”La democrazia coma valore universale”

1. Il movimento comunista e lo Stato di diritto

“La democrazia come valore universale”. È la parola d’ordine che ispira la polemica a suo tempo sviluppata da Enrico Berlinguer contro il Pcus di Breznev. Su un punto centrale il segretario del Pci aveva pienamente ragione: bisognava farla finita una volta per sempre con l’infausta tradizione che liquidava come irrilevanti, o, peggio, mistificatorie, le libertà “formali” sancite dalla rivoluzione democratico-borghese. Già Togliatti, collocandosi sulla scia di Gramsci, aveva cominciato a mettere in discussione tale tradizione, leggendo la Resistenza, la rivoluzione antifascista, come lo sviluppo, ad un livello qualitativamente superiore, del Risorgimento, cioè della rivoluzione che aveva significato in Italia la fine dell’antico regime e l’avvento della democrazia parlamentare moderna. “Democrazia progressiva” e “via italiana al socialismo” erano allora chiamate a far propria tale eredità, coniugando assieme, nell’auspicata società post-capitalistica, potere e egemonia operaia e popolare da un lato e Stato di diritto dall’altro.
Questa elaborazione ha dovuto scontrarsi con l’ostilità in primo luogo di intellettuali e ambienti successivamente confluiti nella “nuova sinistra”. Nel 1965, Asor Rosa, oggi uno dei maîtres à penser del manifesto, metteva in stato d’accusa la politica seguita dal Pci durante la Resistenza, “quella strategia, che porterà più tardi a concepire la via italiana al socialismo come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi”; i “comunisti togliattiani e gramsciani” nel loro complesso venivano sbeffeggiati per il loro “democratismo”: erano “gli ultimi attardati esponenti” del “Risorgimento democratico, garibaldino, mazziniano, carducciano” (Asor Rosa, 1969, pp. 156-7 e nota). Circa dieci anni più tardi, era Rossana Rossanda a tuonare contro Togliatti, cui rimproverava il “carattere formale del discorso della democrazia progressiva” e il persistente attaccamento al “garantismo politico costituzionale”, la grettezza che lo rinchiudeva nell’“orizzonte classico dello Stato di diritto” (Rossanda, 1976, pp. 271-2).
Nella sua requistoria, Asor Rosa procedeva ancora oltre. Nel 1946, un prestigioso intellettuale e dirigente del Pci, L. Lombardo Radice, aveva scritto: “Il mondo si evolve, ma le verità del mondo che tramonta sono raccolte dal nuovo mondo”. Qualcosa il movimento operaio doveva sapere ereditare del mondo politico-costituzionale che pure metteva radicalmente in discussione. Non così per Asor Rosa, il quale, disgustato, richiamava l’attenzione sull’“eco addirittura testuale di affermazioni staliniste”. Ai suoi occhi, era il Pci nel suo complesso che, nel “concepire la via italiana al socialismo come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi”, dava prova al tempo stesso di “democratismo” e di “stalinismo”. Si direbbe che qui “democratismo” e “stalinismo” facciano tutt’uno. L’allusione era ad un passaggio importante dell’intervento di Stalin al XIX Congresso del Pcus: “La bandiera delle libertà democratico-borghesi la borghesia l’ha buttata a mare; io penso che tocca a voi, rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, di risollevarla e portarla avanti, se volete raggruppare attorno a voi la maggioranza del popolo. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto” (Stalin, 1953, p. 153).
Era il momento in cui in Occidente infuriava la persecuzione anticomunista e negli USA celebrava i suoi trionfi il maccartismo, con la caccia alle streghe scatenata anche contro gli ambienti liberal e progressisti. La rilettura oggi di questo passaggio, probabilmente ispirato da Togliatti, del discorso di Stalin può suscitare solo un sospiro: ah se entrambi si fossero attenuti coerentemente all’orientamento che in modo così aspro viene loro rimproverato da Asor Rosa! Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito dell’ironia della Rossanda sullo Stato di diritto. Essa cadeva pressappoco nello stesso periodo di tempo in cui cominciava a delinearsi in Cina una svolta radicale. Rompendo con la Rivoluzione Culturale, e con la guerra di tutti contro tutti e col crollo di ogni regola che essa aveva significato, Deng Xiaoping sottolineava nel 1979 che l’estensione e il miglioramento del “sistema legale” costituivano la precondizione per un reale sviluppo della “democrazia” (Deng, 1994-5, vol. II, p. 196). Era necessario introdurre il “governo della legge” nel Partito e “nella società nel suo complesso”, cominciando intanto a “separare le funzioni del Partito e quelle del governo”. Certo, mancava in Cina una solida tradizione legale, ma i comunisti dovevano per l’appunto “aiutare il popolo a comprendere il governo della legge” (Deng Xiaoping, 1994, vol. III, pp. 166-7)
Naturalmente, si può dire che Stalin e Deng Xiaoping non si sono per nulla sforzati di tradurre nella pratica le loro enunciazioni, che erano ipocriti; ma negare la buona fede degli altri dando per scontata la propria è l’espressione concentrata del dogmatismo sul piano scientifico e del farisaismo sul piano morale. E, comunque, anche nell’ipotesi dell’ipocrisia, resterebbe fermo il fatto che, almeno per quanto riguarda la teoria, essi si sono rivelati ben più lucidi e lungimiranti dei loro severi critici e giudici.
