La colpa dei 5: essere cubani

*Direttore di redazione della rivista Nuestra América

Da tempo ormai si fa un gran parlare della poca obiettività e completezza dell’informazione in Italia. È sicuramente il caso di unirsi al coro, essendo certi della parzialità della stessa. Parzialità intorno alla quale, poi, è tutto un fiorire di opinioni che spesso tendono proprio a distorcere e finanche ad occultare le notizie stesse ed i fatti. “Quando po – tremo dire tutta la verità – sosteneva Leo Longanesi – non la ricorderemo più”, è questa una realtà che diventa sempre più evidente nella società italiana: tutti pensano di ricordare tutto, di sapere, di conoscere, ma in realtà hanno ben chiara solo la opinione che, più volte transitata sui media, ha avuto la meglio sulle altre. Altre, che non sono meno obiettive e meno attendibili, hanno solo la sfortuna di non essere di gradimento al “Grande Fratello” e quindi di circolare poco o niente. Ci sono poi quelle notizie così particolari che non vanno proprio date, perché su di esse non vi si può confezionare sopra alcuna opinione soddisfacente (che soddisfi cioè il padrone del vapore) e allora queste notizie scompaiono. La “soddisfazione del padrone” è infatti il primo target del “buon giornalista” italiano, ormai non si scrive più per il lettore ma solo per compiacere il capo; i giornalisti proni sono la stragrande maggioranza, compiacendo il capo spesso finiscono per compiacere anche il sistema politico ed economico, finiscono per acquisire il titolo a frequentar salotti e la loro opinione, per quanto spesso inutile e non richiesta, diventa, ahinoi, la pubblica opinione. E, come sosteneva il grande giornalista Joseph Pulitzer (che non era un comunista): “una stampa cinica e mercenaria prima o poi creerà un pubblico ignobile”.

I CINQUE E L’INFORMAZIONE

La vicenda dei cinque cittadini cubani ingiustamente detenuti nelle carceri degli Stati Uniti, aldilà degli aspetti giuridici e politici che pure esamineremo, rappresenta la prova evidente della deriva dell’informazione in Italia, in Europa e nel mondo. E rappresenta anche la prova provata che il “manovratore” siede sugli scranni del potere a stelle e strisce se vogliamo ricordarci, per esempio, delle misure adottate addirittura dal Miami Herald poco più di un anno fa che dovette licenziare l’editorialista Pablo Alfonso, beneficiato da ben 175 mila dollari, Olga Connor che scriveva sulle pagine culturali, foraggiata con 75 mila dollari ed il responsabile delle pagine dedicate ai cubani di Miami, Wilfredo Cancio, che aveva in – cassato 15 mila dollari: tutti a libro paga della cricca che compone l’amministrazione di Bush jr. Se era notorio che nel bilancio Usa vi fossero stanziati circa 100 milioni di dollari per alimentare la guerra sporca contro Cuba, il fatto che qualche destinata – rio del bottino sottratto ai contribuenti nordamericani appartiene al mondo della stampa dimostra in maniera lampante che la stampa stessa è utilizzata dai guru della guerra permanente come una bomba al fosforo sui civili. Nel 2004 per far conoscere agli statunitensi la vicenda di René, Gerardo, Antonio, Fernando e Ramon un comitato di solidarietà internazionale si vide obbligato a comprare una pagina del New York Times per 60.000 dollari; la potente macchina informativa nordamericana aveva infatti brillantemente eluso la notizia per quasi otto anni, impossibilitata a creare opinioni compiacenti al potere. Oggi, almeno negli Stati Uniti, le cose stanno cambiando. In una conferenza stampa tenutasi ai primi di novembre presso la sala stampa del Senato a Roma, Roberto González, avvocato e fratello di uno dei cinque detenuti, ha sottolineato come ad Atlanta, dove è in corso un giurì d’appello, la stampa ha cominciato, seppur timidamente, a dare informazioni sulla vicenda. Sperare in un atteggiamento simile da parte della stampa italiana ci sembra tuttavia un’aspettativa mal riposta: «La storia dei cinque cubani, ignorata dalla maggior parte dei media mondiali – scrive amaramente Gianni Minà – è emblematica in questo senso, e per non morire il giornalismo dovrebbe sentire l’esigenza etica di combattere questo triste modo di essere dell’informazione attuale» .

