La crisi, la “Cosa Rossa” e i comunisti come necessità sociale

Solo alcuni mesi fa l’opinione pubblica italiana si era indignata a fronte di una sentenza choc emessa in Germania nei confronti di un cittadino sardo, condannato per violenza sessuale ai danni di una giovane tedesca. Al cittadino sardo erano però state riconosciute delle attenuanti dovute “alle particolari impronte culturali ed etniche”. Parole di condanna unanime si erano levate dall’opinione pubblica e dal mondo politico che arrivarono a definire – a buona ragione – razzista questa decisione. Purtroppo il nostro è un Paese dalla memoria corta, molto corta. Dopo solo un mese da quell’evento è montata in Italia una campagna di odio ed intolleranza ai danni dei rumeni e dei Rom (tutti, indiscriminatamente) con l’argomentazione che le particolari impronte etniche e culturali li portano ad essere particolarmente inclini ad atti di violenza, al furto, allo stupro, all’accattonaggio e a quanto di peggio la nostra società è in grado di produrre. In pochissimo tempo, quindi, si sono rispolverati armamentari ideologici del ventennio fascista e si sono buttati in pasto all’opinione pubblica facili capri espiatori. Perché accade ciò? Perché la nostra società è in crisi e si prepara ad una nuova guerra che avrà ancora una volta terribili costi sociali. Ed allora, in un clima di disperazione che milioni di cittadini vivono quotidianamente, proporre la cacciata – quando non la caccia – all’immigrato (oggi i rumeni, ieri gli albanesi o i nordafricani) diventa lo strumento per esorcizzare le paure e l’incertezza di una società in crisi. Avviene così negli Stati Uniti dove la politica di controllo dei flussi migratori è tale per cui da un lato si utilizza la forza lavoro immigrata come strumento per abbassare il potere contrattuale dei lavoratori nativi e dall’altro la presenza dei lavoratori immigrati viene agitata come causa principale del progressivo impoverimento delle famiglie americane. Il controllo delle frontiere ed il loro utilizzo “ad intermittenza” diventa quindi una leva fondamentale in mano alle classi dirigenti per rendere tutti i lavoratori più ricattabili e scatenare una guerra fra poveri. Purtroppo la cronaca italiana di queste settimane ci testimonia di come questa politica abbia fatto breccia non solo nel cuore del vecchio continente, quanto anche nella cultura delle forze di sinistra. È sintomatico, quando non imbarazzante, prendere atto della totale sintonia di fondo tra centro destra e Partito Democratico rispetto alle politiche migratorie e securitarie, fatte di militarizzazione delle frontiere e sgomberi degli accampamenti nelle periferie delle grandi città. Eppure sembra che nessuno vuol vedere che dietro all’emigrazione di massa dalla Romania ci sia il frutto delle politiche monetariste di Maastricht ed il preciso disegno ad integrare Paesi in grado di fornire mano d’opera a basso costo agli altri stati comunitari. Nei cantieri e nelle industrie metallurgiche del nord Italia, così come nelle campagne del sud, è grandissima la presenza di lavoratori immigrati, prevalentemente dai Paesi dell’Est. Ma questo crea una nuova richiesta di mano d’opera, ad un costo ancora più basso. E così in Romania, per mancanza di operai, nei cantieri edili lavorano prevalentemente immigrati pachistani, ad un costo più basso di quello dei loro colleghi rumeni, a loro volta disposti ad emigrare in altri paesi europei e lavorare in condizioni peggiori di quelle dei lavoratori nativi. È un ciclo continuo, gestito ad hoc dai tecnocrati europeisti, per generare concorrenza al ribasso e gonfiare di profitto le casse delle imprese.

