La difficile via della democrazia

Mentre scrivo queste righe, l’assassinio del ministro federale della difesa jugoslava, Pavle Bulatovic, a due settimana di distanza dall’attentato che ha tolto di mezzo un personaggio terrificante e scomodo come la “tigre” Arkan, Zeljko Raznatovic, apre degli scenari inquietanti su quelli che saranno i prossimi sviluppi della situazione jugoslava, e a fortiori dell’intera area balcanica. È quindi importante cercare di capire in quale cornice questi due eventi si sono verificati, e quali potranno essere i prossimi sviluppi della situazione – ferme restando almeno due considerazioni di rilievo: innanzitutto i due eventi non sono minimamente assimilabili tra di loro, troppo diversi i due personaggi e gli ambienti in cui si muovevano: un relativamente grigio “servitore del paese” (e degli interessi del partito socialista) il primo, sostanzialmente un grande organizzatore, mai in primo piano; un criminale comune, il secondo, tra l’altro mai realmente alleato di Milosevic, delle cui imprese con i suoi miliziani in Bosnia, e del suo arricchimento dopo la Bosnia si è scritto fin troppo, alcune verità e infinite fantasie – un esibizionista, comunque, che era in chiara parabola discendente. E se è difficile ipotizzare un delitto di mafia per Bulatovic, è forse più difficile non ipotizzarlo per Raznatovic; ma quel che è certo è che i due omicidi sono due facce, probabilmente radicalmente diverse, dello stesso grave malessere che vive oggi la Serbia – la Jugoslavia. Occorre allora cercare di capire.

Contrariamente all’immagine che viene diffusa dai media occidentali, probabilmente in pochi paesi del mondo si respira un’aria di libertà come in questi ultimi mesi in Jugoslavia in genere, e in Serbia in particolare. Certamente, a Belgrado come nelle città di provincia è uno spettacolo del tutto comune imbattersi in comizi o cortei delle più diverse forze politiche. Certamente nelle edicole sono più i quotidiani e i settimanali in libera vendita legati all’opposizione di quelli di “regime” (anche se poi per ogni dieci copie di Politika a stento se ne vende meno di una del principale giornale di opposizione, Danas).

E se per quel che riguarda televisione e radio le reti ufficiali sono preponderanti, non mancano quelle legate all’opposizione, che trasmettono liberamente, specie nella provincia. Ma anche a Belgrado la principale rete televisiva, Studio Beta, è saldamente nelle mani del principale oppositore di Milosevic, quel Vuk Draskovic leader del Partito del Rinnovamento Serbo, che con la moglie Danica Boskovic e la sua voracissima famiglia capeggia un clan politico affaristico che nulla ha da invidiare con quello che sostiene gli attuali detentori del potere. E il panorama che offrono le altre forze dell’opposizione non è più consolante, anzi.

E questo senza volersi spingere al Montenegro, un paese che, dacchè il filooccidentale e rampante Djukanovic governa, è saldamente in mano a una cricca mafiosa, alleata alla Sacra Corona Unita e alla peggiore mafia albanese, e che qualche frettolosa operazione di facciata, come la cacciata del ministro degli esteri, incriminato per associazione mafiosa dalla magistratura italiana, non riesce a rendere minimamente presentabile. Ma torniamo ai media. In Italia si è molto strillato della legge del ’98 sulla stampa, strumento biecamente dittatoriale nelle mani del regime che imbavaglia l’opposizione. In realtà, questa legge che prevede forti multe per chi diffonde notizie false, turba molto poco i quotidiani d’opposizione, che sono stati ricoperti d’oro dal governo degli Stati Uniti, che solo per il 1999 hanno stanziato 12 milioni di dollari a loro sostegno. Le multe (modeste – nei casi più gravi sono arrivate a qualche decina di milioni di lire) vengono pagate tranquillamente, e i giornali proseguono nella loro polemica politica con un tono “urlato” peggio che berlusconiano, tanto hanno alle spalle chi paga. Il problema, se si vuole, è allora questo. La Jugoslavia è un paese sostanzialmente libero, ma questo non vuol dire affatto che sia un paese compiutamente democratico, anzi. Di pochi paesi come della Jugoslavia è corretto dire che ci si trova davanti a una democrazia bloccata.