LA VICENDA GIUDIZIARIA

Chi sono i Cinque e, soprattutto, quali sono le loro colpe? Dopo aver a lungo seguito la questione mi pare di capire che i Cinque hanno una unica grande colpa: essere cubani, cittadini di un paese che, a distanza di quasi 50 anni dal trionfo della rivoluzione dei barbudos, continua a rappresentare una delle grandi ossessioni dell’establishment statunitense; un paese da mezzo secolo oggetto di una guerra non dichiarata, che ha fatto comunque 3.500 morti e non solo elude quello che è il diritto sacrosanto ad esistere dell’Isola, ma anche il diritto alla sua autodeterminazione. I Cinque sono quindi un tassello di quel grande mosaico che prende il nome di bloqueo e che punta al ripristino del diritto di proprietà degli Usa sul territorio caraibico (e sui suoi beni). Ogni legge statunitense, ogni iniziativa che vede “Cuba” all’ordine del giorno, è ispirata al diritto della forza; in questo senso ha scritto correttamente su Nuestra América il magistrato italiano Luca Baiada: «il primo equivoco da mettere da parte, quando si parla dei Cinque, è quello del misurare l’innocenza con il metro di co – loro che hanno fabbricato le regole, cioè che hanno predisposto la colpa. Invece, l’intreccio pulsante di storia, il groviglio che unisce la loro vicenda contraddice il canone consueto di una generica difesa, per collocare la dimensione della persecuzione nel quadro del conflitto». Come non definire una persecuzione una detenzione che è iniziata con 17 lunghi mesi di isolamento nel famoso hueco, con il trasferimento di ciascuno in cinque stati diversi e molto distanti tra loro, con il divieto (non scritto, ma di fatto applicato) di poter ricevere visite dai familiari (mogli e figli vengono respinti alla frontiera perché ritenuti pericolosi per la democrazia Usa: ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate se non si trattasse di un argomento così drammatico e delicato). Né tantomeno processare i Cinque a Miami rientra tra le più elementari garanzie di cui dovrebbero godere gli imputati. Al riguardo risulta interessante il racconto di Wayne Smith, professore all’Università di Baltimora: «Nel 1993 la Fondazione Nazionale Cubano-Americana mi aveva assurda – mente accusato di diffamazione […]. Presentammo istanza affinché il processo si svolgesse altrove ma, come immaginavamo, fu respinta nonostante l’atmosfera di tensione che si respira a Miami riguardo a qualunque cosa legata a Cuba. Dissi ad Alfredo Durán, un vecchio amico avvocato che si era fatto carico della mia difesa: “non preoccuparti, Alfredo, sono sicuro che farai un lavoro eccellente. Malgrado l’evidenza del nostro caso e l’efficacia della tua difesa, quasi sicuramente perderemo. Ma vinceremo in appello, allorché prevarrà il diritto sulle passioni politiche”. E così successe. Perdemmo la causa nel primo pro – cesso, ma ottenemmo una vittoria schiacciante in appello». Pur se è ormai noto che i cinque agenti dell’antiterrorismo cubano hanno svolto un lavoro di intelligence mirato a porre un freno alle attività terroristiche messe in atto da squadroni militari che si armano, si addestrano ed operano a partire dal territorio della Florida, nella stragrande maggioranza dei casi tese a colpire il turismo, sia per quanto riguarda le persone che le infrastrutture, lavoro che aveva come unico obiettivo quello di salvare la vita a centinaia di turisti ed operatori del settore e, quindi, non solo a cubani ma a cittadini dalle provenienze più disparate, essi per la “solida” democrazia nordamericana sono delle spie che vogliono sovvertire l’ordine costituito e rappresentano un pericolo per la società. Si dipana da questo obbrobrio concettuale tutta una teoria sulla natura e sulla identità del terrorismo che vale la pena di analizzare.

