Sorto il partito comunista a Livorno, si trattò di organizzarlo nei territori, nei luoghi di lavoro e nelle organizzazioni di massa. Il nuovo partito era chiamato a superare i limiti del vecchio, evidenziati in modo particolare di fronte alla guerra e nel dopoguerra. Il PSI era sorto nel 1892 separandosi dagli anarchici sull’obiettivo della conquista del potere e della partecipazione alle elezioni e alle amministrazioni locali. Questa era stata la grande novità, ma anche il suo limite. Nato con la convinzione che l’emancipazione dei lavoratori potesse avvenire attraverso la crescita dei consensi elettorali, il partito si era trovato culturalmente impreparato all’avvento di un’epoca di guerra, conflitti aspri, reazione e rivoluzione. Così aveva subìto gli avvenimenti, non aveva saputo aggiornare la strategia per la conquista del potere e aveva deluso l’investitura a primo partito datagli dal movimento ascendente delle masse popolari alle elezioni del novembre 1919. Il Partito comunista non doveva essere dunque semplicemente una macchina elettorale, ma un partito attrezzato per organizzare e guidare in ogni situazione la lotta di classe. Pertanto il patto di reciproca autonomia tra il PSI e la CGL, che riservava al primo le elezioni e la lotta politica e alla seconda le rivendicazioni e le lotte sociali, era respinto come un non senso. In quanto avanguardia organizzata consapevole il partito non poteva disinteressarsi delle rivendicazioni sociali e tutte le organizzazioni del proletariato avrebbero dovuto con modalità e in situazioni diverse tendere allo stesso fine. Si dovevano quindi organizzare gruppi comunisti nei luoghi di lavoro e nei sindacati, con l’obiettivo di unire la classe operaia e conquistarne la direzione. Fin dal convegno di Imola, in cui era nata la frazione dei “comunisti puri” con Gramsci e Bordiga, si erano schierati per il nuovo partito i direttori dei due periodici socialisti più importanti delle Marche, “Bandiera rossa” della provincia di Ancona e “Il Progresso” della provincia di Pesaro, che divennero entrambi dopo Livorno organi del Partito Comunista d’Italia. Albano Corneli, professore di scienze naturali e gerente responsabile del giornale anconetano, era nato a Camerano nel 1890, aveva fatto l’Università a Bologna dove aveva frequentato i sindacalisti rivoluzionari e stretto amicizia con Filippo Corridoni. Durante la guerra si era avvicinato ai socialisti e nel ’19 era stato incaricato di impiantare e dirigere in Ancona il giornale socialista provinciale. Ad Ancona abitava in una camera in affitto nella centrale piazza Roma presso due sorelle, la più piccola delle quali diventerà poi sua moglie. Polemista vivace e brillante oratore, fu il principale punto di riferimento nel capoluogo regionale nella prima fase per l’organizzazione del partito comunista. Con lui era il coetaneo Alberto Mario Zingaretti, di professione sarto, nato ad Arcevia, abile organizzatore sindacale. Entrambi, insieme a due esponenti anarchici, erano stati arrestati nelle giornate rosse del giugno 1920 legate alla rivolta dei bersaglieri contro la spedizione in Albania: un movimento contro la guerra che, partito da Ancona e sviluppatosi a livello nazionale con la parola d’ordine “via da Valona”, impose al governo Giolitti la rinuncia alla nuova impresa coloniale di tipo libico e il ritiro delle truppe. Dopo quel moto che aveva molto avvicinato la sinistra socialista e gli anarchici, Zingaretti era stato nominato segretario della Camera del lavoro di Ancona, che, autonoma dalle confederazioni nazionali, univa gli operai anarchici socialisti e repubblicani. Ad organizzare il partito comunista nel territorio contribuirono poi alcuni quadri giovani, come Goffredo Rosini a Jesi, che si era già evidenziato nella federazione giovanile