti il conflitto contro l’Iraq sarà solo un tassello di una guerra indefinita, di una strategia che mira a costituire un ordine globale autoritario nel mondo. In questa lettura le motivazioni economiche e le contraddizioni inter-imperialistiche assumono un ruolo marginale, se non addirittura inesistente. Cosa ne pensi?

Con il titolo “Logica dell’impero” è apparso sulla “Junge Welt” del 19 settembre un articolo di Max Böhnel, inviato a New York. Lì si analizzava come vi siano due linee nella politica statunitense, che si distinguono per come, quando e con quali piani dovrà essere condotta la guerra contro l’Iraq, da entrambi considerata come necessaria. È essenziale capire quali settori del capitale e quali rappresentanti dei loro interessi politici appoggiano la politica aggressiva di Bush, anche per capire le contraddizioni fra le frazioni capitalistiche. Ad esempio, è interessante la lettera aperta inviata dall’ex presidente Jimmy Carter al “Washington Post”, nella quale egli spiega il suo rifiuto della guerra e della politica di Bush. Parla di “voci di guerra e di lacerazioni” che dominano Washington. Da parte sua, l’ex presidente Bill Clinton ha spiegato sul “Blueprint”, la rivista dei democratici: “Noi sappiamo che Saddam Hussein è un falso problema. Il suo esercito è molto più debole rispetto all’epoca della guerra del Golfo… Il problema non è così urgente come la necessità di riprendere il processo di pace in Medio Oriente e porre fine alla violenza”. Molto importanti sono le voci degli intellettuali e degli artisti americani che mettono in guardia da questa guerra e chiedono una svolta nella politica dell’amministrazione. A ragione molte personalità richiamano l’attenzione sullo smantellamento dei diritti democratici negli Stati Uniti. Le stesse contraddizioni appaiono tra gli Usa e i governi europei, tra cui quello tedesco.
George Monbiot, autore considerato di sinistra, sostiene che, al di là della vecchia questione del fabbisogno di petrolio, si tratta di una guerra senza fini strategici. I motivi sarebbero legati alla politica interna degli Usa. La guerra aumenterebbe le possibilità di vittoria nello scontro elettorale. E si tratterebbe di una risposta al coinvolgimento di Bush e Cheney negli scandali economici e finanziari. Vi sarebbe anche la spinta del gigantesco complesso militare-industriale, che pretende la conferma del proprio ruolo primario. Insomma, secondo Monbiot, gli Usa attaccheranno l’Iraq semplicemente perché hanno bisogno di un paese contro il quale fare la guerra.
Sul versante opposto, altri richiamano l’attenzione sul ruolo strategico dell’Iraq nella distribuzione delle riserve petrolifere nel pianeta. È un fatto che il petrolio sia indispensabile allo sviluppo degli attuali rapporti economici. Tre quarti di tutte le riserve petrolifere si trovano nella regione del Golfo. Le riserve nel mare del Nord e negli stessi Stati Uniti dureranno al massimo dieci anni, stante il fabbisogno attuale. Per mantenere il proprio potere politico ed economico, l’imperialismo ha necessità di estendere senza limiti il controllo sul petrolio. Per questo resta attuale – per le forze di pace – la parola d’ordine “nessuna guerra per il petrolio”.
Questa nuova guerra programmata corrisponde al nuovo ordine mondiale. Prosegue ciò che è stato iniziato in Jugoslavia e proseguito in Afghanistan. La guerra è interna alla logica militarista ed espansionistica dell’amministrazione Usa, il cui fine è il controllo su ogni regione del mondo per assicurarsi materie prime e rapporti di forza favorevoli.
L’imperialismo considera tutto questo legittimo, senza preoccuparsi degli effetti destabilizzanti che una guerra contro l’Iraq potrebbe avere nell’intera regione mediorientale, una vera e propria polveriera. Questa guerra annunciata contro “l’asse del male” minaccia di coinvolgere, dopo l’Iraq, anche l’Iran, e poi, chissà, Cuba, la Cina… Nessuno oggi è in grado di prevedere le conseguenze della guerra sull’intera umanità. Per questo il primo impulso di un movimento vasto, organizzato, collegato a livello internazionale, deve essere quello di impedire la guerra programmata contro l’Iraq.

Come si può sviluppare oggi una politica antimperialista a livello mondiale?

Una politica antimperialista attualizzata significa innanzitutto fare qualsiasi cosa pur di impedire la guerra in Iraq e in qualunque altra parte del mondo. Una sconfitta degli agenti propulsori della guerra avrebbe conseguenze negative per la politica aggressiva dell’imperialismo: le basi e le possibilità stesse per una politica antimperialista contro la strategia di un nuovo ordine mondiale si allargherebbero in maniera incisiva. Segnali incoraggianti non mancano, basti ricordare la grande manifestazione contro la guerra che si è svolta a Londra e alla quale hanno partecipato 450mila persone. Il 25 e il 26 ottobre ci saranno cortei pacifisti a Washington e in altre città degli Usa. Per quanto riguarda la Germania, dovremo sostenere tutte le iniziative contro la guerra nel maggior numero di città. Il movimento della pace in Germania sta costruendo una grande manifestazione da tenersi a Berlino. Le possibilità che tale movimento divenga sempre più vasto sono accresciute dal rifiuto del governo “rosso-verde” di partecipare al conflitto: vedremo quanto durerà questa posizione e se essa non verrà smorzata con altre forme di sostegno indiretto alla guerra. In ogni caso, fino all’ultimo dovremo lottare per un fronte il più vasto possibile contro la guerra, con iniziative che coinvolgano anche gli iscritti e gli elettori verdi e socialdemocratici.

La guerra è anche una risposta a una crisi economica recessiva, che colpisce ormai anche gli Usa. E in Germania?

Accanto alla sfida della costruzione di un fronte antimperialista e contro la guerra, dobbiamo sostenere anche gli effetti di una crisi economica mondiale. Decisivi diventano gli sviluppi che essa avrà negli Stati Uniti. La crisi viene già paragonata a quella del ’29. Si prevede un lungo periodo di stagnazione e di recessione, simile a quello giapponese agli inizi degli anni Novanta. Gli effetti non si possono prevedere. Nell’immediato si tratta di dare risposte allo smantellamento di posti di lavoro e di luoghi produttivi, creare misure di protezione sociale. La Dkp si batterà per sviluppare una politica antimonopolistica e per sostenere le lotte sindacali.
Nel frattempo le Borse vanno a picco e toccano livelli storici di depressione. La linea piatta interessa circa 40mila aziende in Germania, le imprese multinazionali – come ad esempio la Siemens – tagliano stabilimenti e posti di lavoro per riorganizzarsi nella competizione mondiale. Nei prossimi anni la Telekom taglierà 30mila posti di lavoro, le banche 27mila. A livello internazionale la concentrazione e la centralizzazione del capitale aumentano in misura crescente. I gruppi capitalistici più potenti approfittano vantaggiosamente della crisi per creare condizioni a loro favorevoli e spingere in alto i profitti. Le conseguenze ci sono note: disoccupazione di massa, immiserimento di strati crescenti della popolazione, smantellamento dello stato sociale a danno di lavoratori e disoccupati.
Sul terreno della pace, del lavoro, dei diritti sociali, si apre un grande fronte di lotta, che parla a grandi masse di popolo, in ogni parte del mondo.

7 ottobre 2002