Ma il motivo per cui questi fenomeni sono possibili ed assumono dimensioni di massa è da ricercarsi nella crisi economica che attanaglia il vecchio continente. La povertà è una delle cifre del costo sociale con la quale è stata costruita l’Unione europea di Maastricht e dell’euro, al punto tale che l’obiettivo della sua eliminazione per il 2010, stabilito dai vertici europei nella fatidica Agenda di Lisbona, è già fallito. Stime dell’Eurostat ci dicono che il 16% dei cittadini dell’Ue è a “rischio povertà”, la percentuale sale al 19% per i giovani (sotto i 25 anni) ed i pensionati (sopra i 65): si tratta dunque di circa 60 milioni di europei, quasi uno su cinque. Vent’anni fa in Europa 1 milione di persone viveva con meno di un dollaro al giorno (lo 0,2% degli abitanti), quindici anni dopo il loro numero è incrementato di venticinque volte, portando la proporzione a oltre il 5%, e questo a fronte del fatto che il numero complessivo di poveri nel mondo è rimasto sostanzialmente invariato. Si è registrato, insomma, un forte impoverimento dei cittadini europei ma, scorporando i dati, ci rendiamo conto di come l’aumento della povertà è avvenuto soprattutto nei Paesi meridionali più arretrati ed in quelli che hanno liberalizzato di più in materia di mercato del lavoro e welfare. E qui emerge un ulteriore e drammatico dato: la povertà non interessa solo i disoccupati, c’è una “povertà da lavoro”, fatta di progressiva erosione del potere d’acquisto dei salari, di scomparsa di tutele e welfare, di aumento incontrollato dei prezzi dei prodotti essenziali (rialzi strutturalmente sottostimati nei panieri che definiscono le statistiche europee sull’inflazione) e di precarizzazione del lavoro che, oltre a creare intermittenza di reddito, porta ad una totale marginalizzazione dal sistema bancario. È questa la cifra della crisi strutturale che vive l’Europa e che genera paure ed incertezza nel proprio futuro a milioni di cittadini. Per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, la condizione di vita e di lavoro delle giovani generazioni è peggiore di quella dei propri genitori e c’è un cambiamento delle abitudini che va verso una progressiva cessione di quello che nel tempo si era conquistato. In Italia, per esempio, recenti statistiche ci dicono che 3 cittadini su 4 hanno cambiato le proprie abitudini alimentari per far fronte all’aumento dei prezzi: non succedeva dalla guerra. E così, se per decenni lo sviluppo economico si accompagnava ad una promessa universalistica di benessere per tutti, in virtù di un forte conflitto di classe che permetteva attraverso questa via lo sviluppo della democrazia, oggi a fronte di un aumento da capogiro dell’utile netto delle principali aziende e banche del Paese (Bulgari +53%, Unicredit +82,5%, e la lista potrebbe continuare), abbiamo che il 20% della popolazione italiana è povera ed il dato è destinato ad aumentare, anche perché solo il 12% della spesa sociale riguarda interventi mirati verso quelle fasce sociali.

Ma a rendere ancora più precario e difficile questo quadro c’è l’aggravarsi del contesto internazionale ed il pericolo di una nuova escalation bellica. Anche in questo caso la scelta di aver costruito l’Ue imperniata sui dogmi di compatibilità monetaristica e di fedeltà ai dettami atlantici, ci porta a subire fino in fondo il peso di queste scelte: non solo continuiamo a sostenere l’indebitamento americano (solo negli ultimi mesi la Banca Europea ha elargito 120 miliardi di dollari per coprire i buchi delle speculazioni immobiliari americane, con un aggravio sulle nostre tasche), ma siamo succubi della politica estera degli Usa che risponde alla propria crisi con una corsa al riarmo e all’accaparramento delle principali riserve energetiche del pianeta. Non solo i principali conflitti bellici (Iraq ed Afghanistan soprattutto) continuano, ma nuovi sforzi vengono riservati per nuovi impegnativi fronti. Continua l’accerchiamento dell’Eurasia ad opera della Nato, vengono dislocate nuove basi Usa e Nato in Europa, viene installato lo scudo stellare nell’est Europa col chiaro obiettivo di contenere il protagonismo internazionale della Russia di Putin