Il processo “democratico” (in senso occidentale), apertosi nel 1989 con la crisi della Lega dei Comunisti, la nascita da un lato del Partito Socialista, dall’altro di una pluralità di Partiti Comunisti, federatisi poi nella Jul, la sinistra jugoslava di Mirjana Markovic e Ljubisa Ristic, le prime elezioni pluripartitiche, non ha dato luogo in Serbia e Montenegro alla nascita di un reale pluralismo politico, come in altre repubbliche ex-jugoslave; o quanto meno, non ha avviato una sostanziale dialettica democratica tra le diverse forze. I motivi di questo stato di cose sono complessi, ma è indubbiamente vero che il più importante è legato al fatto che nelle altre repubbliche le istanze nazionalistiche, che sono state alla base della frantumazione della “federativa”, si sono coniugate a forti sentimenti e antiserbi e anticomunisti. Questo non è stato il caso evidentemente della piccola Jugoslavia, dove il nazionalismo, che era per forza di cose serbo, è stato fatto proprio da chi si proclamava erede del comunismo. La guerra, e l’isolamento internazionale che con brevissimi intervalli ha colpito questo paese, hanno fatto il resto. Io credo che dal caldo e dal comfort delle nostre case non sia affatto facile capire realmente cosa hanno significato dieci anni di guerra, di embargo, di demonizzazione non tanto del regime, quanto dei serbi in quanto tali. E tutto questo è culminato nell’aggressione NATO, che ha fatto dalle 1500 alle 2500 vittime, e ha distrutto una straordinaria quantità di beni quasi esclusivamente civili, dagli ospedali alle quasi 500 (!) scuole, alle strade, ai ponti, alle ferrovie, alle fabbriche.

Le forze in campo che oggi si fronteggiano sono costituite da un lato dall’alleanza di governo, dei socialisti, comunisti e radicali, gli inquietanti eredi dei cetnici guidati da Seselj; e dall’altro da un’opposizione debole, frantumata, litigiosissima, che solo in questi ultimi tempi ha trovato un’unità, solo peraltro di facciata. Qui il più forte è certamente il già citato Draskovic, ma in forte ascesa appare il generale Momcilo Perisic con il suo Movimento per la democrazia serba. Perisic, già capo di stato maggiore dell’esercito jugoslavo, fatto fuori da Milosevic nel ’98, è noto come il “boia di Vukovar e Mostar” per i suoi brillanti trascorsi durante la guerra di Bosnia, ed è incredibilmente riuscito a farsi passare per una sorta di agnellino, immolato dal tiranno per le sue idee democratiche!

Ma qui da noi si parla soprattutto dell’Alleanza per il cambiamento, questo circo di nani e ballerine, in lotta continua tra loro per ogni briciolo di potere, il cui rappresentante più noto è Zoran Djindjic, leader del Partito democratico, forte solo per la montagna di dollari che il Dipartimento di stato gli ha messo a disposizione (100 milioni solo per il biennio ’99/2000), ma in tutti i sondaggi sonoramente battuto.

Il 17 aprile si voterà anticipatamente per le amministrative (i difficili rapporti con il Montenegro impediranno la concomitante elezione anticipata delle Camere federali, che i partiti di governo avrebbero voluto). Anche se una nuova legge sulle autonomie locali ha privato di gran parte dei poteri le amministrazioni locali (dopo la dolorosa esperienza dell’autunno ’96, quando le principali città caddero in mano all’opposizione), sarà un test estremamente importante per capire qual è il consenso che ancora riscuote Milosevic. Le elezioni si svolgono in un clima di indubbio miglioramento economico, anche se la situazione rimane pesante; di impetuosa ricostruzione, al di là di ogni più rosea previsione; ma anche di dialettica democratica monca, in cui l’invettiva ha tolto ogni spazio al confronto delle idee. È possibile che i veri vincitori saranno la sfiducia e l’apatia, i più pericolosi precursori di una nuova stagione di drammatica instabilità.