“Quando nel corso degli umani eventi diviene necessario per un popolo sciogliere i vincoli…”Inizia così la Dichiarazione di Indipendenza delle colonie britanniche nell’emisfero americano che portò alla loro guerra di liberazione, alla stesura della Costituzione e dei suoi emendamenti noti come “Bill of Rights”, o “Carta dei Diritti”. Quali che siano le macroscopiche carenze della Costituzione Europea che il Cav. Silvio Berlusconi si illude possa essere firmata in tempi brevissimi a Roma, l’assenza di un presupposto fondativo, essenziale, come fu appunto quello dell’Indipendenza americana, inficia alle basi il documento, che fra l’altro appone ceppi “atlantici” – oltre che liberali e liberistici – alla costruzione europea così com’è stata concepita dalla Convenzione presieduta da Giscard D’Estaing. Non a caso l’ex Presiden-te francese ha suggerito come mot-to ufficiale della nuova Unione Europea “uniti nella diversità”, che riecheggia, anzi copia quel “e pluribus unum” sul gran sigillo degli Stati Uniti d’America.
Anche re Giorgio III d’Inghilterra avrebbe approvato una Costituzio-ne che avesse legittimato la presenza di truppe britanniche ed il primato del modello politico ed economico inglese nelle colonie. E difatti la presente amministrazione statunitense, una volta assicurata la permanenza sine die dei presidi militari americani in Europa e l’egemonia del modello USA sul vecchio continente, può anche indulgere in qualche battibecco sui rapporti commerciali o sui conati di resistenza franco-tedeschi, ma non ha trovato nulla cui obiettare nel testo costituzionale verticisticamente elaborato dai presenti proconsoli europei del Grande Impero.
È la prima volta nella storia, prima e dopo Lepanto e Vienna, che una potenza extra-continentale esercita con i suoi insediamenti militari un dominio così schiacciante su ogni istanza di autonomia economica e culturale, oltre che politica, della Vecchia Europa. La contestazione a tutto campo proviene naturalmente dai movimenti no-global e per la pace che hanno mobilitato decine di milioni di giovani nell’uno e nell’altro continente, ma anche chi non sostiene la necessità di “sciogliere i vincoli” e si limita a prendere atto di questa evidente, fattuale realtà, viene colpito dall’anatema di anti-americanismo (nessuno menziona il ben più virulento anti-europeismo che da tempo divampa oltreoceano), viene accusato di ingratitudine per il contributo statunitense alla sconfitta del nazifascismo (nessuno ricorda quello ben più costoso in vite umane dell’URSS) e per il contenimento dell’espansionismo sovietico che avrebbe altrimenti spazzato via le democrazie europee (tutto da dimostrare il presunto quanto irrealizzabile intento di Stalin di muovere l’Armata Rossa fino a Bonn, Parigi, Roma o Londra). L’imputa-zione più malevola e diffusa è comunque quella di voler ignorare deliberatamente i comuni valori di democrazia e libertà che dovrebbero legare indissolubilmente Stati Uniti e l’Europa e pertanto prevalere su ogni altra aspirazione all’indipendenza da Washington; ora più che mai per via della guerra permanente e globale dichiarata da George W. Bush al terrorismo internazionale.
È proprio su questa presunta comunanza di valori che è necessario formulare alcuni fondamentali distinguo sulla base del più elementare nozionismo storico e di una sommaria analisi degli eventi contemporanei. Il Presidente degli Stati Uniti, secondo quanto riportato dal New York Times, negli ultimi quattro mesi ha pronunziato 182 volte la parola libertà (liberty e freedom) ed una trentina di volte la parola democrazia.
I due aulici termini sono coniugati nelle Costituzioni Europee, ma non in quella degli Stati Uniti, dove si parla più volte di libertà, di repubblica e mai di democrazia. Negli ultimi due secoli è stato questo il tema di un dibattito ricorrente, che il più delle volte ha portato al consenso sulla formula “gli Stati Uniti sono una repubblica dagli istituti democratici”. Non si tratta di una distinzione di lana caprina, perché i padri fondatori avevano cassato il termine democrazia dagli atti fondativi della repubblica per il semplice motivo che erano ossessionati dal timore della mob rule, di un governo affidato alla “teppa”, anche se da questa venivano esclusi milioni di schiavi (il collegio elettorale agisce tutt’ora da filtro e da moderatore sulle “esuberanze” del suffragio universale).