E ben più lucida e lungimirante si è rivelata la tradizione di pensiero che prende le mosse da Gramsci e Togliatti. È sulla sua scia che bisogna collocare anche la rivendicazione del valore universale della democrazia? Si può rispondere affermativamente a questa domanda. Epperò, del tutto estranea a quella tradizione è la successiva affermazione di Berlinguer, secondo cui la Nato avrebbe potuto essere un utile strumento di difesa dell’Italia democratica e socialista da lui auspicata: eppure era ancora fresco il ricordo del ruolo giocato dall’Alleanza atlantica e dagli Usa nella strategia della tensione e nelle stragi e nei tentativi di colpi di Stato che l’avevano contrassegnata! E cioè, nella proclamazione della tesi dell’universalità del valore della democrazia non bisogna perdere di vista l’aspetto del cedimento, e forse dell’inizio della capitolazione, all’incalzante offensiva dell’imperialismo, in una situazione di crescente crisi del “campo socialista” e del movimento comunista internazionale.
Sintomatica è la vicenda di cui, dopo lo scioglimento di quel partito, sono protagonisti gli ex-comunisti. Avevano motivato il loro passaggio di campo in nome dell’universalità del valore della democrazia, dell’assoluta inviolabilità del governo della legge e delle regole del gioco, celebrando la riscoperta delle “forme” ingiustamente vilipese e calpestate dal movimento comunista. Ma, in occasione della guerra contro la Jugoslavia, si sono visti costretti ad un doppio salto mortale: le norme del diritto internazionale, lo statuto dell’Onu, il governo della legge non avevano alcun valore dinanzi alla giustizia “sostanziale” della crociata umanitaria bandita da Washington!
Disgraziatamente, anche coloro che criticavano Berlinguer da sinistra non hanno dato prova di grande coerenza: hanno condannato la guerra della Nato, ma hanno poi sostanzialmente avallato la prosecuzione della guerra con altri mezzi, e cioè mediante il colpo di Stato.

2. La Jugoslavia dalla guerra al colpo di Stato

A questo punto, per misurare appieno la profondità dell’abisso in cui questi compagni sono caduti, conviene soffermarsi sul significato della vicenda che si è verificata in Jugoslavia. Interroghiamoci preliminarmente sulla natura reale delle forze politiche che hanno conseguito la vittoria. Alla vigilia delle elezioni “La Stampa” dava la parola ad un “oppositore serbo” che esprimeva tutta la sua ripugnanza per la presenza massiccia di immigrati cinesi: si tratta di un piano di “inquinamento etnico”, messo in atto dal solito, diabolico Milosevic (in Zaccaria, 2000).
Ma vediamo ora chi ha preso il posto di Milosevic. Appena divenuto presidente, Kostunica si è affrettato a presentare il suo biglietto da visita con una dichiarazione assai eloquente: “La distorsione della società è iniziata non con Milosevic ma con la vittoria dei comunisti 56 anni fa” (Erlanger, 2000 a).