socialista provinciale, e Giordano Innamorati ad Ancona. Quest’ultimo, del quartiere popolare della Palombella, si era occupato, prima dei moti del giugno 1920 che portarono anche lui in carcere, dell’organizzazione provinciale della Lega proletaria mutilati, invalidi, reduci e famiglie di caduti. In Ancona era molto influente nel partito socialista il più volte parlamentare Alessandro Bocconi, di tendenza riformista. Nella sezione cittadina la mozione da lui sostenuta al congresso aveva prevalso con 54 voti, contro 50 della mozione comunista di Imola e 28 andati ai “comunisti unitari” massimalisti di Ser – rati. Complessivamente nella provincia la mozione comunista ebbe una buona affermazione. Nelle due province settentrionali delle Marche i voti riportati dalle tre mozioni furono i seguenti:
Pesaro 1.041 – 472 – 60
Ancona 680 – 546 – 139
La provincia in cui i comunisti partivano da posizioni di maggior forza era dunque quella di Pesaro, dove avevano la schiacciante maggioranza. Oltre al giornale provinciale “Il Progresso”, diretto dall’avvocato Sante Barbaresi, che fu primo segretario della federazione comunista di Pesaro e Urbino, determinante per il successo fu l’adesione, passata per la “circolare Graziadei-Marabini”, del medico 57enne Domenico Gasparini, popolarissima figura dell’Urbinate, sia come medico dei poveri che curava gratuitamente, sia quale pioniere e organizzatore del movimento cooperativo e sindacale. Gasparini aveva fondato nel 1910 la Camera del lavoro provinciale, nel 1915 aveva fatto sei mesi di carcere, con l’accusa di aver promosso la protesta che c’era stata a Urbino contro la guerra. Era persona di grande umanità, onestà e coerenza, si era distinto per la critica delle tendenze opportuniste e clientelari emerse nel partito socialista, all’epoca di Livorno faceva parte del consiglio provinciale e della giunta, da cui si dimise per la decisione del Partito di uscire da tutte le amministrazioni dove era minoranza. Per dare un’idea del radicamento comunista di cui la scelta di Gasparini fu insieme fattore propulsivo ed espressione, al primo congresso della Camera del lavoro di Urbino nella primavera 1922 l’odg del gruppo comunista da lui presentato raccolse 1084 voti, contro soli 48 andati ai socialisti. Domenico Gasparini fu il primo marchigiano ad entrare, al II Congresso, nel CC del Partito comunista. Poiché nell’Urbinate la a della seconda sillaba si pronuncia (e ben più si pronunciava allora) stretta come una e, il nome era spesso riportato anche sulla stampa di partito come Gasperini, e così lo riporta anche Spriano nel primo volume della Storia del PCI, ove però fa di più: nel riferire dei nuovi ingressi nel CC al congresso di Roma gli cambia anche il nome in… Leopoldo! Importante nel Pesarese fu anche l’adesione del deputato Augusto Radi, uno dei 18 parlamentari sui 156 del PSI che fecero parte del primo gruppo parlamentare comunista. Radi, 39enne di Fossombrone, bidello di scuola elementare dopo aver fatto il cameriere, era entrato in Parlamento sull’onda del travolgente successo socialista, grazie particolarmente ai voti delle filandaie della sua città. Nella lista dei candidati PSI del 1919 figura “operaio”, e come tale è ricordato da Spriano, in quanto marxianamente si intendeva allora per classe operaia l’insieme del lavoro salariato. È negli anni settanta del secolo scorso che l’operaio viene identificato col salariato della grande industria fordista e taylorista, per poi sostenere, con la crisi del modello, la fine della classe operaia, e conseguentemente delle ragioni del comunismo. Molti furono nel Pesarese i quadri di valore venuti al Partito comunista dall’esperienza nella Federazione giovanile socialista: come Egisto Cappellini, 24enne operaio di Urbino e dirigente della locale Camera del