Ma anche il concetto di libertà viene formulato e interpretato in maniera diversa negli Stati Uniti e in Europa. Nei primi viene concepito come libertà individuale, nel “perseguimento della felicità”, nella libera impresa e nell’acquisizione di beni, nell’intolleranza per ogni forma di intervento o controllo dello Stato; si richiama cioè all’empirismo di Locke condito con molto fondamentalismo religioso. Sul vecchio continente è un derivato dell’età dei lumi e viene coniugato con i limiti e gli interessi del sociale. In terra d’America è parte integrale di un manifest destiny concepito dal diciannovesimo secolo a tutt’oggi come investitura divina e spinta propulsiva dell’espansione degli ex coloni sull’intero continente ed al di là dei suoi confini (nella coscienza collettiva è poca cosa se questo “destino manifesto” è stato realizzato con il genocidio dei natives, delle popolazioni indigene). Se c’è in verità un filo conduttore nell’intera storia americana, questo va identificato nella lotta costante alle limitazioni del “sociale” e di qualsiasi sua tracimazione politica nel socialismo. Prima e dopo i martiri di Chicago celebrati il primo Maggio, la libertà individuale e di impresa imposta sulle classi lavoratrici gronda sangue, e la parentesi del New Deal rooseveltiano va interpretata nel quadro della devastante crisi degli anni ‘30, come il tentativo in extremis di salvare il capitalismo riconquistando i consensi popolari quando più di centomila disoccupati americani prendevano la strada dell’Unione Sovietica alla ricerca di posti di lavoro. Libertà individuale, destino manifesto ed espansionismo vengono da sempre inquadrati nel contesto di un exceptionalism degli Stati Uniti, una nazione che si distingue pertanto nettamente da tutte le altre del nostro pianeta. Non si tratta di un convincimento dei soli neocons repubblicani oggi al potere, ma esso viene condiviso dai cosiddetti progressisti del Partito Democratico. “La nostra nazione – dichiarava il senatore democratico Joseph Liebermann, candidato alla vicepresidenza nel ticket di Al Gore – è stata scelta da Dio e investita dalla storia del compito di rappresentare un modello per il mondo intero.” Il che, eccezionalità o meno, crea costantemente dei problemi a chi non voglia accettare quel modello e lo respinga con le armi in mano infliggendo di tanto in tanto qualche temporanea ma pesante sconfitta alla nazione-modello. Si deve all’ossessivo perversare del manifest destiny se ognuna di queste sconfitte – i great american disasters – è stata trasformata in trampolino di lancio per l’espansione globale dell’Impe-ro: la caduta del fortino dell’Alamo nel Texas per incorporare metà del Messico negli Stati Uniti; l’ancora misteriosa esplosione della corazzate Maine nel porto dell’Havana per scatenare la guerra ispano-americana conclusasi con la conquista di Cuba, Haiti e le Filippine; Pearl Harbour per estendere l’egemonia nucleare della superpotenza nel Pacifico e nel mondo intero; ed ora le due Torri per l’occupazione dell’Afgha-nistan, dell’Irak e per il controllo non più indiretto sulle risorse energetiche mediorientali. Ed ogni volta queste grandi imprese belliche sono servite anche a soffocare ogni opposizione, ogni dialettica alternativa all’interno e all’estero. Si è fatto un gran parlare del nuovo unilateralismo americano degli ultimi tempi, anche se se questo unilateralismo che praticamente ha fatto carta straccia del Trattato di Westfalia è stato sempre una costante dell’evoluzione imperiale USA con o senza il contorno delle tanto paventate e illusorie ricadute nell’isolazionismo: non erano isolazionisti ma unilateralisti i senatori che bocciarono la Società delle Nazioni del Presidente Wilson.
Questa tendenza fondamentale è naturalmente diventata più palese nei nostri giorni. “Negli ultimi decenni – ha scritto Clyde Prestowitz nel suo recente saggio Nazione Canaglia: l’unilateralismo e il fallimento delle buone intenzioni – gli Stati Uniti hanno inficiato e minato alle basi ogni trattato internazionale; dall’avvento al potere dell’amministrazione Bush lo hanno fatto con particolare accanimento nel settore delle mine anti-uomo, della vendita delle armi automatiche, dell’accordo ABM, della proliferazione nucleare, della tortura, della Corte Penale Internazionale, della tutela ambientale di Kyoto e dei diritti dei minori.” C. Prestowitz non è – come ha sottolineato l’Economist – un altro Noam Chomsky o “una delle scimmiette dedite alla resa incondizionata” nella memorabile etichetta appioppata dal Pentagono ai politici ed intellettuali francesi: no, è un conservatore di vecchio stampo che, prima di assumere la presidenza dello Economic Strategy Institute di Washington, era stato uno dei più accaniti e pugnaci negoziatori per il commercio estero dell’amministrazione Reagan.
È questo dunque il modello USA che attraverso una globalizzazione a stelle e strisce viene imposto all’Europa e al mondo intero. “Sciogliere i vincoli” con una nuova Dichiarazione di Indipendenza è oggi una necessità prioritaria e non vuole certo dire prendere le armi contro l’iperpotenza. Basterebbe contrapporre ai nefasti propositi dei Blair e dei Berlusconi una moderata politica di contenimento dell’Impero, di benign neglect, di “benevola inosservanza” della sua intollerabile egemonia culturale e del suo controllo sui mass media.