La concertazione dopo il 16 aprile

Per cercare di capire cosa sia stato l’evento del 16 aprile per la classe operaia (dico evento in quanto era da quasi venti anni che non si proclamava in Italia uno sciopero generale di otto ore) a mio modo di vedere c’è bisogno di due chiavi di lettura.
La prima sta proprio nell’evento stesso, preceduto dalla grandissima manifestazione del 23 marzo a Roma. Questa mobilitazione, sentita unitariamente dai lavoratori, oltre al gran successo avuto, già evidente nella manifestazione del 23 a Roma, dall’enorme impatto mediatico, ha fatto sì che con lo sciopero generale del 16 aprile le tre Confederazioni hanno incominciato a spendersi una parte del “plusvalore” accumulato nello scontro sull’Articolo 18 con Confindustria e Governo per sacrificarlo sull’altare della concertazione, che riprenderà dopo il 1° Maggio, come dimostra l’incontro segreto del 24 aprile fra il Ministro dell’Economia Tremonti e i Segretari Generali di Cisl e Uil.
La seconda chiave di lettura è quella che si vive all’interno delle fabbriche. In queste realtà l’indizione dello sciopero generale del 16 aprile è stata la valvola di sfogo per quanti in questo decennio sono stati espropriati del conflitto con l’accordo del luglio ’93.
L’accordo del luglio’93 non solo ha espropriato del conflitto la classe operaia, ma ha determinato una rottura netta del vertice sindacale con la base operaia, in special modo sotto l’aspetto rivendica-tivo, tanto è vero che in occasione dei rinnovi contrattuali non si fanno più le assemblee in cui di-scutere gli aspetti normativi e gli aumenti salariali, anzi questi ultimi sono agganciati all’inflazione programmata stabilita nel Dpf che il Governo presenta ogni anno.
In parole povere, si può affermare che da un decennio all’interno dei luoghi i lavori si esercita, quando è possibile, una democrazia a “sovranità limitata”. A questo si aggiunga che, come nella mia fabbrica, dalla metà degli anni ’90 è incominciato un turn-over abbastanza corposo, e che nei giovani entrati con un’età che va dai 16 ai 25 anni, nella maggior parte dei casi non c’è nessuna cognizione di cosa sia fare sindacato, per non parlare poi di cosa voglia dire impegno politico, e questo a prescindere dalle cognizioni di ognuno.
In questi anni di condivisione giornaliera del lavoro con questi giovani ho avuto, a volte, l’impressione che molti di essi abbiano, al posto della testa, un terminale-video, e che questo sia in diretta connessione con l’elaboratore centrale dell’azienda. Infatti ho provato tantissime volte, ed a più riprese e con diversi soggetti, ad instaurare un dialogo ed immancabilmente ho ottenuto un ri-fiuto, quasi come quando si inserisce un Cd-Rom in un computer e questo lo rifiuta, non ritenendolo compatibile con il suo sistema operativo. Queste mie considerazioni mi portano ala conclusione che, se siamo arrivati a questi esiti, c’è stata da parte di noi anziani la colpa di non aver saputo o voluto trasmettere alle ultime generazioni quei valori e quei principi che per noi erano e sono irrinunciabili: il rispetto e la dignità del lavoratore nei luoghi di lavoro e nella società; l’esercizio della democrazia fra le Rsu e noi operai; la pratica della solidarietà tra lavoratori all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro.
E’ mia convinzione che la realtà da me descritta sia comune a tantissime altre aziende e che la pos-sibilità di un coinvolgimento di queste generazioni di giovani sia reale, a patto che i lavoratori più anziani si adoperino all’interno dei luoghi di lavoro per far sì che questi giovani non vengano mai a trovarsi ad agire da soli, bensì supportati almeno da due o tre operai anziani, in special modo quando questi giovani sono avvicinati dai vari capi e capetti di turno.