ed è ormai chiaro che ci si predispone ad un attacco militare nei confronti dell’Iran. A questo proposito le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica, in occasione delle celebrazioni del 4 novembre, lasciano poco spazio alla fantasia. Del resto l’Italia è già impegnata sul fronte afghano di Herat con scontri a fuoco quotidiani, tradendo in pieno le regole d’ingaggio con le quali le truppe italiane erano state dispiegate, ma il nuovo clima di coesione nazionale tanto invocato da Napolitano, lascia intendere un ruolo attivo del nostro Paese rispetto al peggioramento dell’instabile equilibrio in tutto il Medio Oriente e nei Balcani. Speriamo solo di non doverci trovare, nei prossimi mesi, all’emergere di un clima patriottardo ed all’invocazione di un’unità nazionale (anche dal punto di vista istituzionale, quindi) che agitando paure e fantasmi sociali (gli immigrati, i terroristi islamici pronti a colpire l’Italia…) non prepari culturalmente la transizione dal Governo Prodi ad un governo tecnico ed istituzionale per varare riforme strutturali neoliberiste (su pensioni, stato sociale, mercato del lavoro) e portare l’Italia in guerra. Ma del resto, le stesse manifestazioni di antipolitica a cui abbiamo assistito negli scorsi mesi, altro non erano che un mix di paura ed insoddisfazione, che “dal basso” generavano rifiuto e rabbia nei confronti della politica, ed il tentativo di un pezzo consistente dei poteri forti di gestire ed alimentare questo clima. I grandi mezzi di informazione di questo Paese, la Confindustria, settori rilevanti delle istituzioni hanno soffiato sul fuoco della delusione popolare nei confronti dell’attuale quadro politico, producendo ad arte un clima diffuso di qualunquismo e disaffezione alla politica.

Ma tutto questo è stato possibile perché l’azione del Governo è stata del tutto inadeguata alla fase ed alle aspettative della popolazione italiana. Il bilancio non può che essere impietoso. Non vogliamo produrci, in questa sede, in un’analisi rigorosa di tutti i provvedimenti del Governo, quanto evidenziare il filo conduttore che ha ispirato le scelte di fondo di questo anno e mezzo. Non solo l’azione del Governo Prodi è risultata tutta interna ai parametri monetaristi dell’UE e dentro il quadro delle compatibilità strategiche dell’imperialismo Nato – vincoli, questi, che hanno portato alla situazione economica precedentemente descritta – ma è la scelta di fondo di attuare una politica che premia sempre più le imprese a scapito dei lavoratori e le rendite a detrimento dei salari, che ha portato alla forte delusone dell’elettorato di centro-sinistra e alla disaffezione in questo Governo. Vista l’attuale situazione di crisi in cui versa il Paese e dopo cinque lunghi anni di politiche antioperaie ed antisociali del Governo Berlusconi, il popolo di sinistra si aspettava qualche segnale di radicale inversione di tendenza. Anche a fronte di grandi manifestazioni popolari come quella del 4 Novembre contro la precarietà, il 9 giugno contro Bush, e recentemente la grande manifestazione del 20 Ottobre, questo Governo è andato avanti senza ascoltare il disagio ed il malessere di un pezzo significativamente rappresentativo della società. Ha lasciato soli e scontenti i vecchi operai a cui viene scippata la pensione, ma soprattutto ha lasciato crescere ed acuire una nuova, grande questione giovanile che diventa il paradigma drammatico del modello di società che si costruisce: la precarietà alberga in ogni rivolo di una vita caratterizzata dalla certezza di vedersi scippare, oltre alla pensione futura, anche il proprio futuro. Giovani che alla catena di montaggio, o dietro uno dei tanti contratti di collaborazione che nascondono una vera e propria subordinazione in assenza di diritti e tutele, sono costretti a fare gli straordinari per passare da 1000 a 1100 euro al mese, sentono che perdono la propria gioventù per un salario che a malapena basterà per arrivare alla fine del mese. Si va avanti a forti iniezioni di politiche liberiste e politicismo e lo spauracchio della caduta del Governo viene brandito come una clava per bloccare ogni tentativo di inversione di