Dopo il delirio propagandistico che ha preparato l’aggressione militare contro la mini-Jugoslavia della primavera 1999, sul Kosovo occupato dalle forze NATO è calato un silenzio plumbeo. In pochi hanno denunciato la pulizia etnica che hanno subito serbi, rom e albanesi non allineati con le posizioni dei fascisti e terroristi dell’Uçk; in pochi hanno raccontato la vita delle minoranze etniche nel Kosovo “democratico”, gli omicidi, le violenze fisiche e morali, la distruzione di un intero patrimonio storico e artistico, la vita nelle poche enclavi rimaste. Vita dietro a un filo spinato, senza alcun futuro e senza alcuna certezza. Silenzio ipocrita e colpevole anche da parte della sinistra italiana, protagonista della guerra di aggressione del 1999 a fianco di USA e NATO. Alle elezioni generali del 17 novembre 2007, boicottate dalla comunità serba e caratterizzate da una bassa affluenza alle urne (sotto al 50%), si è imposto il PdK di Thaci contro la LdK del Presidente Sejdiu, rendendo così più concreta l’ipotesi secessionista tanto cara a Washington (e a Mussolini, nel corso dell’occupazione italiana della regione). Thaci ha ringraziato con parole generose l’amico americano, mentre l’OSCE legittimava, con l’ormai canonica strumentalità, un voto al quale hanno potuto pre n d e re parte anche noti criminali di guerra (Haradinaj, tanto per citarne uno) e il responsabile UNMIK definiva la tornata elettorale “un successo”. Fanfaronate patetiche per tentare di coprire un fallimento totale. Il contesto generale, però, non è più quello del 1999, con gli USA impantanati in altri scenari di guerra e la Russia di Putin che si è schierata decisamente contro l’ipotesi dell’indipendenza, minacciando di applicare il medesimo criterio alle regioni secessioniste della Georgia a maggioranza russa. L’UE, con la meschinità ormai caratteristica, era convinta di poter ricattare la Serbia con la carta della fame e dell’integrazione europea, ma da Belgrado sembrano arrivare segnali chiari e univoci di non disponibilità al baratto (da Kostunica a Tadic). Cosa faranno l’Italia e il governo di centro- sinistra, che ha tra i propri componenti tanti dei protagonisti di quella sciagurata guerra del 1999? Come si schiererà, conseguentemente, la sinistra radicale? Si prepara una nuova guerra, magari mascherata con operazioni di polizia, con il rischio di innescare un effetto- domino devastante in tutta la regione? (Ma. Gra.)
L’INTERVENTO NATO NELLA CRISI BALCANICA
Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo concetto strategico» della Nato, fatto proprio dall’Italia attraverso il «Nuovo modello di difesa », viene messo in pratica nei Balcani, dove la crisi della Federazione Iugoslava, dovuta ai contrasti tra i gruppi di potere e alle spinte centrifughe delle repubbliche, ha ormai raggiunto il punto di rottura. Il 5 novembre 1990, il Congresso degli Stati Uniti approva il finanziamento diretto di tutte le nuove formazioni «democratiche» della Iugoslavia, incoraggiando così le tendenze secessioniste. A fine mese, un rapporto della Cia «prevede» che la Federazione ha solo pochi mesi di vita. Facile profezia: il 22 dicembre 1990, il parlamento della Repubblica croata, controllato dal partito di Franjo Tudjman, emana una nuova costituzione in base alla quale la Croazia è «patria dei croati» (non più dei croati e dei serbi, popoli costituenti della repubblica) ed è sovrana sul suo territorio. Sei mesi dopo, il 25 giugno 1991, oltre alla Croazia, anche la Slovenia proclama la propria indipendenza. Subito dopo, in Slovenia, scoppiano scontri tra l’esercito federale e gli indipendentisti, con decine di vittime, soprattutto giovani soldati federali. In ottobre, in Croazia, il governo Tudjman espelle oltre 25mila serbi dalla Slavonia, mentre sue milizie occupano Vukovar. L’esercito federale risponde bombardando e occupando la città, con migliaia di morti. La guerra civile comincia a estendersi, ma potrebbe ancora essere fermata. Un ruolo decisivo, in tal senso, lo potrebbe svolgere la nascente Unione Europea (il cui progetto di trattato viene approvato, a Maastricht, il 10 dicembre 1991 e firmato il 7 febbraio 1992): basterebbe che essa – attenendosi ai principi della Commissione Badinter, da poco istituita alla scopo di prevenire modi errati di riconoscimento di indipendenze in vista anche della dissoluzione dell’Unione Sovietica – non riconoscesse per il momento nessuno dei nuovi stati autoproclamatisi nei Balcani con il metodo unilaterale e violento e soprattutto su base etnica, e promovesse una conferenza delle parti per la pacifica soluzione delle controversie. Si potrebbe in tal modo far capire ai paesi balcanici che un eventuale loro ingresso nell’Unione Europea potrebbe in futuro avvenire solo mantenendo intatta l’unità federale iugoslava, ancora riconosciuta all’Onu e nel mondo. La via che viene imboccata è invece diametralmente opposta: la Germania, impegnata a estendere la sua influenza economica e politica nella regione balcanica, il 23 dicembre 1991 riconosce unilateralmente Croazia e Slovenia quali stati indipendenti, dopo che esse si sono autoproclamate tali sulla base della «croaticità» e «slovenità». Come conseguenza, il giorno dopo i serbi di Croazia proclamano a loro volta l’autodeterminazione, costituendo la Repubblica serba della Krajna. Nonostante sia evidente che i riconoscimenti unilaterali provocano ulteriori frammentazioni e conflitti, il 13 gennaio 1992 lo stato della Città del Vaticano (che ha sostenuto il «cattolicissimo» Franjo Tudjman sin dall’inizio) riconosce la Croazia come stato indipendente. Due giorni dopo l’Europa dei dodici riconosce, oltre alla Croazia, anche la Slovenia.
