La “crisi di cultura” e il pensiero di Ludovico Geymonat

*Ordinario di Filosofia teoretica Università degli Studi di Lecce

“Poiché il centro della cultura è proprio questo: verità, ma verità relativa, verità approfondibile, verità modificabile, verità che porta anche alla contraddizione, verità che non si basa soltanto sopra la ragione (la razionalità nel vecchio senso del termine per intenderci), ma fa riferimento ad una razionalità più ampia e flessibile (donde l’esigenza di ampliare e di dilatare il concetto stesso di razionalità)». Così affermava Ludovico Geymonat, in una sua relazione d’apertura del congresso internazionale di Varese, dell’ottobre 1985, dedicato a La rinascita della filosofia della scienza e della storia della scienza in Italia dagli anni Trenta ad oggi.

1. GEYMONAT E IL TEMPO PRESENTE

Molti anni ci separano non solo da questo suo intervento, nonché, oramai, anche dalla sua scomparsa, avvenuta nei pressi di Milano, nel novembre del 1991. Come sempre accade i decenni nel loro scorrere creano un rapporto complesso col passato e anche un filtro. Il passato richiede, infatti, di operare un ripensamento complessivo di quel tempo, tenendo presente la nuova stagione che si vive, i suoi problemi e le sue urgenze. Il rapporto con il nostro passato, anche con quello più recente, costituisce sempre un rapporto multifocale, non mai univoco, nella cui ridefinizione possiamo (e dobbiamo) rimetterci in gioco. Tra la contemporaneità e il passato esistono molteplici permanenze e vari distacchi, rapporti di vicinanza e, persino, di una certa congruità, ma anche rapporti di diversità e di notevole distanza. Continuità e discontinuità si intrecciano sempre in modo dialettico e problematico. Non solo: in questo quadro anche la continuità, di per sé, non è sempre e unicamente positiva, come, al contrario, anche la differenza/ estraneità non è sempre, di per sé, meramente negativa. Semmai positività e negatività dipendono, a loro volta, da molti altri fattori, alcuni dei quali, inevitabilmente, si intrecciano proprio con il particolare punto di vista di chi opera questa sua rilettura del passato.
Ma è anche vero che il tempo passato rischia di gettare un velo d’oblio sul tempo sempre più distante dal nostro presente, il quale urge e tiranneggia con tutte le sue miopie e i suoi molteplici diktat. Non per nulla, anche proposito dell’opera intellettuale e civile di Geymonat, persino nello stessa Rifondazione, vi sono molti che non ricordano – o, addirittura, non sanno neppure – che proprio questo filosofo fu, con alcuni pochi altri intellettuali e militanti, tra i primi promotori di Rifondazione, cui partecipò con notevole convinzione. La diffusa rimozione di questa partecipazione di Geymonat alla nascita di Rifondazione (non ricordata in modo significativo neppure in studi sistematici e pure assi documentati come quello, ancora recente, di Simone Bertolino, Rifondazione comuni – sta. Storia e organizzazione, il Mulino, Bologna 2004) costituisce già, di per sé, un elemento di un certo interesse il quale non ci parla solo del passato (e, in particolare dei rapporti specifici che questo filosofo sviluppò con Rifondazione e con la sua storia), ma anche, naturalmente, del nostro stesso presente, delle sue amnesie, dei suoi crampi mentali, dei suoi silenzi, che risultano essere altrettanto indicativi e significativi dei suoi programmi attuali, dei suoi desiderata e della sua stessa attività politica quotidiana, nonché anche – per dirla con Rossana Rossanda (cfr. Indietro tutta, «il manifesto», 20.XI.2005) – di una complessiva «crisi di cultura» della sinistra italiana che delinea una vera e propria «crisi di ignoranza».