E’ questo un primo passo per unire i lavoratori nella lotta, ma passi ulteriori richiedono una consa-pevolezza, sempre più diffusa, della trasformazione profonda del sindacalismo concertativi.
Molti di voi ricorderanno che l’ultima battaglia rivendicativa sui diritti, è stata quella sulla riduzione dell’orario di lavoro conclusasi nel 1984. Orbene, è da quell’anno che il sindacalismo confederale ha incominciato la sua mutazione genetica in soggetto puramente istituzionale. Fino ad allora, infatti, il sindacato era stato riconosciuto dalle istituzioni come “soggetto sociale”. Ora, se vogliamo capire questa mutazione, non è possibile astrarre da un contesto più generale: l’unificazione europea e la seconda fase della riconversione industriale, con l’immissione, sempre più massiccia, di tecnologia informatica. Il Sindacato, negli anni che vanno dall’84 al ’90, ha avuto la funzione di puro e semplice equilibratore economico, riflettendo passivamente l’accelerazione dell’unità europea sullo spondo dell’incipiente globalizzazione.
Tutto questo ha portato all’accordo del luglio ’92 sull’abolizione della “scala mobile”, con questo accordo si sigla una mutazione genetica del sindacalismo confederale da “soggetto sociale” a “soggetto istituzionale”.
Ormai il dado è tratto, così nel luglio ’93 si sigla l’accordo sulla rappresentanza sindacale e il sinda-calismo confederale viene riconosciuto quale rappresentante del 100% dei lavoratori italiani.
Bisogna ricordare che i due accordi non vengono, in ambedue i casi, sottoposti a referendum, cosa consueta all’epoca per esercitare la democrazia nei luoghi di lavoro. E’ cosi che dal luglio ’92 è in-cominciato l’esercizio della “sovranità limitata” all’interno dei luoghi di lavoro.
Per diretta conseguenza noi lavoratori metalmeccanici, nel luglio ’94 ci troviamo un rinnovo del contratto di lavoro già siglato, senza che questo sia mai stato discusso prima. Inoltre ci troviamo modificata anche la parte normativa ed in specie l’articolo 19 sul computo delle assenze per eventi sanitari.
Ma, come si dice, al peggio non c’è mai fine, ed ecco che nel ’95 con il Governo Dini si fa quell’accordo sulla riforma pensionistica che non più di sette-otto mesi prima non si era fatto con il Governo Berlusconi. Su questo accordo si effettua finalmente un referendum che ha un vizio demo-cratico, in quanto ad esso si chiamano ad esprimersi i pensionati, i quali non erano minimamente intaccati dalla “riforma”, ma non si fanno votare i lavoratori disoccupati, e questo perché si doveva-no creare a priori le condizioni affinché nel referendum vincessero i sì.
Per non parlare poi dell’accordo dell’anno dopo, definito “Pacchetto-Treu”, dal nome dell’allora Ministro del Lavoro, che prevedeva, fra l’altro, il lavoro interinale ed i famigerati contratti d’area.
Questi ed altri importanti passaggi dell politica sindacale segnano, a mio giudizio, un cambiamento sostanziale della natura del sindacalismo confederale. Con ciò non voglio dire, contro l’evidenza, che il sindacalismo concertativo non può veicolare e persino promuovere le spinte operaie, ma che può farlo solo di fronte a governi, come l’attuale, che arrivano a rifiutare la sua stessa funzione i-stituzionale.
Quello che, a mio modo di vedere, il sindacato-istituzione non può fare senza negare sé stesso è organizzare l’autonomia rivendicativa e politica della classe lavoratrice, a partire dal salario.
Seguendo la via concertativa, quella della rappresentanza senza lotta, il sindacato può anche diven-tare l’interlocutore di governi moderati di centro-sinistra, come è accaduto.
L’esperienza di questi anni, però, dimostra che entrambi preparano la rivincita sociale e la vittoria elettorale delle destre.