A questo punto si incendia anche la Bosnia-Erzegovina che, in piccolo, rappresenta l’intera gamma dei nodi etnici e religiosi della Federazione Iugoslava. La scintilla è il referendum per l’indipendenza che viene indetto dalla presidenza musulmana di Alja Izetbegovic nel febbraio 1992, nonostante non sia ammesso dalla Costituzione mancando il consenso delle altre nazionalità costitutive e contravvenga ai principi della commissione europea Badinter. Il referendum, cui partecipano quasi esclusivamente croati e musulmano-bosniaci, proclama l’indipendenza della Bosnia- Erzegovina. I serbi bosniaci proclamano, a loro volta, l’autodeterminazione del territorio della Republika Srpska (abitato dai serbi di religione ortodossa). Vi aderiscono anche i quartieri di Sarajevo a maggioranza serba, mentre la leadership musulmana si insedia nel centro della città. Con l’acuirsi del conflitto, tra i serbi di Bosnia prevalgono le posizioni nazionaliste del partito di Radovan Karadzic e Biljana Plavsic. La guerra non è però ancora scoppiata e potrebbe essere evitata. La soluzione potrebbe essere il piano Cutilheiro di cantonalizzazione della Bosnia-Erzegovina, che, il 18 marzo 1992, viene accettato alla conferenza di Lisbona da tutte e tre le parti in conflitto. Ma, dopo essere stati convocati negli Stati Uniti, i rappresentanti croati e musulmani ritirano la loro firma dall’accordo. La situazione precipita il 6 aprile del 1992, quando la Comunità europea e gli Stati Uniti riconoscono la Bosnia-Erzegovina come stato indipendente. I serbi rispondono proclamando la Repubblica serba di Bosnia, comprendente le zone (complessivamente circa il 65% del territorio) dove essi sono in maggioranza. Sarajevo è in preda a violenti scontri tra milizie serbe, croate e musulmane. Cecchini serbi sparano su una manifestazione unitaria che chiede di fermare la guerra, mentre il neonato esercito bosniaco attacca le caserme federali. L’Armata federale occupa l’aeroporto. Come già a Vukovar, anche a Sarajevo avviene la dissoluzione dell’Armja federale. Una buona parte dell’esercito ancora iugoslavo verrà ritirato dalla Bosnia, dove formalmente rimangono soltanto le componenti militari serbo-bosniache. Nella Sarajevo del doppio assedio muoiono nel tiro al bersaglio centinaia di civili di ogni parte, i musulmani, ma anche i serbi attaccati dalle milizie del presidente Alja Izetbegovic. Il 27 maggio 1992 avviene la prima strage, che è immediatamente attribuita alle milizie serbo-bosniache che assediano dalle alture la città (anche se successivamente, dalla stessa documentazione delle Nazioni Unite, emergono seri indizi su estremisti islamici). Su questa base, il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone sanzioni economiche contro la nuova Federazione Iugoslava, costituita il 27 aprile da Serbia e Montenegro. Vengono invece ammesse all’Onu, il 22 maggio, Croazia e Slovenia, e riconosciuta l’indipendenza della repubblica ex iugoslava di Macedonia, che si è separata dalla Federazione iugoslava il 17 settembre 1991, senza spargimento di sangue, con un accordo tra il leader macedone Kiro Gligorov e il presidente serbo Slobodan Milosevic. Il 2 luglio 1992, i croati dell’Erzegovina proclamano la Repubblica croata di Erzeg-Bosnia, con la stessa bandiera (che richiama la famigerata «scacchiera » del nazifascista Ante Pavelic) e la stessa moneta della Croazia. Contemporaneamente, il governo Tudjman riceve armi leggere e pesanti soprattutto dalla Germania. Lo scontro tra le fazioni provoca stragi di civili, sia musulmani e croati che serbi, e violenze soprattutto nei confronti delle donne, in particolare musulmane. Lo stupro diventa un’arma di guerra. Fallito nel dicembre 1992 il tentativo di Washington di far eleggere alla presidenza della repubblica serba Milan Panic, miliardario statunitense di origine serba, di fronte alla nuova vittoria elettorale di Slobodan Milosevic riprende la pressione internazionale sulla Federazione Iugoslava. Essa viene estromessa perfino dall’Organizzazione mondiale della sanità, nel momento in cui vi affluiscono 600 mila profughi e l’inflazione sale a livelli astronomici a causa dell’embargo. Tra la fine del 1992 e il 1994 infuria la guerra in Erzegovina tra milizie croate e musulmane. Le distruzioni a Mostar sono superiori a quelle di Sarajevo, le stragi si contano a decine. Ma lì Tudjman ha mano libera.