TERRORISMO O TERRORISMI?

Non so voi, ma io quando sento pronunciare la parola “democrazia” da Bush jr. o dalla Rice, sento un brivido freddo correre lungo la mia spina dorsale. A maggior ragione di questi tempi in cui le lancette del secondo mandato del guerrafondaio presidente Usa hanno iniziato il giro dell’ultimo anno. Penso a quante cambiali non abbia ancora onorato e quanta fretta abbia di spingere il piede sull’acceleratore della sua brama imperialista. È ormai sotto gli occhi di tutti che terrorismo e guerra economica sono finalizzati al conseguimento della “democrazia nordamericana”, quel tipo di democrazia cioè che si esporta perché torni funzionale esclusivamente a conservare le consolidate strutture del potere a stelle e strisce. Poco più di due anni or sono proprio “contro il terrorismo, per la verità e la giustizia” fu il tema di un partecipatissimo incontro internazionale a L’Avana. In quella occasione il direttore scientifico di Nuestra América, Luciano Vasapollo, sulla questione ebbe a sostenere: «Il conflitto fra interessi economici ed espansionistici differenti di Usa e Ue sta evidenziando il dispiegarsi non di una globalizzazione ma di una competizione globale che può portare a guerre contro tutti quei paesi reputati non compatibili con gli interessi dell’imperialismo», ossia il concetto che si diceva prima, implementato da un ruolo della Ue non di secondo piano che, mi pare onesto aggiungere, nel caso specifico dell’Italia si riduce alla più fedele sottomissione ai diktat di Washington. La non compatibilità con gli interessi dell’imperialismo è il punto di demarcazione tra bene e male che inopinatamente viene utilizzato anche per il terrorismo, che è malvagio se esercitato contro l’impero ma è buono se utile all’affermazione (o alla sopraffazione?) degli interessi statunitensi. Rappresenta, questa interpretazione, una vecchia litania, un insulso criterio che fu sperimentato anche quando, crollato il muro di Berlino e, per certi versi, “sparito il nemico cattivo”, si cominciò a fare della cosiddetta dissidenza cubana un elemento di dibattito internazionale, pompato dalle migliori testate al soldo dell’impero. Già allora mi chiedevo (e mi chiedo tuttora) “perché i terroristi a Cuba sono definiti dissidenti, mentre spesso i dissidenti di altre nazioni sono liquidati (anche fisicamente!) come terroristi ?” La risposta l’ha data Vasapollo, è tutta contenuta all’interno di quella compatibilità che esclude ogni altra cosa. Esclude la Resistenza, quella con la erre maiuscola, da quella irachena a quella palestinese, finanche a quella dei movimenti che, Genova docet, vengono criminalizzati anche dopo essere stati massacrati nelle piazze e nei commissariati.