lavoro; Emilio Pigalarga, 21enne elettrotecnico di Fano che fu il secondo segretario della federazione provinciale comunista; Domenico Ciufoli, 22enne boscaiolo di Cantiano, poi emigrato in Francia e divenuto funzionario del PCI; Riccardo Cavallari, primo segretario della Federazione Giovanile Comunista provinciale, inviato quindi ad aiutare la costruzione del partito a Macerata, dove fu oggetto di una montatura poliziesca costatagli otto mesi di carcere. La Federazione di Pesaro-Urbino fu la prima a strutturarsi, con l’elezione di un Consiglio federale e la nomina di Barbaresi a segretario. Contava 1.200 iscritti. La geografia politica delle Marche vedeva tuttavia diminuire la presenza comunista man mano che si scendeva verso sud, con una particolare debolezza nel Maceratese e ancor più nell’Ascolano. Fu deciso perciò di dare vita ad una seconda Federazione a carattere interprovinciale, comprendente Ancona, Macerata e Ascoli, con un Comitato di 11 membri: tre ascolani, tre maceratesi e cinque anconetani. Complessivamente furono fatti 700 tesserati, di cui 522 nella provincia di Ancona e 178 nelle altre due province. La federazione interprovinciale era una soluzione organizzativa non prevista dallo statuto, ma autorizzata dal Comitato Esecutivo nazionale del Partito. Ancona era in tal modo impegnata ad aiutare direttamente per la propaganda e l’organizzazione le più deboli province meridionali. A Macerata c’era comunque un importante punto di riferimento nel segretario della Camera del lavoro Guido Molinelli. Originario di Chiaravalle in provincia di Ancona, Molinelli si era schierato nel dibattito precongressuale con i “comunisti unitari” di Serrati, ma fu il primo dopo Livorno ad abbandonarli e ad aderire al Partito comunista spiegandone le ragioni in un intervento su “Bandiera rossa”. Per lui era “mostruosa” la scissione determinatasi “fra comunisti e comunisti”, che andava superata nel nuovo Partito comunista; e trovava lucidamente che l’esito negativo del congresso di Livorno coi comunisti unitari rimasti aggrappati ai riformisti era derivato soprattutto dalla preoccupazione dei “deputati in travaglio, che sentivano prossime le elezioni politiche e che vedevano con terrore il pericolo derivante da ogni anche minima divisione di… forze elettorali”. Tra coloro che si erano distinti nel movimento giovanile socialista, ricordiamo nel sud delle Marche il 20enne Umberto Mecozzi, nativo di Montegiberto e residente a Fermo. Debolissima era in tutta la regione la presenza femminile. Le figure più significative furono a Pesaro Adele Pastori, professoressa di matematica, moglie di Barbaresi, che si assunse il non facile compito di promuovere l’organizzazione tra le donne; e ad Ancona Adalgisa Breviglieri, stimata maestra elementare, e Fortunata Domizi, intraprendente e combattiva popolana originaria di Arcevia. Il 7 aprile 1921 venne sciolta la Camera dei deputati e furono indette le elezioni per il successivo 15 maggio. Giolitti, che era a capo del governo, riteneva il momento favorevole per dare un colpo alla sinistra socialista e comunista e incorporare i fascisti in un blocco d’ordine, che rafforzasse l’egemonia del partito liberale. Contava sulla delusione provocata a livello popolare dall’esaurirsi delle spinte rivoluzionarie del biennio rosso con l’occupazione delle fabbriche, sull’effetto disgregante della violenza fascista e sulle difficoltà che il neonato Partito Comunista d’Italia avrebbe necessariamente incontrato dovendosi impegnare subito in una competizione elettorale. Dalla provincia di Pesaro il consiglio federale del PCI già il 9 aprile avanzò unanime al Comitato centrale la richiesta di presentare nella regione una lista di pura protesta, candidando Errico Malatesta, da solo o con altri detenuti politici. La proposta era