Dunque, la fonte di tutti i mali della Jugoslavia sarebbe da individuare in Tito, il leader della Resistenza antifascista. Eppure, il movimento di liberazione aveva messo fine agli anni caratterizzati dall’aggressione e dalle infamie del nazismo, dall’occupazione e dallo smembramento del paese, dai massacri su larga scala, dai veri e propri genocidi che nella Croazia di Pavelic e degli ustascia si erano abbattuti sui serbi, sugli ebrei e sui rom. La morte di Tito e il crollo del campo socialista ci hanno fatto assistere ad una sorta di replay: di nuovo l’occupazione militare e lo smembramento del paese, di nuovo gli odi e i massacri tra le diverse nazionalità ed etnie. In mezzo a queste due tragedie si colloca il periodo titoista: sono gli anni in cui la Jugoslavia gode di una pacifica convivenza e di una relativa tranquillità e, sul piano internazionale, di un notevole prestigio come leader dei paesi non allineati. Ebbene, è proprio questa felice parentesi a riempire d’orrore Kustonica! In quanto a revisionismo storico e a pulsioni razziste l’ex-opposizione serba, ora al potere, può dare lezioni a Haider…
Ma vediamo in che modo si è verificata la svolta. Nei giorni e nelle settimane che precedono le elezioni, la stampa americana riferisce compiaciuta delle difficoltà che incontra Milosevic nello svolgimento della campagna elettorale: “Timoroso di essere assassinato, il cinquantottenne presidente appare raramente in pubblico e solo per pronunciare dinanzi ai suoi seguaci brevi discorsi sui mali del fascismo” (Smith, 2000). Non si tratta di preoccupazioni immaginarie. Almeno per quanto riguarda i paesi più deboli, ogni leader sgradito a Washington, che si tratti di Castro, Gheddafi o Saddam Hussein, sa che deve guardarsi quotidianamente e in ogni istante della giornata, dalle trame e dai tentativi di assassinio orchestrati dalla Cia. D’altro canto, proprio in Jugoslavia, a partire dalla fine dei bombardamenti aerei, si sono verificati attentati ed esecuzioni misteriose. A gettare un fascio di luce su questo mistero provvede un altro giornalista statunitense: non ci sarà pace nei Balcani “sino a quando. Milosevic non viene o corrotto o sconfitto o trascinato via dal potere in una bara” (Hoagland, 2000).
Al “criminale di guerra” ricercato dal “tribunale internazionale” al servizio di Washington viene offerto persino un mucchio di denaro, oltre alla libertà, a condizione, s’intende, che si pieghi alla volontà dei padroni del mondo. Diversamente… Al di là di singole personalità, è un intero popolo ad essere tenuto sotto tiro, e non solo per la minaccia della continuazione ad oltranza di un embargo devastatore: “gli Stati Uniti mandavano una portaerei in Adriatico pochi giorni prima del voto, quasi fossero già pronti al peggio” (Biloslavo, 2000).
Non mancavano però le lusinghe. Se avesse votato in modo politicamente corretto, il popolo jugoslavo sarebbe stato liberato dall’embargo, dal pericolo di morire di fame e di freddo; anzi, sarebbe stato generosamente aiutato a sanare le rovine e le ferite inferte dagli stessi che adesso si atteggiavano a salvatori inviati dal cielo.
E, tuttavia, per pesanti e infami che fossero, ricatti e minacce non sono bastati da soli a far trionfare la volontà della Nato. Ci voleva una “rivoluzione”. Cerchiamo di ricostruirla affidandoci esclusivamente a giornali e riviste di provata fede anticomunista e atlantica. Cominciamo con un quotidiano italiano ultrareazionario che, proprio per questo, non sente il bisogno di un minimo di pudore. Già il titolo è di una chiarezza sfrontata: “Così l’America in poco tempo ha inventato l’anti-Slobodan”. Ma vediamo per esteso il contenuto (si tenga presente che si tratta di un articolo apparso prima ancora della consacrazione formale del trionfo di Kostunica):
“Sullo sfondo della rivolta che rischia di travolgere il regime di Slobodan Milosevic, non può passare inosservata un’abile operazione di pressioni e interferenze, gestita dagli Stati Uniti. Washington aveva già speso 20 miliardi di lire, in dollari sonanti, per sollecitare le infruttuose manifestazioni di protesta dello scorso anno e fonti americane confermano che negli ultimi mesi sono stati stanziati altri 70 miliardi di lire. Prima che il Dos, il cartello dei 17 partiti anti-Milosevic, partorisse il candidato vincente delle presidenziali, i suoi leader, a cominciare da Zoran Dijindjic, venivano ripetutamente chiamati a rapporto dagli occidentali in Montenegro, Ungheria o addirittura a Londra. Grazie a questi vertici è scaturito il fiume di contante, spesso giunto in Serbia con valigie trasportate da spalloni provenienti da Romania e Ungheria. Le mazzette di dollari sono servite ad acquistare fax, computer e fotocopiatrici per la propaganda […] A tutto ciò va aggiunto il sistema di trasmissioni radio indipendenti, messo in piedi per circondare la Serbia”.
Sia chiaro. L’accerchiamento messo in atto ai danni della Jugoslavia va ben al di là della radiofonia. È sempre il medesimo quotidiano fascistoide a riferire compiaciuto: “Nessuno ha preso in considerazione le disperate denunce del ministro dell’Informazione serbo, Goran Matic, convinto che agenti della Nato, “con indosso divise dell’esercito federale, si infiltrino nel nostro Paese, per far pensare che i soldati sono dalla parte di chi vuole organizzare tumulti””. Più in ombra, ma pronta a intervenire in ogni momento è già schierata, come sappiamo, la forza aereo-navale degli Usa (Biloslavo, 2000).