LIBERTA’ PER I CINQUE

Nuestra América come rivista ritiene che sia necessario, iniziato ormai il decimo anno di ingiusta detenzione, dar vita ad una battaglia per la libertà dei cinque cubani e lasciar perdere qualsiasi percorso teso al perseguimento di una giustizia che dovrebbe giungere proprio da un paese che proprio della giustizia, negli ultimi anni, ha fatto strame. Come ritenere affidabile un sistema giudiziario che si serve di luoghi di tortura accertati come Guantanamo o Abu Graib; che manda assolti piloti che, per giocare a guerre stellari, hanno ucciso venti persone sulla funivia del Cermis; che si rifiuta non solo di giudicare, ma di dare spiegazioni plausibili sull’omicidio dell’agente italiano Calipari massacrato in Iraq dalle truppe di occupazione Usa? Si può davvero sperare in un processo giuridicamente corretto se è vero, come è vero, che la stessa «Condoleezza Rice, parlando a nome del presidente degli Stati Uniti, aveva scritto […] che l’ar – resto dei cinque cubani costituiva una vittoria della politica degli Stati Uniti contro Cuba»? Essere certi che gli interrogativi appena posti abbiano una chiara connotazione retorica è alla base della battaglia per la libertà dei Cinque che la nostra rivista propone ed andrà ad attivare già dal prossimo numero in libreria nel mese di gennaio, al quale sarà allegato un dvd contenente una sintesi della corposa attività svolta nel corso del 2007: quella per la libertà dei cinque cittadini cubani ne rappresenta il nucleo. Se non si è più che convinti dei limiti giuridici e della barbarie politica oggi vigente negli Usa, ogni iniziativa rischia di partire zoppa o, addirittura, con le gambe monche. Ed il secondo aspetto (quello politico) risulta fondamentale. Sul piano politico-giudiziario non si può non augurarsi un ampio coinvolgimento delle forze politiche, a cominciare dalla vicenda della richiesta dell’estradizione del terrorista “buono”, amico e protetto degli Stati Uniti, Posada Carriles. Questa battaglia può rappresentare un viatico ad una battaglia di civiltà che, almeno per una volta, riponga lo stato di diritto sui corretti binari. Non nascondiamo il timore che essa possa essere ancora una volta ignorata da quella parte politica che ancora si ostina a chiamarsi di sinistra ma che oggi, con la nascita del Partito Democratico, è tutta protesa in un processo di autoriconoscimento al di fuori dei perimetri del socialismo ed allo spasmodico accreditamento sul terreno dell’ideologia neoliberista. Tutto ciò ci impoverisce numericamente, ma ci dimostra almeno che le forze da mettere in campo non possono essere risparmiate. Fabio Di Celmo è una vittima italiana del terrorismo “buono” statunitense, i mandanti di questa strategia di terrore, purtroppo di più ampio raggio, si chiamano Posada Carriles, Bosch, Frometa e girano indisturbati (a volte anche sotto la protezione dell’FBI) per le strade di Miami, riveriti ed ossequiati come eroi. Per un Bin Laden per il quale vale la pena di scatenare una guerra, tanti altri binladen godono della protezione, dell’amicizia e del rispetto di George W. Bush che non più tardi di alcuni anni fa, dopo l’11 settembre 2001, ebbe a dichiarare che è terrorista anche chi protegge i terroristi, forse non ricorda ciò che dice o forse sta gettando la maschera… Le battaglie difficili non vanno però lette come impossibili, la battaglia per rendere giustizia a Fabio deve diventare un tassello di una più ampia strategia che porti al raggiungimento della libertà di Gerardo, René, Fernando, Ramon ed Antonio, al superamento dell’infame blo – queo contro il quale all’Onu tutti votano ma che pochi poi aggirano realmente per paura del solito poliziotto mondiale sempre in vena di rappresaglie. Bisogna quindi iniziare a lavorare per porre all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda ignobile che vede cinque persone al decimo anno di barbara detenzione, in un paese che spesso e a sproposito si prende a modello per quanto riguarda i diritti civili, magari facendo breccia, tra un telequiz ed un resoconto di una intercettazione telefonica del politico pruriginoso con l’aspirante velina, per far sapere a tutti chi è che protegge i terroristi e quanto infami siano le pretese degli stessi di volerlo combattere scatenando guerre genocide che nulla hanno a che vedere con la libertà e la democrazia. La buona riuscita di ogni iniziativa in tal senso è nelle mani di quelle compagne e di quei compagni che ancora si pongono il socialismo come obiettivo possibile, di quelle associazioni e di quei movimenti che non si arrendono alla corrente trascinante della globalizzazione neoliberista. Sono questi i soggetti che possono alzare alta e con orgoglio la bandiera per la libertà dei Cinque. La rivista Nuestra América sarà lieta di lottare con voi.