Il 3 gennaio 1993 viene presentato a Ginevra un piano di pace (piano Vance-Owen), che prevede la divisione della Bosnia-Erzegovina in dieci province autonome stabilite su base etnica. Ma è ormai troppo tardi per fermare la guerra. I caschi blu dell’Onu, inviati in Bosnia come forza di interposizione tra le fazioni in lotta, vengono lasciati in numero insufficiente, senza mezzi adeguati e senza precise direttive, finendo col divenire ostaggi nel mezzo dei combattimenti. Tutto concorre a dimostrare il «fallimento dell’Onu» e la necessità che sia la Nato a prendere in mano la situazione. Così avviene: nel febbraio 1994, dopo una strage nella piazza del mercato di Sarajevo (l’ennesima, la cui paternità è probabilmente musulmana, ma viene attribuita ai serbi), la Nato lancia l’ultimatum agli assedianti serbi. Il 28 febbraio aerei Nato abbattono aerei serbo-bosniaci che violano lo spazio aereo interdetto sulla Bosnia. E’ la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza. Con essa la Nato viola la sua stessa carta costitutiva, il Trattato nord atlantico del 4 aprile 1949, che all’articolo 5 stabilisce: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale ». La Nato inizia, invece, in Bosnia una guerra che non è motivata dall’attacco a uno dei suoi membri ed è combattuta fuori dell’area geografica di sua pertinenza. Il «nuovo concetto strategico» della Nato è ormai in atto. Nei mesi successivi, sempre sotto l’egida statunitense, viene formato un comando congiunto delle forze croate e musulmane. Rifornite di armi e addestrate attraverso canali sotterranei gestiti dai servizi segreti, soprattutto statunitensi e tedeschi, esse lanciano una serie di offensive: le forze musulmane attaccano nell’agosto 1994 la sacca di Bihac, provocando molti morti e la fuga di decine di migliaia di persone, e, nel maggio 1995, le posizioni strategiche serbe sulle alture attorno a Sarajevo, che vengono contemporaneamente bombardate dagli aerei Nato. Le forze croate attaccano, nel maggio 1995, la Slavonia occidentale, uccidendo tra i 600 e i 1.200 serbi, e in agosto la Krajna, vale a dire le zone della Croazia ancora abitate dai serbi, «protette» da una piccola forza di interposizione dell’Onu. Le forze croate, impegnate nell’operazione, sono assistite da consiglieri militari statunitensi e, anche stavolta, dai bombardieri della Nato che poche ore prima dell’attacco croato distruggono i radar di Knin.
E’ quella che Tudjman chiama «Operazione Tempesta», la maggiore operazione di pulizia etnica compiuta fino a quel momento: l’intera popolazione, più di 300.000 persone, è costretta alla fuga insieme ai caschi blu dell’Onu. Le vittime serbe sono 15.000. Ma nessuna sanzione internazionale viene presa nei confronti di Tudjman. Nel giugno- luglio 1995 si riaccende la battaglia di Sarajevo: le forze serbo-bosniache, comandate dal generale Ratko Mladic, espugnano la zona protetta di Srebrenica e si abbandonano a una sanguinosa strage contro i civili, dichiarando di voler vendicare gli eccidi contro i serbi consumati nel vicino territorio di Bratunac dalle milizie musulmane tra cui vi sono anche mujahidin e afghani. Le stime vanno dai 900 ai 7 mila morti. Subito dopo, ha inizio una controffensiva croata, sostenuta dalla Nato che bombarda con i propri aerei le postazioni serbe. Dopo trattative apertesi a Ginevra nel settembre 1995 e conclusesi a novembre a Dayton, negli Stati Uniti, la Federazione jugoslava, la Croazia e il governo bosniaco firmano l’accordo di pace il 14 dicembre a Parigi. Esso stabilisce la spartizione della Bosnia su base etnica e la sovranità croata sulla Slavonia orientale. Garante dell’accordo non è l’Onu, ma la Nato, che invia in Bosnia le proprie truppe a controllare un territorio ormai privato di sovranità reale.