partita da Gasparini ed era stata trovata “un’idea felicissima”, tanto che – come scrisse il segretario provinciale Barbaresi – “tutta la federazione comunista aveva dato l’entusiastico consenso”. Il fatto è che risolveva il problema dell’impreparazione, marcando la discontinuità con il vecchio partito socialista, in cui le elezioni erano abitualmente arena per lo scatenamento delle rivalità personali. La proposta rifletteva anche il rapporto di buona vicinanza con gli anarchici, cementato dalla comune opposizione alla guerra e, nelle Marche, dalle “giornate rosse”. Malatesta, oltre ad essere conosciuto e popolare per i suoi precedenti soggiorni anconetani, era allora tenuto in carcere con accuse pretestuose, tanto che, passate le elezioni, venne processato e assolto. Eleggerlo ne avrebbe consentito l’immediata liberazione. Gli anarchici per la verità non apprezzarono l’idea, che veniva a sfidare direttamente il loro rifiuto di principio del voto. E soprattutto non apprezzò il comitato esecutivo del partito comunista, per il quale l’appuntamento elettorale doveva essere un’occasione per affermare una nuova concezione e pratica della disciplina. Se il Partito socialista era stato un “circo Barnum”, secondo la polemica immagine di Gramsci, il Partito comunista doveva costruirsi come un organismo avente non solo un comune riferimento teorico nel pensiero di Marx e di Lenin, ma anche la capacità di agire in modo compatto, non dilaniato e indebolito da individualismi e frazioni. La coesione era indispensabile per poter reggere agli urti e assolvere ai compiti di un’epoca rivoluzionaria, che si era aperta con la guerra imperialista del 1914, ad affrontare la quale il meglio attrezzato si era dimostrato il partito operaio socialdemocratico di Russia, bolscevico, protagonista della straordinaria rivoluzione d’Ottobre. Non era facile tuttavia introdurre un costume di consapevole e ferma disciplina in un corpo di militanti educati allo spontaneismo socialista, correntizio e individualista. Nonostante i chiari pronunciamenti del Comitato Centrale del Partito e dell’Internazionale Comunista contro l’astensionismo e per la partecipazione alla lotta elettorale, la sezione di Fano si irrigidì in una posizione refrattaria e di rifiuto, tanto che il segretario federale Barbaresi dovette intervenire a scioglierla d’autorità e ricostituirla con i soli elementi disposti a disciplinarsi alle direttive: “Per un partito di avanguardia, che vuole essere la coscienza delle masse – spiegò con schietta ruvidezza – un ‘repulisti’ della zavorra di tanto in tanto è necessario”. I due collegi elettorali del 1919 nelle Marche furono accorpati nel 1921 in un’unica circoscrizione regionale, con 17 parlamentari da eleggere. La lista dei candidati comunisti fu approvata in una riunione congiunta dei due comitati federali e ratificata dal CE nazionale, il quale stabilì anche l’ordine delle preferenze: 1. Albano Corneli, 2. Domenico Gaspa – rini, 3. Sante Barbaresi, 4. Giordano Innamorati. Il Partito Comunista prese nelle Marche 9.427 voti pari al 5,3%, un risultato di poco superiore a quello nazionale, 4,6%, ed elesse un parlamentare dei 15 complessivi. L’esito inizialmente incerto tra Corneli e Gasparini volse a favore del primo, grazie anche al fatto che al medico urbinate furono annullati molti voti di contadini che ne avevano scritto male il nome. Il risultato delle elezioni non era stato entusiasmante, sia a livello nazionale che locale si sperava in un esito migliore. Il CE contava di poter eleggere 20 parlamentari, ma avevano pesato le difficoltà organizzative, si era riusciti a presentare liste solo in 27 delle 40 circoscrizioni. Il Partito socialista con il 24,7% e 122 deputati, di cui quattro nelle Marche, manteneva la gran parte dei consensi precedenti. I