tendenza, dando così vita a politiche moderate ed incapaci di uscire dalle secche del compromesso al ribasso. E la nascita del Partito Democratico non fa che peggiorare questo quadro: non solo perché il maggior partito della maggioranza di Governo, compie un’operazione culturale e politica di rimozione netta con i valori ed il patrimonio della sinistra, quanto perché nell’atto stesso di nascere è un partito che, anziché combatterla, diviene la trasposizione emblematica di un’idea tutta berlusconiana della politica. Anche nelle forme. Dietro alle primarie e al concetto di partecipazione dal basso, si profila un partito che vede “un uomo solo al comando”, dove gli ideali vengono fagocitati nell’arte del possibile e il possibile nell’abito del governo e quest’ultimo viene svuotato della sua funzione ordinatrice e di programmazione per lasciare il posto all’esercizio della tecnica. Anche la comunicazione cambia di ruolo e diviene un tutt’uno con la pubblicità. Lo stesso pericolosissimo tentativo di cambiare i connotati genetici al sindacato risponde a questa logica. Non sappiamo se e quando si farà il sindacato unico, ma quanto sta avvenendo nella Cgil in queste settimane è emblematico della perdita di autonomia del sindacato italiano rispetto al quadro politico (e nello specifico rispetto al Pd), e rispetto alla sua funzione di difesa degli interessi dei lavoratori. È stato Draghi, Governatore della Banca d’Italia, a sollevare un problema sociale, quello dei bassi salari, che doveva, ben prima, essere sollevato da Epifani e dal movimento sindacale. Ci sono invece ampi settori sindacali che, anziché rilanciare una battaglia per la difesa del salario, pensano di dover superare la contrattazione nazionale e vedono con fastidio esperienze di lotta positive e vincenti come quelle dei lavoratori di Atesia e Vodafone. E cos’è, se non subalternità politico ed ideologica al nascente Pd, la svolta moderata in Cgil con la messa sotto accusa della Fiom, per la sua radicalità e la scelta coraggiosa del suo gruppo dirigente di bocciare il Protocollo del Welfare? La china è pericolosa: negli anni scorsi, il modello di concertazione triangolare (sindacati, imprese, Governo) già si è dimostrato uno strumento per rendere compatibile il sindacato alle logiche della governabilità, ma oggi la logica di concertazione bipolare (da un lato imprese e sindacati, dall’altro il Governo), rischia di diventare la pietra tombale di qualsiasi politica dei redditi e di difesa degli interessi dei lavoratori.

Se questo è il quadro, si rende urgente e necessaria una risposta politica all’altezza dei tempi e dei compiti della fase. Purtroppo le risposte che giungono dal gruppo dirigente del Partito della Rifondazione Comunista non sono affatto confor- tanti: stretto dall’esigenza di non creare una situazione analoga a quella vissuta nel ’98, ma soprattutto dall’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di articolare una efficace iniziativa sui territori, orientando il corpo del partito verso un maggior radicamento nei conflitti sociali. È il frutto del fallimento totale della linea politica uscita dal Congresso di Venezia. Questa non solo si è dimostrata fallace dal punto di vista dell’impianto politico generale (centrato sulla tesi della crisi del neoliberismo e della permeabilità del Governo alle istanze del movimento) – e sono bastati pochi mesi per prenderne atto -, ma è la stessa idea di ingresso in un Governo senza stabilire alcune discriminanti politico- programmatiche di fondo, che è arrivata alle corde. Servirebbe invece maggiore coraggio. Non si può continuare a rimanere immobili nelle sabbie mobili del governismo. Un Governo che non produce una discontinuità netta con le politiche berlusconiane, sensibile ai richiami di Maastricht e Confindustria e sordo rispetto al grido di sofferenza di tanti lavoratori ed alle proteste e manifestazioni che chiedono una lotta coerente contro la precarietà, non può continuare ad avere l’appoggio dei comunisti. Se ce ne fosse stato bisogno, ne abbiamo la prova: non c’è spazio per una politica alternativa ed un ruolo protagonista per le forze comuniste in un Governo dell’Europa