LA GUERRA CONTRO LA JUGOSLAVIA
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri di Washington corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese (un milione e 800 mila persone, in confronto a 200 mila serbi, oltre 100 mila rom e goranci). Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Eppure, ancora nei primi mesi del 1998, il Dipartimento di stato Usa, per bocca dell’inviato Gelbart, definisce l’Uck una organizzazione terroristica. Agenti della Cia dichiareranno successivamente di «essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell’Osce incaricati di verificare il cessate il fuoco, stabilendo collegamenti con l’Uck e dandogli manuali statunitensi di addestramento militare e consigli su come combattere l’esercito iugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la Nato e Washington». L’Uck può così scatenare un’offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti. Mentre gli scontri tra le forze iugoslave e quelle dell’Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della Nato, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. A tale scopo viene fatta fallire l’opera di mediazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che, nell’autunno 1998, invia una sua missione in Kosovo con il compito di vagliare le possibilità di pace e fermare la guerra denunciando le violazioni. E’ a questo punto che, alla metà di gennaio 1999, viene fuori a Racak, zona controllata dall’Uck, l’«eccidio» di 45 «civili albanesi »: sono, dimostreranno in seguito i medici legali di una commissione indipendente finlandese, combattenti albanesi vittime negli scontri, non civili indifesi. Dando immediatamente per buona la versione dell’eccidio di civili, il capo della missione Osce, lo statunitense William Walzer (già agente della Cia in Salvador negli anni Ottanta), ritira la missione internazionale. I serbi vengono accusati di «pulizia etnica », nonostante che un rapporto Onu del gennaio 1999 valuti il numero di sfollati, sia albanesi che serbi e rom, in circa 60 mila, e la stessa missione Osce non abbia parlato sino a quel momento, nei suoi rapporti, di pulizia etnica. Vi sono evidentemente degli eccidi, commessi dall’una e dall’altra parte, non però la «pulizia etnica» che serve a motivare l’intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati. La guerra, denominata «Operazione forza alleata», inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei statunitensi sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo la possibilità di lasciare ai nostri figli un’Europa libera, pacifica e stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d’ingerenza umanitaria». Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100 aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence (C3I) attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2.000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della Nato – documenta successivamente il Pentagono – 1.999 vengono scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei». Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia e del Kosovo, provocando vittime soprattutto tra i civili. Vengono distrutti tra l’altro 63 ponti, 14 centrali elettriche, le raffinerie di Pancevo e Novi Sad, la fabbrica automobilistica Zastava e altre 40 industrie, oltre 100 centri d’affari, 13 aeroporti, 23 linee e stazioni ferroviarie, oltre 300 scuole per un costo stimato (per la sola Serbia) in oltre cento miliardi di dollari. I danni che ne derivano per la salute e l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo. Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. […] L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale». Nel frattempo in Kosovo avviene, ma solo a partire dal 24 marzo, l’espulsione di albanesi, che fuggono anche per sottrarsi agli scontri e ai bombardamenti. Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione Iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che assume i contenuti della pace firmata a Kumanovo in Macedonia, «autorizza stati membri e rilevanti organizzazioni internazionali a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, come disposto nell’annesso 2.4». L’annesso 2.4 dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti il comando lo ha già chiarito il giorno prima il presidente Clinton, sottolineando che l’accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato affronta la sua nuova missione: quella di governare », commenta il Washington Post. Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dal «Tribunale per i crimini nella ex Iugoslavia» oltre 60 agenti dell’Fbi statunitense, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l’accusa di «pulizia etnica ». Il Kosovo, divenuto una sorta di protettorato della Nato, viene di fatto distaccato dalla Federazione Iugoslava. Gli Usa, in aperto disprezzo degli accordi di Kumanovo, costruiscono presso Urosevac, Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense di tutta l’area, destinata a rimanervi per sempre. L’Uck, dopo essersi impadronito del potere sotto l’egida della forza internazionale di sicurezza, viene «smilitarizzato » e trasformato in «Corpo di protezione del Kosovo», una sorta di polizia militare. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex Uck terrorizza ed espelle dal Kosovo oltre 260mila serbi, rom, albanesi «collaborazionisti » ed ebrei. Gli Stati Uniti riescono così, sfruttando la miopia delle maggiori potenze europee, a far scoppiare una guerra (che avrebbe potuto essere evitata) nel cuore stesso dell’Europa, rafforzando la loro influenza nella regione europea nel momento critico in cui, dopo il dissolvimento del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss, se ne ridisegnano gli assetti politici, economici e militari in atto.