Come si vede, la campagna elettorale a favore di Kostunica è davvero poderosa. Se poi, nonostante tutto dovesse fallire, nessuno a Washington o in altre capitali della Nato pensa di attenersi alle regole del gioco e alla democrazia formale. Sempre la medesima fonte finora utilizzata aggiunge: “Il Sunday Times ha rivelato che una squadra delle Sas, i corpi speciali britannici, si sarebbe appena ritirata dal Montenegro dove stava addestrando la polizia indipendentista”, in previsione di una secessione e di una rivolta contro Belgrado. Ad ogni buon conto, cifre enormi sono state già stanziate “per il prossimo anno se il regime di Belgrado sarà ancora in piedi”. Milosevic, l’uomo che ha osato sfidare la Nato, deve comunque uscire di scena, e al più presto possibile.
I dollari (o le sterline o i marchi), che corrono a fiumi, servono “pure a finanziare sofisticati sondaggi d’opinione realizzati dalla stessa società utilizzata da Bill Clinton”. Deve far riflettere l’aggettivo utilizzato. Si parla qui di sondaggi non già laboriosi ma “sofisticati”, miranti come sono a diffondere nell’opinione pubblica la persuasione che il risultato è già scontato: “A poche ore dalla chiusura delle urne Kostunica è stato indicato come il vincitore, ma stonava che soprattutto inglesi e americani lo abbiano subito considerato un fatto compiuto”. Ad avere perplessità, a mostrarsi “reticente” è lo stesso “professore” chiamato dalla Nato a divenire “nuovo capo dello Stato jugoslavo”. Ed ecco allora le “pressioni su Kostunica per autoproclamarsi presidente”, tanto più che è scontato “l’immediato riconoscimento internazionale” (Biloslavo, 2000).
È a questo punto che, a chiudere definitivamente la partita, intervengono le manifestazioni e le violenze di piazza. Diamo ora la parola a due giornali americani: “Uno sguardo attento alla rivolta rivela una pianificazione che include una scelta accurata degli obiettivi, la penetrazione del sistema segreto di trasmissioni della polizia, il reclutamento di muscolosi ma disaffezionati ufficiali di polizia e paracadutisti fuori servizio nonché l’invio di un rappresentante a Budapest per informare il governo USA” (Erlanger and Cohen, 2000).
L’uomo forte della situazione, particolarmente caro a Washington, è Dijindjic che, alla vigilia della rivolta, s’incontra “con l’ex-capo della polizia segreta”. Ed ecco che ufficiali con importanti posizioni di potere passano all’opposizione “democratica”. E, ben s’intende, operano questo mutamento di campo non già per inseguire nobili ideali, ma, come rivelano fonti ben informate, per realizzare obiettivi ben più corposi: “Per salvare le loro vite. E il loro denaro, sì un bel po’ di denaro. Forse anche per garantirsi la libertà” (Ash, 2000, p. 13). Dunque, l’opera di persuasione sa ben intrecciare ricatti, minacce e corruzione. Il tutto, per citare questa volta il quotidiano fascistoide italiano, secondo un “copione” ben preciso (Biloslavo, 2000). E che può essere ancora di grande utilità. La prossima tappa è la Bielorussia: annuncia trionfalmente il “Washington Post”, che già dichiara truccate e non valide elezioni che dovessero riconfermare al potere l’attuale gruppo dirigente (Chiesa, 2000). È un gruppo dirigente tanto più sgradito agli Usa per aver condannato a suo tempo la guerra contro la Jugoslavia. Non è solo alle porte della Bielorussia che bussa la “rivoluzione democratica” orchestrata dalla Nato: “Se ciò è potuto accadere in Serbia, perché non dovrebbe accadere in Birmania? E perché no a Cuba?” (Ash, 2000, p. 14).

3. La lotta per la democrazia e il punto di vista de il Manifesto

Negli stessi giorni in cui i servizi segreti occidentali celebravano i loro trionfi a Belgrado, il manifesto, nel suo supplemento mensile, riproduceva un articolo di Le Monde diplomatique, che riferiva della recente divulgazione di un rapporto della Cia sul colpo di Stato, da essa organizzato e perpetrato, in collaborazione coi servizi segreti britannici, nell’Iran del 1953.