2. L’ATTUALITÀ FILOSOFICA DI GEYMONAT

Tuttavia, proprio il passo citato in apertura del presente scritto, attesta un’attualità innegabile della riflessione filosofica di Geymonat. Il dibattito culturale e politico contemporaneo, che ha investito, con forza devastante anche la stessa conclamata e assai diffusa «crisi di ignoranza » della sinistra italiana, ha infatti insistito su un corno problematico fuorviante. Da un lato, partendo da interventi come quello pubblicato da Marcello Pera e Joseph Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam (Mondadori, Milano 2004) ha avanzato una critica del relativismo della cultura contemporanea: un tema sul quale successivamente Benedetto XVI è ritornato più volte condannando tutta una serie di elementi strettamente intrecciati con la modernità del pensiero umano, contro i quali ha rivendicato non solo la validità della sintesi filosofica tomistica, ma anche il valore, a suo dire assoluto e intrascendibile, di alcune verità di cui la Chiesa cattolica sarebbe la detentrice esclusiva. Di contro non sono mancate altre voci (per esempio quella di un ex-allievo, transfuga, di Geymonat, Giulio Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Cortina Editore, Milano 2005) che hanno invece difeso il relativismo culturale contestato dai primi, difendendo una visione congetturalista e fallibilista.
Ebbene, proprio contro questo duplice, ma assai unilaterale, corno del problema la citazione di Geymonat ci aiuta invece, nuovamente, a comprendere come la questione sia assai più complessa e intricata, tale da non poter essere sciolta con questo o quello slogan ad effetto. Perché? Perché per Geymonat il cuore della cultura si radica proprio nel riconoscimento dell’esistenza di una verità relativa. Ma, si potrebbe obiettare, una “verità relativa” non costituisce forse una contraddizione in termini? Come può una verità essere, al contempo, “vera” e pure “modificabile”? Secondo Geymonat proprio una seria e attenta disamina della storia della conoscenza umana ci deve invece indurre ad abbandonare il vecchio concetto (teologico) della verità assoluta (assoluta in quanto eterna, intrascendibile e immodificabile, pensata, appunto, secondo i tradizionali attributi riservati esclusivamente alla divinità) per sostituirlo con una nuova immagine, più complessa ed articolata, del sapere umano. Quando infatti si afferma l’esistenza della “verità relativa” si ha il coraggio culturale di riconoscere che le conoscenze elaborate dall’uomo non costituiscono mai “l’occhio di dio sul mondo”, ma sono, invece, “l’occhio dell’uomo sul mondo”. Ma l’occhio umano è sempre un occhio flebile, miope, parziale, fallibile, sempre doveroso di continue rettificazioni. In altri parole con l’affermazione della “verità relativa” Geymonat ci ricorda come la nostra conoscenza sia sempre intrinsecamente storica. Ma, come si sa, ciò che nasce con la storia se ne va anche con la storia. Le nostre conoscenze non sono mai conoscenze eterne: valgono per noi uomini e avranno un significato finché esisterà l’uomo, ma non ci aprono affatto la porta per un mitico mondo platonico iperuraneo, eterno ed immodificabile.
D’altra parte per Geymonat il franco riconoscimento di questa relatività storica delle nostre conoscenze non deve neppure comportare alcun scetticismo, alcun fallibilismo e alcun convenzionalismo congetturalista (à la Senofane o à la Popper, per intenderci). Perché? Per il motivo che se le nostre conoscenze sono certamente verità storiche, questo non vuol affatto dire che esse siano assimilabili a non-verità, a mere ipotesi, a congetture prive di oggettività cognitiva. La loro storicità non entra affatto in contraddizione con la loro effettiva portata conoscitiva. Semmai la loro “verità” coincide con la loro stessa “oggettività”, vale a dire con la loro capacità di farci conoscere aspetti parziali e sempre approfondibile del mondo reale. Non per nulla Geymonat ha insistito sul carattere pienamente conoscitivo – oggettivo – delle nostre conoscenze, pur senza mai trascurare il loro carattere relativo, sempre approfondibile e sempre migliorabile. Non per nulla Geymonat ha insistito su questo duplice carattere della conoscenza umana anche in una delle sue opere più importanti ed emblematiche, la monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico, edita in sette volumi da Garzanti, a Milano, tra il 1970 e il 1976. Nel capitolo teorico che corona e conclude questa grande disamina della storia del pensiero umano, Geymonat ha infatti illustrato le ragioni della sua adesione critica alla tradizione del materialismo dialettico rilevando quanto segue: «osserveremo infine che non esiste oggi, a nostro parere, una seria alternativa al materialismo dialettico, perché nessun’altra filosofia è finora riuscita a conciliare con altrettanta chiarezza il riconoscimento del carattere essenzialmente relativo di tutti i ritrovati scientifici (in via di ininterrotta elaborazione e correzione) con il simultaneo riconoscimento – non meno fondamentale – del carattere obiettivo del grandioso patrimonio di conoscenze da essi a grado a grado costruito ».