commenti locali a caldo segnalavano la soddisfa- zione per aver eletto il deputato ed aver evitato “la caccia alla preferenza”. Per contro si era operato in condizioni difficili per mancanza di mezzi propri con cui spostarsi nelle varie località e carenza di mezzi di propaganda; e alcune sezioni non si erano impegnate, tanto che in qualche località si erano avuti meno voti degli iscritti. Soprattutto la maggioranza del proletariato mostrava di avere ancora fiducia nel partito socialista, da cui sperava di essere portato fuori dalle difficoltà in maniera tranquilla. Il proletariato comunista per contro si trovava isolato: “Nella provincia di Pesaro – rilevava Barbaresi – è comunista circa un migliaio di operai, all’infuori di costoro il comunismo non ha seguito. È come un’oasi chiusa”. Occorreva dunque attrezzarsi per rompere il cerchio e collegarsi a più vaste masse. Di qui la direttiva di lavoro: “creare in ogni centro l’organizzazione operaia, creare in ogni centro la lega di resistenza, la cooperativa di lavoro, la cooperativa di consumo e creare il quadro del consiglio operaio ed agricolo”. Emergeva l’esigenza di una politica rivolta a realizzare alleanze sociali, in particolare verso il mondo rurale. Il Partito comunista dovette costruirsi nel fuoco della guerra civile condotta dal fascismo, punta di lancia della borghesia per imporre la regressione delle condizioni di vita delle masse e salvaguardare i profitti dell’economia di guerra. L’elenco delle violenze di quei mesi è interminabile. Giornalmente si incendiavano camere del lavoro, cooperative, si devastavano case, biblioteche, tipografie, si pestavano e si assassinavano militanti. Seguivano risposte individuali e collettive coraggiose e generose, ma del tutto inadeguate e scoordinate. Per dare un’idea del clima in cui si svolse la campagna elettorale a livello nazionale, nella settimana dal 15 al 21 aprile 1921 si registrarono, secondo quanto pubblicato dalla stampa, 60 risse con armi da fuoco, 49 assassinati (di cui 43 socialisti e comunisti e 6 fascisti), 270 feriti, 40 abitazioni invase e saccheggiate, 70 Camere del lavoro e Case del popolo incendiate, 214 arresti (di cui 212 di socialisti e comunisti e 2 di fascisti), 11 scioperi di protesta. Con azione spesso concertata e comunque convergente, l’azione terroristica delle squadre fasciste e quella repressiva delle forze d’ordine puntò a colpire e disperdere i militanti antifascisti e comunisti più attivi e a sbaragliare le organizzazioni proletarie, con bastonature, somministrazioni di olio di ricino, incendi, perquisizioni e devastazioni di abitazioni e sedi, sequestri di materiali di propaganda ed elenchi di iscritti, arresti e processi. La reazione nelle Marche si manifestò inizialmente in episodi sporadici e dall’estate 1922 in maniera sistematica. Ad Ancona nell’aprile ’21 fu accoltellato di notte da una guardia regia un giovane ferroviere, Giuseppe Meloni. Il 18 ottobre successivo a Macerata dei fascisti colpirono mortalmente con la pistola il segretario della sezione comunista della città Augusto Troccaioli. Gli aggressori, conosciuti e riconosciuti, non furono perseguiti. Il 28 febbraio 1922 a Cagli, durante i festeggiamenti del martedì grasso, una squadra di fascisti arrivata in auto da Pesaro aggredì a colpi di bastone il macellaio del paese Giovanni Pantaleoni, che giorni prima aveva risparmiato un paio di fascisti dicendo loro: “questa volta potrei restituirvi le bastonate, ma non sono vigliacco come voi”. La folla, ripresasi dalla sorpresa, tolse i bastoni ai fascisti e glieli girò sul groppone, scapparono precipitosamente sparando e provocando lungo il tragitto di ritorno un morto e diversi feriti; il segretario del fascio di Cagli che aveva fatto da guida agli aggressori scampò a stento all’ira