Il 4 aprile di quell’anno “la sezione della Cia di Teheran riceve un milione di dollari destinati “a far cadere Mossadeq con qualunque mezzo””, ma, preferibilmente, “in modo “quasi legale””. Ed ecco allora dispiegarsi le diverse tappe dell’operazione. Innanzitutto, è necessario procedere ad un’opera di corruzione su larga scala: “Alla fine di maggio del 1953, la sezione della Cia è autorizzata a investire circa 11.000 dollari a settimana per assicurarsi la cooperazione dei parlamentari”; fondi cospicui giungono anche ai “capi religiosi”. A questo punto può iniziare la “campagna di stampa contro Mossadeq”, che risulta tanto più efficace per il fatto di essere intrecciata con “azioni clandestine” e attentati, talvolta attribuiti alla sinistra in modo da aggravare il clima di incertezza e di confusione. Per farla breve, l’opera di sgretolamento della base sociale di consenso del governo Mossadeq, colpevole di aver pestato i piedi alle compagnie petrolifere anglo-americane, sfocia in violente manifestazioni di piazza che si concludono con la presa di possesso “delle stazioni radio e di altri punti chiave”. Secondo la definizione contenuta nel rapporto della Cia, si tratta di manifestazioni “semi-spontanee” (Gasiorowski, 2000); di “spontaneità organizzata” parla invece l’“International Herald Tribune” a proposito della “rivolta” contro Milosevic (Erlanger and Cohen, 2000).
Non c’è dubbio: siamo in presenza di un “copione” ben collaudato. Ma allora come spiegare gli applausi tributati ai golpisti di Belgrado da parte del manifesto? Come è potuto accadere che una certa sinistra abbia celebrato come protagonista di una rivoluzione democratica quel Kostunica che la stampa statunitense definisce ora come il “beneficiario dello sforzo occidentale e americano di indebolire ed estromettere l’ex presidente Slobodan Milosevic”? (Erlanger, 2000 b)
Si potrebbe dire che forse ha inciso negativamente la mancanza di informazioni. In realtà, anche a voler fare totale astrazione dalle trame di cui pure ha dato notizia la stampa internazionale, un fatto era comunque sotto gli occhi di tutti: le elezioni presidenziali a Belgrado si sono svolte sotto la minaccia di intervento militare della Nato e col ricatto di prolungamento a tempo indeterminato dell’embargo. Almeno nei comunisti italiani, tutto ciò avrebbero dovuto suscitare ricordi familiari. La lupara, o la minaccia della lupara, ha talvolta punteggiato le campagne elettorali della mafia in Sicilia; ma non bisogna dimenticare neppure i pacchi di spaghetti o le scarpe che, a Napoli, Achille Lauro prometteva agli elettori fedeli di erogare ed erogava in effetti, ma con una sequenza assai raffinata: in caso di risultato politicamente corretto, alla scarpa del piede destro avrebbe fatto seguito la scarpa del piede sinistro. In occasione della recente campagna elettorale in Jugoslavia, i vari Clinton Chirac, Schröder, Amato hanno realizzato un’impresa straordinaria: sono riusciti ad essere nello stesso tempo gli spietati capi mafiosi e i generosi corruttori e benefattori della situazione. E questa sorta di Giano bifronte, col volto di Totò Riina da un lato e quello di Achille Lauro dall’altro, ha saputo incantare buona parte della sinistra italiana!
Come ha potuto verificarsi questa bancarotta intellettuale e morale? Abbiamo visto prestigiosi maîtres à penser del manifesto condannare Togliatti per il suo “democratismo” e il suo attaccamento alla “Costituzione” e allo “Stato di diritto”: è di qui che bisogna prendere le mosse per comprendere la persistente sordità che una certa sinistra rivela per le “forme”? In realtà, nel frattempo, il manifesto ha cambiato posizione in modo radicale. Eccolo ora alla testa della campagna per l’universalizzazione dello Stato di diritto e del governo della legge, contro ogni violazione dei diritti dell’uomo. Ma l’assenza di un qualsiasi bilancio autocritico si fa sentire in modo assai negativo. Solo così riesco a spiegarmi il paradosso per cui questi compagni, mentre da un lato guardano con benevolenza ai golpisti di Belgrado, dall’altro, con lo zelo tipico dei neofiti, giungono persino a rimproverare alla borghesia internazionale un’eccessiva timidezza nella lotta contro i misfatti attribuiti ai comunisti cinesi!
Sì, è veramente inquietante l’articolo dedicato dal manifesto al viaggio a New York recentemente effettuato da Li Peng, uno dei massimi dirigenti della Repubblica Popolare Cinese, in occasione di un incontro organizzato dall’Onu. Nel riferire della denuncia sporta contro di lui da alcuni “dissidenti” e avallata da un tribunale americano, il “quotidiano comunista” annuncia compiaciuto già nel titolo: “L’ombra di Tian ‘An Men. Li Peng rischia l’arresto a New York per la repressione studentesca di 10 anni fa”. L’articolista poi aggiunge: “la denuncia all’ex premier”, per “grave violazione dei diritti umani” è “molto circostanziata e sopportata da numerose e dirette testimonianze di esuli ora residenti negli Stati Uniti” (R. Es., 2000).