occidentale. Il rischio è che quanto già accaduto al Pc francese si abbatta con la stessa irruenza sul Prc se non si cambia radicalmente rotta e non s’investe in una ripresa delle lotte ed un rilancio della stessa Rifondazione in queste lotte sociali. Invece la proposta che giunge dai vertici del Prc va esattamente nella direzione opposta. Né rilancio delle lotte, né rilancio di Rifondazione, né ripresa di una politica di classe che abbia al centro una coerente battaglia contro il modello di società razzista ed escludente che si fa avanti, bensì la voglia di sciogliere Rifondazione in un nuovo partito di sinistra, non più comunista e subalterno alle dinamiche istituzionali e al bipolarismo: la così detta “Cosa Rossa”. La quale si sta rivelando nient’altro che la riedizione in sedicesimi del progetto strategico del vecchio Pds di Occhetto. È del tutto evidente che questo nuovo soggetto politico non si profila come un progetto “alto”, una risposta alla crisi della società e quindi, in ultima analisi, alla crisi della politica, della rappresentanza e della forma partito, così come l’abbiamo conosciuta nello scorso secolo, tutt’altro. Quella che si profila è una forma moderna di centro-sinistra centrata su due pilastri: un partito onnicomprensivo (Pd) che si propone come governatore di una società in assenza di conflitti e che tende a costruirsi a tavolino riferimenti ideologici e culturali, e questo nuovo soggetto politico di sinistra che risponde all’esigenza di offrire una nuova collocazione a quanti non hanno seguito i Ds nel Pd e a quanti chiedono di portare con coerenza e fino in fondo quella transizione politica e culturale iniziata anni fa nel Prc. E così, in barba alle regole più elementari della democrazia e del confronto interno, che vorrebbero che questi temi venissero affrontati in un congresso in cui tutti, messi a conoscenza delle posizioni politiche in campo, possano discutere e decidere, si procede a tappe forzate verso la formazione di questo soggetto politico. Tutto è stato già stabilito: dalle riunioni congiunte dei segretari dei quattro partiti, al lavoro comune dei gruppi istituzionali, alla convocazione degli stati generali della sinistra fino, addirittura, all’idea di organizzare delle primarie per l’individuazione del leader e all’idea di presentarsi alle elezioni amministrative del 2008 con liste comuni e sotto un unico simbolo elettorale. Ed il congresso del Prc che si sta per aprire rischia di diventare un’operazione burocratica di ratifica di quanto già deciso e discusso al vertice, in cui l’esigenza del gruppo dirigente non sarà quella di coinvolgere e chiedere alla base del partito un mandato politico per l’operazione, quanto quella di trovare la forma migliore (nascondendo ancora una volta le reali intenzioni dietro a dichiarazioni rassicuranti che comunque, a dire il vero, diventano sempre più rade) per portare tutto il partito a cambiare natura e diluirsi nel nuovo soggetto – partito unico nel modo più indolore e meno traumatico possibile. Se quanto detto dovesse andare in porto sarebbe la prima volta, dacché Rifondazione è nata, che alle elezioni non si presenta più con il proprio simbolo con la falce e martello. La stessa volontà a far approvare una legge elettorale alla tedesca, con una soglia di sbarramento alta, risponde all’esigenza di costringere per questa via il Pdci a non presentarsi col proprio simbolo e diventare parte integrante di questo progetto. Si arriva addirittura a prendere in considerazione l’ipotesi di appoggiare un governo tecnico ed istituzionale, in caso di caduta del Governo Prodi, pur di incassare questo sistema elettorale. E del resto, viste le grandi differenze politiche che permangono ed anzi, nel tempo si accentuano, l’unico strumento che permetterebbe a questa operazione di decollare è quello di costringere i partiti più riluttanti (Verdi e Pdci) ad associarsi all’asse di sinistra moderata Prc-Sd del nascente nuovo partito unico, attraverso lo spauracchio della scomparsa alle prossime competizioni elettorali, in virtù di una legge che favorisce la tendenza a bloccare il quadro politico italiano in una conformazione bipolare.