popolare. Alla testa del fascismo provinciale c’era un autentico delinquente di nome Raffaello Riccardi, che sulle violenze nel Pesarese costruì l’avvio della propria carriera politica sotto il regime; presidente del Consiglio provinciale nel ’23, parlamentare nel ’24, sottosegretario nel ’28, ministro nel ’39… . Costui pubblicò un manifesto truculento contro le “belve rosse”, olpevoli ai suoi occhi di non farsi pestare impunemente. La svolta fu nell’agosto 1922 quando migliaia di fascisti armati e inquadrati militarmente mossero dall’Emilia-Romagna, dal Veneto, dall’Umbria su Ancona, per una prova di forza anticipatrice della marcia su Roma. I prefetti e le autorità militari assicurarono via libera e collaborazione agli aggressori e le forze popolari locali si trovarono impari e impreparate a reggere un scontro di tale portata. Il 4 agosto passando per Pesaro i fascisti emiliano-romagnoli distrussero la Camera del lavoro. Morti e feriti ci furono in Ancona, dove i repubblicani che amministravano il comune consegnarono le chiavi della città agli invasori. Contemporaneamente, con puntate aggressive in varie località della costa e dell’interno furono imposte le dimissioni delle amministrazioni democratiche, e si adoperò il terrore per costringere, secondo il vanto fascista, “i maggiori esponenti del partito comunista e socialista a ritirarsi ignominiosamente”. Il 2 ottobre a Pantana di Pergola le canaglie fasciste tesero un agguato ai fratelli Giovannoni, comunisti, uno cadde ferito, l’altro di nome Nazzareno scappò per i campi, venne inseguito raggiunto e ucciso a colpi di rivoltella. Lo stesso giorno a Fossombrone una squadra armata di bastoni e rivoltelle arrivò da Jesi di rinforzo al fiduciario del fascio locale, invasero l’abitazione del comunista indomito Giuseppe Valenti, detto “Francin”, il quale trovò riparo barricandosi nella sottostante stalla. Gli aggressori si fecero sotto ad abbattere la porta, quando i due caporioni trionfanti si affacciarono, Valenti sparò loro e li uccise, esercitando il naturale diritto alla legittima difesa. Tutti gli altri si diedero a gambe levate. Fu allora che il Riccardi, mobilitati i propri accoliti, scatenò selvagge rappresaglie, anticipando metodi che saranno dei nazifascisti occupanti durante la Resistenza. Abitazioni e attività commerciali furono incendiate e saccheggiate, a Fossombrone, a Sorbolongo, a Cagli, coloro che erano sospetti di aiutare Valenti a tenersi nascosto furono minacciati di morte, vennero incendiate case e pagliai di contadini, fino a che Clementi, avuta assicurazione che sarebbe stato processato, si consegnò. Portato davanti al Riccardi, fu invece sottoposto a orrende sevizie e il cadavere esposto davanti al cimitero di Fossombrone. La procura di Pesaro non poté non emettere un mandato di cattura del caporione criminale in camicia nera, che l’autorità di polizia però si guardò bene dall’eseguire. La prima generazione di dirigenti comunisti, trovatasi in prima fila nella tormenta reazionaria, ne uscì praticamente decapitata, molti furono costretti al trasferimento in altre città o ad emigrare all’estero; altri per sopravvivere abbandonarono l’impegno politico ritirandosi a vita privata. Abbandonò la lotta l’ex onorevole Radi, dopo che le squadre di Riccardi lo prelevarono in casa per eseguire la condanna a morte, gli fecero scrivere le ultime volontà e lo portarono per una finta fucilazione nel luogo dove era stato lasciato il cadavere del povero Valenti. A Urbino Domenico Gasparini sfuggì all’attacco e devastazione della sua abitazione, riparò a San Marino e poi a Roma, dove conobbe arresto, prigione e nel 1926 il confino a Lampedusa. Morirà a Roma il 3 febbraio 1939 all’età di 76 anni. L’invasione fascista dell’agosto ’22 determinò anche la fine delle pubblicazioni del