Una considerazione s’impone. Se proprio vogliamo attenerci al 1989, dobbiamo dire che in quell’anno c’è stata certo la repressione di piazza Tian ‘An Men, ma c’è stata anche, promossa dall’allora presidente Bush, l’invasione di Panama, preceduta da intensi bombardamenti, scatenati senza dichiarazione di guerra e senza preavviso: quartieri densamente popolati vengono sorpresi nella notte dalle bombe e dalle fiamme. Centinaia, più probabilmente migliaia sono i morti, in grandissima parte “civili, poveri e di pelle scura”; almeno 15 mila sono i senza tetto: si tratta dell’“episodio più sanguinoso” nella storia del piccolo paese (Buckley, 1991, pp. 240 e 264). Non risulta chiaro in base a quali considerazioni, a distanza di 11 anni, il manifesto auspica l’arresto di Li Peng e non quello di Bush senior.
Ma concentriamoci sugli aspetti più propriamente giuridici. Quale idea del diritto può avere colui che attribuisce una competenza extraterritoriale ad un tribunale statunitense, cioè ad un tribunale non solo nazionale, ma per di più di una nazione collocata su posizioni di antagonismo rispetto alla Cina? Se giudici americani hanno il diritto di processare Li Peng per piazza Tian ‘An Men, a maggior ragione giudici cinesi avrebbero diritto di processare Bush senior per Panama e, soprattutto, Clinton per il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Ma cosa inseguono certi compagni a livello internazionale: il governo della legge o la legge della giungla?
Il fatto è che il manifesto insiste a non volersi occupare seriamente dello Stato di diritto o del diritto internazionale, più in generale del governo della legge; continua ad essere fedele al ricordo di una “rivoluzione culturale” insofferente di qualsiasi regola o norma di carattere generale, solo che ora lo stato maggiore di questa “rivoluzione” siede a Washington e prende di mira in primo luogo i paesi e le personalità che continuano a richiamarsi al socialismo o che comunque resistono all’egemonismo.

4. Contraddizioni e conflitti nella lotta per la democrazia

Sia chiaro, reagire al clima di confusione e capitolazione che abbiamo visto imperversare nelle file della sinistra e dell’ex-sinistra non significa certo ritornare alle vecchie certezze del socialismo reale, riesumando la tesi del carattere puramente mistificatorio della democrazia formale. Si tratta invece di riprendere e sviluppare l’elaborazione che abbiamo visto delinearsi nella storia del movimento comunista internazionale. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, siamo chiamati a ridiscutere la tesi cara a Berlinguer del valore universale della democrazia. In questa formulazione, in sé giusta, ci sono però tre silenzi e tre lacune.
Marx e Engels ci hanno insegnato che non è realmente libero un popolo o un paese che ne opprime un altro (MEW, vol. IV, p. 417 e vol. V, p. 155). Per chiarire il significato di questa tesi, sottoscritta e ulteriormente ribadita da Lenin, facciamo un esempio desunto dalla realtà dei giorni nostri. La stampa italiana e internazionale gronda di articoli o prese di posizione impegnate a celebrare o, per lo meno, a giustificare Israele: dopo tutto – si afferma – è l’unico paese del Medio Oriente in cui sussiste libertà di espressione e di associazione, in cui è all’opera un regime democratico. Viene così rimosso o considerato insignificante un particolare macroscopico: il governo della legge e le garanzie democratiche valgono soltanto per la razza dei signori, mentre i palestinesi possono essere espropriati della loro terra, arrestati e detenuti senza processo, torturati, uccisi e, comunque, dal regime di occupazione militare vengono quotidianamente umiliati e calpestati nella loro dignità umana. Diventa qui chiara e netta la contrapposizione tra ideologia borghese da un lato e marxismo e leninismo dall’altro. La prima fa leva sulla “democrazia” in Israele per riconoscere a questo paese un diritto al dominio, al saccheggio, all’oppressione coloniale o semicoloniale; il secondo invece desume proprio da questa realtà di dominio, saccheggio e oppressione il carattere tutt’altro che democratico di Israele.