3. VERITÀ RELATIVA E OGGETTIVITÀ STORICA DELLA CONOSCENZA

Successivamente, nella sua opera più emblematica e teoreticamente più limpida, che Geymonat ha pubblicato nella seconda metà degli anni Settanta, Scienza e realismo (Feltrinelli, Milano 1977, poi riedita, in una seconda edizione riveduta e ampliata, nel 1982, successivamente tradotta in tedesco, spagnolo e, parzialmente, in russo) Geymonat ha articolato la sua riflessione filosofica basandosi su due punti principali: «1) le scienze ci forniscono una effettiva conoscenza della realtà, pur non facendoci conseguire delle verità assolute ma soltanto relative; 2) l’uomo ha sempre mirato a costruirsi una concezione generale (filosofica) del mondo la quale è, essa pure, solo relativamente vera, e oggi va continuamente corretta e perfezionata in base ai risultati più recenti delle conoscenze scientifiche».
Sono proprio queste due considerazioni che inducono Geymonat a sviluppare una disamina assai articolata non solo del complessivo patrimonio tecnico-scientifico dell’umanità, ma anche a tener presente il ruolo, la funzione e l’incidenza della storia della scienza (e della tecnica) entro il cambiamento concettuale sempre attuato nel divenire incessante della conoscenza umana. Non solo: questa visione plastica ed articolata del sapere umano e della sua storia basata su progressivi approfondimenti critici lo ha anche indotto a ripensare seriamente la dialettica esistente tra le singole teorie scientifiche e il patrimonio conoscitivo dell’umanità. Ma questa disamina è stata poi svolta da Geymonat riconoscendo il ruolo fondamenta e irrinunciabile che la stessa dimensione della tecnologia svolge sia nell’ambito della ricerca scientifica, sia nell’ambito del mondo della prassi. Col risultato che questa sua visione panoramica e problematica del sapere scientifico lo ha indotto anche a ridefinire la stessa immagine della razionalità, avvertendo l’esigenza di dilatarla, utilizzando, in modo intelligente, la stessa nozione della dialettica marxista. Inoltre, questo recupero del ruolo euristico della dialettica nell’ambito della nostra immagine filosofica del sapere scientifico lo ha spinto a tenere nel debito conto anche le contraddizioni storico- economico-sociali che sempre hanno permeato la storia umana fin dalle sue più remote antichità.
Prendendo le mosse da questa assai complessa base epistemologica e filosofica Geymonat ha così delineato una nuova visione dialettica e materialistica della conoscenza della realtà grazie alla quale non solo ha rinnovato la sua percezione critica del marxismo – ponendo al centro di questa tradizione di pensiero e di azione il problema della natura, il materialismo e il ruolo che la scienza e la tecnica possono svolgere anche nel quadro di un articolato processo politico di emancipazione sociale – ma ha anche ripensato i rapporti che si instaurano nel quadro della società civile tra le singole teorie giuridiche e i vasti movimenti – di ribellione, di lotta e rivoluzionari – che si realizzano nelle più diverse situazioni concrete in cui l’uomo si trova sempre a dover agire, pensare ed operare.
In definitiva proprio questa articolata percezione critica, marxista e materialista, della non-neutralità pratica della scienza ha indotto Geymonat a rilevare quanto segue: «se la scienza ci portasse a una conoscenza assoluta della realtà noi potremmo sostenere che essa è in un certo senso neutrale, perché le verità che ci procura – in quanto assolute – non dipenderebbero in alcun modo dal soggetto che conosce, né dalle condizioni sociali in cui egli opera, né dalle categorie logiche o dagli strumenti osservativi usati per conoscere. Se viceversa, nelle scienze […] non fosse presente il secondo fattore di cui abbiamo testé parlato [la visione generale del mondo, ndr.] le scienze e la filosofia risulterebbero delle costruzioni puramente soggettive: costruzioni senza dubbio non neutrali, perché dipendenti per intero dall’uomo che compie le ricerche scientifiche e dalle condizioni sociali in cui egli opera, ma in ultima istanza non neutrali solo in quanto arbitrarie». La soluzione delineata da Geymonat evita, dunque, proprio questi due pericoli metafisici dell’assolutezza e dell’arbitrarietà, cui invece indulgono, in ultima analisi, le due polarità unilaterali e dogmatiche che contraddistinguono la miopia complessiva del dibattito contemporaneo.