giornale “Bandiera rossa”, la cui redazione dopo l’elezione di Corneli si era trasferita a Fano per la direzione di Barbaresi. Quest’ultimo riparò a Roma, nel 1924 fu tra i candidati alle elezioni, dopo le leggi eccezionali lasciò l’impegno politico per dedicarsi interamente alla professione forense. Il giovane Pigalarga, che gli era subentrato alla segreteria della Federazione pesarese, subì violenze anche lui, una condanna a morte degli squadristi di Riccardi. Rimasto senza lavoro emigrò in Francia. Ad Albano Corneli in Ancona i fascisti penetrarono in casa e gettarono i mobili dalla finestra. Riparò a Roma, dove fu raggiunto dalla giovanissima innamorata Armanda Ponseggi, non ancora sedicenne, e fece una scelta d’amore: l’11 novembre 1922 si sposò e partirono per l’Argentina, da dove sarebbe tornato solo per un viaggio nel dopoguerra. Era parlamentare e nelle condizioni di dura lotta la sua fuga d’amore parve diserzione, il partito la prese male e lo espulse. Alberto Mario Zingaretti, primo segretario della sezione comunista di Ancona e quindi segretario della federazione interprovinciale Ancona-Macerata- Ascoli, fu prelevato dai fascisti in casa di parenti ad Altidona il 16 ottobre 1922, bastonato a sangue e abbandonato in fin di vita su una scarpata di campagna. Fu tra i 53 comunisti arrestati nelle Marche e prosciolti nel 1923 dopo quasi cinque mesi di carcere. Aggredito nella sua casa di Ancona in occasione delle elezioni del 1924 che elessero Guido Molinelli a rappresentante comunista delle Marche, si trasferì a Roma, occupandosi dell’amministrazione del soccorso rosso. Conobbe quindi il confino, tre anni a Lipari e cinque a Ponza. Nel 1937 tornò con la famiglia in Ancona, dove riprese il suo lavoro di sarto e rianimò con ogni cautela un gruppo comunista clandestino, prendendo quindi parte alla Resistenza e successivamente alla vita democratica come dirigente sindacale. Guido Molinelli, che era stato il primo segretario della federazione comunista interprovinciale Ancona-Macerata-Ascoli e organizzatore degli arditi del popolo – e per questo critico con Corneli e Zingaretti delle chiusure settarie del Partito verso il movimento -, dopo l’occupazione fascista di Ancona riparò a Torino e di lì in Francia. Ritornò per occupare il suo posto di parlamentare, fu arrestato con Gramsci nel 1926. Nel dopoguerra sarà parlamentare e sindaco di Chiaravalle. La maestra Breviglieri, delegata della sezione di Ancona al II Congresso del Partito, fu licenziata dall’insegnamento per le sue idee politiche nell’anno scolastico 1923-1924, picchiata in occasione delle elezioni del ‘24 e carcerata per quasi due mesi. Morì anche per queste sofferenze a soli 49 anni, il 19 marzo 1925. Fortunata Domizi per la sua versatilità nell’aprire e gestire attività di piccolo commercio e spostarsi facilmente senza sospetti, fu impiegata dall’apparato centrale del PCI per i collegamenti riservati con i referenti del partito nelle Marche e nella Romagna. Sennonché in Ancona, a seguito delle varie persecuzioni, era assurto a segretario di Fede – razione uno stipendiato di questura, Arturo Medici. I dirigenti del PCI si accorsero che documenti riservati finivano in mano alla polizia, i sospetti caddero per prima su di lei e fu allontanata. Da Jesi Goffredo Rosini emigrò in Francia e poi in Sud-America, mantenendosi in contatto con le sorelle rimaste nella cittadina marchigiana. Allo scoppio della guerra civile in Spagna decise di raggiungere le brigate internazionali, partì dal Brasile, raggiunse il Messico, da dove si imbarcò. Durante il viaggio si perdono purtroppo le sue tracce. Umberto Mecozzi, divenuto il massimo organizzatore delle forze comuniste del fermano e dell’ascolano, fu bersaglio delle violenze e attenzioni di fascisti e polizia, primo della lista