Considerazioni analoghe si possono fare per il grande alleato e protettore di Israele. Inaugurando il suo primo mandato presidenziale, Clinton ha sentenziato: l’America è “la più antica democrazia del mondo”, ed essa “deve continuare a guidare il mondo”; “la nostra missione è senza tempo”. La patente di democrazia attribuita agli Usa già al momento della loro fondazione autorizza a passare sotto silenzio il genocidio delle popolazioni indigene e la schiavitù dei neri (che pure costituivano il 20% della popolazione complessiva). La medesima logica viene messa in atto con lo sguardo rivolto al presente e al futuro. Non molto tempo fa, la “commissione per la verità” istituita in Guatemala ha accusato la Cia di aver potentemente aiutato la dittatura militare a commettere “atti di genocidio” a danno degli indiani maya, colpevoli di aver simpatizzato con gli oppositori del regime caro a Washington (Navarro, 1999). Ma, dato che costituiscono la più antica e la più grande democrazia del mondo, gli Usa non hanno difficoltà a rimuovere tutto ciò. Conservando la loro buona coscienza, possono così continuare a rivendicare il diritto di bombardare o smembrare ogni Stato da Washington sovranamente definito Stato-pariah (o canaglia o antidemocratico), condannando alla fame o all’inedia la sua popolazione. Da un punto di vista marxista e leninista, invece, proprio il trattamento inflitto ieri ai pellerossa e ai pellenera e oggi ai maya ovvero alle “canaglie” e ai “pariah” in ogni angolo del mondo dimostra la natura ferocemente antidemocratica degli Stati Uniti.
Per dirla di nuovo con Marx: “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude” (MEW, IX, 225). Lo sguardo rivolto alle colonie ovvero alle popolazioni tenute in condizioni coloniali o semicoloniali rivela in modo inoppugnabile “l’intrinseca barbarie” di Israele e degli Usa.
In questo senso, le lotte che il movimento operaio e comunista ha sviluppato contro l’oppressione coloniale sono stati grandi lotte per la democrazia; e, qualunque sia il giudizio sull’Unione Sovietica o sulla Cina, il contributo da esse fornito a tali lotte è stato un enorme contributo alla causa della democrazia.
In altre parole, non c’è democrazia senza democrazia nei rapporti internazionali. Questa grande tesi marxista e leninista ha trovato un qualche riconoscimento persino nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancita dall’Onu nel 1948: essa esige, già nel suo preambolo, lo “sviluppo di rapporti amichevoli tra le nazioni”, fondati cioè sull’uguaglianza e il rispetto reciproco, non già sulla legge del più forte. Nel praticare, e persino teorizzare, una politica di sopraffazione, gli Usa e la Nato calpestano la lettera e lo spirito dell’Onu. Pauroso è dunque da considerare, sul piano teorico e politico, lo scivolone che spingeva Berlinguer ad attribuire una sorta di patente democratica alla Nato!
C’è un secondo aspetto che deve richiamare la nostra attenzione. Certo, la democrazia è ormai divenuta un valore universale. Epperò, in una situazione concreta, la libertà di certi soggetti politici e sociali può cadere in contraddizione con la libertà di altri soggetti politici e sociali. Al fine di chiarire ciò, prenderò questa volta le mosse da un grande autore borghese del Settecento, e cioè da Adam Smith. Questi osserva che la schiavitù può essere soppressa più facilmente sotto un “governo dispotico” che non sotto un “governo libero”, nell’ambito del quale “ogni legge è fatta dai loro [degli schiavi] padroni, i quali non lasceranno mai passare una misura a loro pregiudizievole”. Con lo sguardo rivolto alle colonie inglesi in America, dove c’è una sorta di autogoverno locale esercitato dai coloni bianchi spesso proprietari di schiavi, Smith osserva: “La libertà dell’uomo libero è la causa della grande oppressione degli schiavi. E dato che essi costituiscono la parte più numerosa della popolazione, nessuna persona provvista di umanità desidererà la libertà in un paese in cui è stata stabilita questa istituzione” (A. Smith, 1978, pp. 452-3 e182). Viene qui indirettamente espressa una preferenza per il “governo dispotico”, il solo in grado di eliminare l’istituto della schiavitù! In effetti, molti decenni più tardi, nel Sud degli Stati Uniti la schiavitù viene abolita solo in seguito ad una guerra sanguinosa e alla successiva dittatura militare imposta dall’Unione a carico degli Stati secessionisti e schiavisti. A gridare allo scandalo sono i cosiddetti “democratici”, che condannano i metodi giacobini di Lincoln, e lo accusano di aver liquidato il governo della legge e di aver imposto il “potere del presidente di imprigionare chiunque e per il periodo di tempo che gli aggrada”. Ebbene, chi rappresenta, nel corso di questo gigantesco scontro, la causa della democrazia: il presidente giacobino che abolisce la schiavitù o gli esponenti del partito “democratico”, in quel momento impegnato a difendere l’istituto della schiavitù o a realizzare un compromesso coi proprietari di schiavi? Almeno Marx non ha dubbi, come dimostra il giudizio caloroso da lui espresso su Lincoln. In quella concreta situazione storica la liberazione dei neri passava attraverso il pugno di ferro a danno dei proprietari di schiavi e dei loro alleati e complici, attraverso lo scioglimento degli organismi di autogoverno degli stati del Sud.