4. IMPORTANZA DELLA LEZIONE CIVILE DELLA FILOSOFIA DI GEYMONAT

Naturalmente, come sempre accade, anche la prospettiva di Geymonat, per la sua stessa articolazione problematica complessiva, non è esente da molti aspetti che possono e devono essere discussi, criticati e ripensati. Personalmente ho cercato di sviluppare questi rilievi critici e questo possibile ripensamento complessivo della sua opera filosofica e intellettuale in due miei recenti volumi, espressamente dedicati al pensiero di Geymonat e alla sua vita (La passione della ragione, Università della Svizzera italiana, Mendrisio 2001 e Contestare e creare, La Città del Sole, Napoli 2004). Ma oramai sono anche apparsi gli atti di due diversi convegni, espressamente consacrati allo studio dell’opera di Geymonat (Filosofia, scienza e vita civile nel pensiero di Ludovico Geymonat, La Città del Sole, Napoli 2003) e Il pensiero unitario di Ludovico Geymonat (Edizioni Nuova Cultura, Teramo 2004), unitamente a molti altri scritti, volumi, articoli e note che configurano, oramai, una bibliografia sempre più ampia e puntuale. In tal modo l’opera di Geymonat è sempre più oggetto di uno studio analitico e puntuale che ne scava le molteplici movenze, gli influssi, i debiti culturali, le aporie, i punti di forza come anche le intrinseche debolezze. In questo modo l’opera e il pensiero di Geymonat, proprio nella misura in cui si allontana dalla nostra contemporaneità per il tempo che passa, è tuttavia fatto oggetto di uno studio storico-critico sempre più approfondito e serio cui occorre rinviare le persone interessate a studiare la sua filosofia.
Tuttavia a mio avviso non va poi dimenticato il ruolo e lo specifico stile civile che ha sempre contraddistinto questo intellettuale in tutte le sue diverse fasi di sviluppo del suo pensiero. In questa sede basti richiamare il coerente e indomito antifascismo che ha sempre contraddistinto la vita di Geymonat. Nato a Torino nel 1908, Geymonat si è formato durante il consolidamento della dittatura fascista cui ha sempre opposto un deciso antifascismo. Nel leggere questi rilievi non si pensi che il suo antifascismo sia assimilabile a quello di molti altri antifascisti. Poiché Geymonat si è formato a Torino basterebbe tener presente la parallela biografia di un intellettuale antifascista come quella di Norberto Bobbio per cogliere tutta la differenza e la novità dello stile civile, morale ed intellettuale del nostro epistemologo. Bobbio, infatti, come molti altri antifascisti, prima di approdare all’antifascismo fu regolarmente iscritto al partito fascista e rivendicò (come ha dovuto riconoscere nella sua bella Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi, edita da Laterza, nel 1997) anche un suo ruolo fascista all’interno delle fila di questo partito. Al contrario Geymonat rifiutò sempre e costantemente di iscriversi al partito fascista. Proprio a causa di questo suo coerente antifascismo Geymonat subì una serie impressionante di molteplici vessazioni. Per esempio, dopo essersi laureato in filosofia e in matematica vinse tutti i concorsi pubblici per insegnare nei licei statali, ma non gli fu comunque attribuita alcuna cattedra, perché non risultava iscritto al partito fascista. Per lo stesso motivo fu allontanato dall’università dove svolgeva allora attività di assistente volontario. Gli fu anche impedito di partecipare ai concorsi universitari perché nelle domande – quelle stesse che nei medesimi anni predisponeva anche Bobbio – non poteva mai indicare il numero della propria tessera di iscrizione al partito fascista. Senza queste indicazioni le domande erano semplicemente rinviate al mittente. Per vivere Geymonat, insieme a Cesare Pavese, andò allora ad insegnare in una scuola privata di Torino, ma, ben presto, fu espulso anche da questa realtà perché ad un certo momento per lavorare negli istituti privati fu nuovamente richiesta l’iscrizione al partito fascista. Iniziò allora a vivere di traduzioni, dando numerose lezioni private, ritirandosi, infine, in un piccolo paese ai piedi del Monviso, Barge. Successivamente entrò direttamente tra le file del movimento partigiano essendo uno dei promotori della 105a Brigata Garibaldi “Carlo Pisacane”, una tra le prime brigate partigiane costituitasi nel Piemonte. Fu poi combattente attivo di questa brigata, partecipando alla dura vita di montagna e anche ad alcuni scontri armati per poi scendere clandestinamente a Torino e organizzare la sua liberazione, occupandosi di un coraggioso giornale clandestino come «Il Grido di Spartaco» (nonché dell’ «Unità», edizione piemontese, dopo la Liberazione).