È davvero un peccato. Il tema dell’unità a sinistra è assolutamente centrale oggi ma la strumentalità con cui viene condotta questa discussione che finisce per parlare più di soggetto che di progetto e rimuove forzatamente il tema delle diverse culture politiche, ci porta ad esserne profondamente ostili. In realtà la voglia di dar vita a questo nuovo soggetto politico parte dall’analisi, mai resa manifesta, relativa ad una supposta obsolescenza di un progetto comunista per questa società e per questo tempo e dal rifiuto di una ricerca e ricostruzione di un partito anticapitalista, rivoluzionario, legato ai movimenti di lotta e radicato nel mondo del lavoro e nei territori, di un partito comunista. Ecco perché il cambio del simbolo viene vissuto da tante compagne e compagni come l’atto simbolicamente rilevante di un processo di svuotamento del carattere antagonista e rivoluzionario di Rifondazione. Dopo tanti anni di discussioni interne che, a piccoli passi, hanno fatto avanzare non una salutare autoriforma ed innovazione del partito e della sua politica, ma l’idea che il movimento comunista è il residuato bellico di un’esperienza con la quale non abbiamo più nulla a che fare, che la rivoluzione d’Ottobre ha aperto la strada a regimi totalitari ed antidemocratici (al punto che, nonostante ricorra in questi giorni il novantesimo anniversario, nessuna iniziativa è stata messa in campo, anche solo per rivedere criticamente quella grande esperienza che ha cambiato i destini dell’umanità), che la forma partito e l’idea dell’organizzazione dei comunisti nella società non è più attuale, che le categorie interpretative del marxismo non sono più utili per comprendere le dinamiche in atto nel mondo e nella società – e tanto altro potrebbe aggiungersi – si giunge alla rimozione di quel simbolo che fa parte del patrimonio ideale dei comunisti di tutto il mondo. Se non fosse stata fatta questa scientifica operazione politica, ideologica e culturale, nessuno in Italia obietterebbe sulla necessità di unire le forze a sinistra o costruire liste unitarie per accrescere il proprio peso politico. Del resto non è il simbolo in sé a stabilire la natura di un partito: in Portogallo nessuno è critico col fatto che il Pc portoghese si presenta alle elezioni con un simbolo unitario con altre forze della sinistra d’alternativa. E nessuno nell’Italia del dopoguerra aveva nulla da obiettare al Pci bolognese per la scelta di presentarsi alle elezioni amministrative con una lista cittadina e senza il simbolo del partito. Ma questo avveniva perché in nessuno del Pci di allora, come del Pc portoghese oggi, albergava l’idea che il proprio gruppo dirigente volesse chiudere i conti con la propria storia, archiviare l’esperienza di un partito comunista per approdare su sponde socialdemocratiche di sinistra nel profilo politico-ideologico e riformista-governista sul piano programmatico. Siamo, è proprio il caso di dire, ad uno snodo cruciale, per cui è essenziale chiarire fino in fondo quali sono le proposte politiche in campo affinché ciascuno faccia, con convinzione, le proprie considerazioni e scelte. Il tema del superamento di una forza comunista viene da lontano ed ha forme di attuazione – con diverse modalità – in alcuni Paesi europei, ma questo è il punto. Se anche si dovesse scegliere, nella costituzione di questo nuovo soggetto politico, forme che tutelino in una fase iniziale l’esistenza dei rispettivi partiti (costituzione federale e non fusionista), questo avrebbe senso solo per tenere insieme, per una certa fase, un’area di militanti ed elettori affezionati ai nomi ed ai simboli delle formazioni politiche di appartenenza, prima di riconvertire ed integrare completamente queste forze; ma anche in questo processo sarebbe l’autonomia dei comunisti ad essere sacrificata. Basta guardare al Prc, il principale partito affluente a tale progetto e che raccoglie ed organizza un numero non residuale di militanti, quadri ed attivisti comunisti. Già è un partito debolissimo nel radicamento sociale e nel sindacato e fortemente diviso al suo interno, in un processo di perdita sostanziale della sua autonomia (perché in un nuovo partito, seppur federato, ogni decisione deve passare dalla mediazione con gli altri soggetti) perderebbe la sua capacità di stabilire reciproci ed autonomi rapporti organizzati coi settori d’avanguardia del mondo del lavoro e della società civile, fondati sull’autonomia di progetto politico e teorico che, appunto, non sarebbe più possibile.