Infine, un terzo aspetto: certi momenti essenziali della democrazia possono entrare in contraddizione con altri aspetti altrettanto o ancora più essenziali. È un punto che può essere chiarito a partire da un filosofo liberal contemporaneo, e cioè Rawls. Questi esige sì la subordinazione dell’uguaglianza alla libertà, epperò aggiunge che tale principio può essere considerato valido solo “al di là di un livello minimo di reddito”. E cioè, il diritto alla vita, e ad una vita rispettosa della dignità umana, è prioritario rispetto ad altri diritti; in caso di conflitto, è il primo a dover prevalere.

5. Valore universale della democrazia e frase filo-imperialista

Proviamo a unificare in una sintesi i tre punti qui evidenziati. La democrazia è senza dubbio un valore universale, ma universalità non è affatto sinonimo di unilinearità e omogeneità. La linea di demarcazione tra democrazia e antidemocrazia non è definibile una volta per sempre e in modo omogeneo. Il riconoscimento dell’universalità del valore della democrazia non esime dal compito faticoso dell’analisi concreta della situazione concreta. E questa analisi deve essere sviluppata senza smarrire la consapevolezza che, di regola, in una situazione concreta s’intrecciano e entrano in conflitto soggetti e aspetti diversi del processo democratico. Facciamo un esempio. L’eventuale trionfo del pluripartitismo a Cuba, dopo decenni di spietato embargo e di pressioni esercitate da un mostruoso apparato militare e multimediale, comporterebbe un miglioramento delle condizioni dei pochi “dissidenti” e, probabilmente, uno sviluppo della libertà di espressione e di associazione. Epperò al tempo stesso, si verificherebbe la liquidazione dei diritti economici e sociali e dei diritti nazionali del popolo cubano, con la consacrazione a livello internazionale del diritto del più forte. Nel complesso, sarebbe una disfatta della causa della democrazia. Sulla stampa americana possiamo leggere che “gli Stati Uniti sono divenuti una plutocrazia” e che ormai si è consumata “la presa di possesso delle istituzioni governative ad opera della ricchezza dei privati e delle società per azioni”, mentre “il resto della popolazione è tagliato fuori” (Pfaff, 2000). Se questo modello dovesse trionfare anche a Cuba, ad operare la “presa di possesso” non sarebbe neppure una borghesia nazionale! Le considerazioni qui svolte possono essere fatte valere anche per gli altri paesi che si richiamano al socialismo o che sono comunque impegnati nella lotta contro l’imperialismo.
Alla luce di tutto ciò, a Milosevic bisogna rivolgere una critica direttamente contrapposta a quella a lui di solito rivolta. Ha peccato di ingenuità “democratica”. Non si è reso conto che, nelle attuali condizioni, data la strapotenza economica, militare e multimediale dell’imperialismo, anche in assenza di un colpo di Stato vero e proprio come quello che si è verificato in Jugoslavia, non sono possibili elezioni realmente libere nei paesi di volta in volta presi di mira dall’aspirante sovrano planetario di Washington. E prima di Milosevic hanno peccato di ingenuità “democratica” i dirigenti del Nicaragua sandinista. Come potevano essere libere elezioni svoltesi mentre il popolo nicaraguense continuava ad aver puntato alla gola il coltello dell’embargo e della minaccia della ripresa dell’aggressione su larga scala?
È probabile che da queste mie conclusioni si ritraggano inorridite le anime belle della sinistra occidentale. In Italia, rimproverano giustamente a Berlusconi di cancellare la par condicio e quindi di svuotare di senso la competizione elettorale, ma non si rendono conto che Berlusconi è un angioletto rispetto al Riina-Lauro che siede alla Casa Bianca e che dispone di un potere e dà prova di una prepotenza infinitamente maggiori.
La sinistra e i comunisti possono ben avvertire un senso di disagio e di impazienza per la complessità della lotta per la democrazia e per la lentezza del processo di costruzione di una democrazia socialista. Epperò non bisogna perdere di vista l’essenziale: rimuovere i conflitti e le contraddizioni, che inevitabilmente accompagnano la lotta per la democrazia, significa trasformare in una “frase” la giusta affermazione dell’universalità del valore della democrazia, e agitare questa “frase” equivale, in ultima analisi, a mettersi al servizio o alla coda dell’imperialismo.

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28 novembre 2000