Non è ora il caso di proseguire nel delineare analiticamente l’impegno del suo antifascismo e la coerenza morale della sua opposizione alla dittatura di Mussolini. Ma va ricordato come nella sua intransigenza e coerenza etico-civile Geymonat fu uno dei pochissimi intellettuali – come è noto si contano veramente sulle dita di una mano – che nel nostro Paese non si piegarono mai alla dittatura. In questa sua opposizione fu certamente guidato anche da uno spirito indomito come quello del suo maestro d’elezione, Piero Martinetti, l’unico filosofo tra i dodici eroici professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo nel 1931 (e che per questo motivo furono immediatamente licenziati).
Più in generale Geymonat nella sua strenua lotta contro il moderatismo (culturale e civile), ha sempre avvertito, con estrema precisione, la responsabilità civile dell’intellettuale. A suo avviso l’intellettuale, proprio utilizzando i privilegi che gli conseguono dal suo stato sociale e dalla sua cultura, ha infatti il dovere civile di farsi voce ed interprete della coscienza critica di una nazione e di un popolo. L’intellettuale deve pertanto sviluppare la sua riflessione filosofica come una critica razionale del presente. Oggi, invece, vi sono intellettuali ed esponenti politici i quali, con le loro stesse dichiarazioni pubbliche non contribuiscono affatto ad approfondire e sviluppare criticamente la cultura storica della sinistra. Si pensi, per esempio, ad un Massimo Cacciari che ha definito il pontefice quale massima autorità morale del nostro tempo, oppure ad un nostro “dipendente” (à la Grillo) come Amato che ha riconosciuto alla chiesa un alto magistero, quale modello di tolleranza [sic !] oppure, ancora, a un politico come Bertinotti che ha fatto addirittura sapere di sviluppare un suo problema specifico interiore con la divinità, etc. In contrasto con questi buoni “modelli negativi” Geymonat ha invece sempre dichiarato pubblicamente il proprio ateismo e ha sempre ritenuto suo dovere primario quello di farsi voce ed intelligenza critica di coloro i quali subiscono, a vario titolo, lo sfruttamento, le ingiustizie e tutte le contraddizioni di un mondo contemporaneo diventato sempre più cinico, unilaterale, violento e dichiaratamente criminale.
Personalmente ricordo come uno dei suoi scritti più incisivi, il Dialogo sulla libertà, pubblicato da «Belfagor » nel gennaio 1987 e poi riedito in appendice al suo fortunato volume La libertà (Rusconi, Milano 1988), nacque proprio da una sua tempestiva riflessione critica e da una sua coraggiosa denuncia pubblica di un pestaggio di detenuti del carcere di San Vittore di Milano che allora, con un loro specifico movimento di lotta, rivendicavano, da dietro le sbarre, il loro diritto alla riconquista dell’affettività. Ebbene, il profondo sdegno morale per questo pestaggio perpetrato a sangue freddo contro i detenuti, indusse tempestivamente Geymonat a denunciarlo apertamente e a voler prendere pubblica posizione contro di esso, perché a suo avviso un intellettuale non poteva tacere. E non poteva perché a suo avviso un intellettuale degno di questo nome non può e non deve mai rinchiudersi nella torre eburnea della sua privilegiata specializzazione, dimenticandosi delle voci di chi soffre e si affatica quotidianamente per vivere. Al contrario, secondo Geymonat un intellettuale ha sempre il dovere di farsi strumento ed intelligenza degli sfruttati, onde incrementare, con coraggio e coerenza, un processo di trasformazione del mondo esistente, delle sue contraddizioni e dei suoi stessi crimini. Senza peraltro mai indulgere ad alcun moderatismo che a suo avviso costituiva la vera tabe mortale della tradizione civile, culturale ed etica italiana. Per questa ragione di fondo, anche se Geymonat riconosceva, francamente, tutte le sconfitte da lui subite nel corso del suo impegno politico, amava tuttavia aggiungere di considerarsi «uno sconfitto che lotta sempre.