dei 53 comunisti delle Marche arrestati e detenuti nel 1923, morì a soli 23 anni, il 27 giugno 1924, in seguito alle sofferenze e ai patimenti causatigli dal carcere e dalle persecuzioni. Della durezza della situazione in quel periodo in particolare nel sud delle Marche un documento prezioso è l’epistolario conservatosi di Angelina Tan – ziani. Figlia di un proprietario terriero di Venarotta, divenuta comunista giovanissima, morta non ancora diciottenne per sua lucida scelta il 4 aprile 1925, sparandosi nella casa familiare un colpo di rivoltella. Era iscritta alla facoltà di Lettere all’Università di Roma. Il grande artista Osvaldo Licini, che si trovava emigrato a Parigi, in una lettera all’amico professore liberal- gobettiano Ermene gildo Catalini che le era stato insegnante e maestro, la ricordò come “la piccola Comunista col suo gran sogno spezzato”. In una sua lettera al compagno di partito Andrea Jommi, Angelina riferiva di un’inchiesta da lei svolta nel suo paese di Venarotta, dove la sezione comunista dopo Livorno aveva “circa 40 iscritti e un buon numero di simpatizzanti”. Tuttavia, precisava, “l’offensiva fascista – più accanita e opprimente di quanto io non avessi mai supposto – li disperse tutti, trascinò i più malfermi, impedì ai fedeli ogni comunicazione col partito e colle altre città, si sfogò in persecuzioni che ancora durano, e spense insomma quel principio di risveglio che agitava le masse operaie…” “E ora – aggiungeva – siamo in queste condizioni: i pochissimi rimasti fermi sono sempre personalmente sorvegliati; hanno subito perquisizioni pedinamenti minacce e tutte le altre cose solite in questo periodo di rogna nazionale. Anche ora che da un pezzo è cessata ogni loro attività, debbono essere prudentissimi per evitare guai, non farsi vedere mai insieme, riunirsi di nascosto alla sera, quando possono; le loro lettere non sono mai sicure della possibile censura avversaria, le loro persone, le loro famiglie son continuamente tenute d’occhio”. E tuttavia: “abbiamo qui degli ottimi elementi, assolutamente sicuri, provati da tutte le rappresaglie e rimasti fedeli, pronti, fermi. Sono tutti operai o artigiani: nessun ‘intellettuale’ fra loro. Pochissimi; non arrivano alla decina, ma te li garantisco eccellenti. Io ho parlato con quasi tutti”. Nella feroce dittatura poliziesca, c’era un manipolo di anonimi eroi che non si piegava. Le prove certo erano dure da sopportare, a volte impossibili come per la giovane Tanziani. Ma nulla si perde veramente e l’esempio è contagioso. Colpito dalla drastica coerenza dei suoi allievi migliori e di fronte al placido adattamento alla dittatura dei vecchi liberali, il professor Catalini si rese conto che a lottare per la libertà in Italia era rimasto il Partito comunista e vi aderì nella cospirazione. Costituì negli anni Trenta in Ancona, dove si era trasferito e faceva l’avvocato e l’insegnante di liceo, un prezioso punto di riferimento per i collegamenti clandestini col centro del Partito. A lui probabilmente si deve un’inchiesta sulle condizioni del porto di Ancona pubblicata dallo “Stato Operaio”. Quando nella primavera del ’43 fu imprigionato insieme a molti antifascisti traditi da una spia infiltrata nell’ambiente di Giustizia e Libertà, ai familiari ignari ancora della sua scelta politica scrisse che il carcere non era una vergogna: né davanti agli uomini né davanti a Dio né davanti ai nostri morti ho nulla da rimproverarmi di quanto ho detto o fatto o non fatto e che se mai sono orgoglioso e soddisfatto di me stesso”. Era la soddisfazione di chi non si era piegato, aveva creduto quando sembrava ai più che non ci fosse alcuna speranza, ed ora sentiva che il tempo del regime stava finendo e che stava per riaprirsi il tempo della libertà e della lotta per la giustizia sociale.