Allora, senza nostalgie né infingimenti, poniamoci la domanda di fondo: ha ancora senso una forza comunista, non marginale, nell’Italia del nuovo millennio? Ed ha una sua utilità sociale, insomma: è un forza necessaria ed ancora capace di guardare al futuro con l’obiettivo di cambiare la società? Perché se a questi interrogativi giungessimo a rispondere di no, allora non ci sarebbe altra strada possibile che accettare questo nuovo partito come la nuova “casa” e ricollocare lì un pensiero critico in attesa che, cambiando i rapporti sociali, arrivino tempi migliori. Ma se invece riteniamo che nell’attuale società vivano delle contraddizioni ed un potenziale sociale capace di attivarsi e lottare per il cambiamento dei rapporti di produzione, allora il compito dei comunisti è agire come lievito sociale per far crescere e maturare tali contraddizioni e sarebbe un grave errore politico agire diversamente. Probabilmente guardando a quanto si muove nella società ci renderemmo conto che il tema della trasformazione sociale e dell’attualità di un pensiero e di una prassi comunista tornano all’ordine del giorno con grande forza. Anzi, è l’idea che la formazione di uno spazio a sinistra del Pd crei le condizioni per dar vita ad un nuovo soggetto di sinistra socialdemocratica ad essere davvero non facile, mancando, in questa fase le basi materiali atte ad un compromesso alto tra capitale e lavoro, ad un compromesso conseguentemente socialdemocratico. Dato il contesto economico ed i rapporti di forza sul campo, non ci sono margini di mediazione possibile e quindi non c’è spazio per una rinascita di politiche neo-keynesiane: una nuova fase di redistribuzione di reddito e diritti sarà solo il portato della lotta e del conflitto sociale e non già dell’azione politica di una forza di sinistra riformista. Per questo serve un partito che organizzi le lotte e diventi il riferimento di quanti in questa società non accettano la subordinazione e la sconfitta. E non sono pochi: la decisione della Fiom di votare contro l’accordo sul Protocollo Welfare e soprattutto il risultato non marginale dei No alla consultazione in posti di lavoro significativi (dalle grandi fabbriche, dove lavora un proletariato “classico”, ai call center dove la figura del lavoratore è completamente diversa) indica che c’è la rabbia prodotta da condizioni di lavoro troppo pesanti e salari umilianti, una rabbia che chiede una rappresentanza sociale adeguata e che certo non può essere data da chi ha votato a favore di quel Protocollo. E poi c’è stata la manifestazione del 20 Ottobre che ha dimostrato lo spazio sociale e politico per una forza comunista e radicale in questo Paese. Al di là di tutte le lettura “di parte” che i gruppi dirigenti del Prc e di Sd (che neanche vi ha partecipato) hanno dato, quella manifestazione ha rappresentato un evento: per la prima volta dallo scioglimento del Pci ad una manifestazione organizzata dai due partiti comunisti partecipano un milione di persone, e questo è stato possibile grazie ad un mix virtuoso che ha visto la presenza dalla base militante dei due partiti (Prc e Pdci), le tre componenti di sinistra della Cgil (la Fiom e le aree programmatiche Lavoro e Società e Rete 28 Aprile), ed i settori più radicali del sindacalismo di base e dei movimenti giovanili: uno schieramento sociale e politico che abbiamo già visto a Genova e che tanto ha prodotto in termini di dinamizzazione dei conflitti e delle pratiche politiche.

Del resto se componenti rilevanti dell’attuale quadro politico arrivano a proporre la messa fuori legge delle forze che si richiamano al comunismo (come sta già avvenendo in Europa e la notizia – ennesima – che apprendiamo mentre stiamo chiudendo in redazione la rivista è che il gruppo dirigente del Partito Comunista dei Lavoratori di Ungheria, a cui va la nostra incondizionata solidarietà, è stato condannato al massimo della pena), evidentemente significa che il sistema ha paura del ruolo storico che una forza comunista può svolgere in questo contesto di grandi tensioni sociali. Per questo è importante, invece, tenere aperto nel nostro Paese un processo ricompositivo delle forze comuniste ed un progetto capace non di archiviare, ma di far vivere una grande forza organizzata che, intorno alla lotta per il lavoro ed il salario, per la ricostituzione di un ampio fronte per la pace e capace di una coraggiosa battaglia ideale e culturale contro l’imperante omologazione, dia risposte al senso di smarrimento del popolo della sinistra e lavori per diventare una forza di massa non omologata alle compatibilità del sistema. Non sarà un compito facile, ma è il compito storico che questa società e le sue contraddizioni ed ingiustizie ci consegnano.