La carta di identità della Consulta

Rifondazione comunista ha proposto a più riprese la formazione di una Consulta (o Forum, come in un primo momento era stato detto) tra i diversi segmenti della sinistra anticapitalistica. Conviene pronunciarsi per tempo, e pubblicamente, su questa proposta. Con una avvertenza preliminare: sarebbe stolto sofisticare sui dettagli, tirare la coperta verbale da una parte o dall’altra, smarrirsi nelle famigerate “questioni di metodo”, indulgere a furbizie diplomatiche. Meglio cogliere il senso generale della faccenda. E sforzarsi di qualificare in positivo la fisionomia di una Consulta possibile. Sicuri almeno di una cosa: o questo organismo resterà lettera morta, finendo in fretta nella soffitta delle buone intenzioni, oppure esso darà luogo a una reazione a catena che non lascerà alcunché di immutato, né programmi, né forme della politica, né stile della militanza.

È certissimo che, nella discussione degli organi dirigenti di Rifondazione, la Consulta non è mai concepita come qualcosa di ornamentale, o peggio, come una forma di associazionismo collaterale e subalterno. Viene sottolineato con insistenza e lucidità, infatti, il carattere non sufficiente del partito rispetto all’invenzione di una politica adeguata al capitalismo postfordista. Tuttavia, è indubbio che molto intensa (perché sorretta dalla forza di inerzia) sarà la tentazione di fare la Consulta con i timidi, che con il partito sono d’accordo quasi su tutto ma esitano a prendere la tessera, o con gli eterni vicini di casa (con i quali anche i litigi hanno qualcosa di intimo). È ben vero che per Rifondazione è importante la sinistra Ds, ed è quanto meno interessante la “Rivista del manifesto”: ma è chiaro che la collaborazione con quest’area non rappresenta di per sé un fatto nuovo.

Il punto dirimente è, piuttosto, l’incontro con esperienze e culture realmente diverse, eccentriche, perfino stridenti. Per essere concisi: con coloro che considerano il movimento del 1977, compresa la cacciata di Lama dall’Università di Roma, un istruttivo precedente della conflittualità cui può dar luogo il lavoro precario, intermittente, frammentato; che reputano la riproposta del modello occupazionale fordista un’utopia reazionaria (“utopia” perché irrealistica, “reazionaria” perché volta all’indietro, in preda a nostagia per un ciclo di accumulazione capitalistica ormai tramontato), là dove invece bisognerebbe elaborare una strategia di lotte e di obiettivi che assuma l’intreccio (e l’alternanza) di lavoro e non-lavoro come la condizione strutturale con cui misurarsi; che mettono al centro della scena la connessione ben stretta, tipica del postfordismo, tra produzione e sapere, lavoro e affetti, plusvalore e linguaggio; che reputano possibile, anzi doveroso, scindere il concetto di “pubblico” da quello di “statale”. In questione è una lunga tradizione (risalente ai primi anni Sessanta) che identifica l’attualità del comunismo con la soppressione del lavoro salariato, divenuto ormai un costo sociale eccessivo e ingiustificato, con il rattrappimento e la dissoluzione dello Stato in quanto “monopolio della decisione politica”, con la massima valorizzazione di ciò che rende unica e irripetibile la vita dei singoli. Questa tradizione, certamente molto diversa da quella gramsciana che predomina in Rifondazione (nonché tra i “timidi” e i “vicini di casa”), ha o no diritto di cittadinanza nell’eventuale Consulta?

Il rapporto di produzione come unico terreno realistico di una grande politica: ecco, detta di un fiato, la carta di identità della Consulta. Ma il rapporto di produzione postfordista (proprio perché ha incluso in sé la vita nel suo insieme (abitudini maturate al di fuori del lavoro, affetti, ethos, sapere) è diventato talmente pervasivo da sfuggire alla vista. Per questo, metterlo al centro dell’attenzione politica non è cosa breve, né facile. I modi in cui si forma attualmente il plusvalore, l’inedita ampiezza della cooperazione produttiva, l’articolazione effettiva della giornata lavorativa sono ambiti ancora largamente ignoti.
Rifondazione comunista ha proposto a più riprese la formazione di una Consulta (o Forum, come in un primo momento era stato detto) tra i diversi segmenti della sinistra anticapitalistica. Conviene pronunciarsi per tempo, e pubblicamente, su questa proposta. Con una avvertenza preliminare: sarebbe stolto sofisticare sui dettagli, tirare la coperta verbale da una parte o dall’altra, smarrirsi nelle famigerate “questioni di metodo”, indulgere a furbizie diplomatiche. Meglio cogliere il senso generale della faccenda. E sforzarsi di qualificare in positivo la fisionomia di una Consulta possibile. Sicuri almeno di una cosa: o questo organismo resterà lettera morta, finendo in fretta nella soffitta delle buone intenzioni, oppure esso darà luogo a una reazione a catena che non lascerà alcunché di immutato, né programmi, né forme della politica, né stile della militanza.

È certissimo che, nella discussione degli organi dirigenti di Rifondazione, la Consulta non è mai concepita come qualcosa di ornamentale, o peggio, come una forma di associazionismo collaterale e subalterno. Viene sottolineato con insistenza e lucidità, infatti, il carattere non sufficiente del partito rispetto all’invenzione di una politica adeguata al capitalismo postfordista. Tuttavia, è indubbio che molto intensa (perché sorretta dalla forza di inerzia) sarà la tentazione di fare la Consulta con i timidi, che con il partito sono d’accordo quasi su tutto ma esitano a prendere la tessera, o con gli eterni vicini di casa (con i quali anche i litigi hanno qualcosa di intimo). È ben vero che per Rifondazione è importante la sinistra Ds, ed è quanto meno interessante la “Rivista del manifesto”: ma è chiaro che la collaborazione con quest’area non rappresenta di per sé un fatto nuovo.

Il punto dirimente è, piuttosto, l’incontro con esperienze e culture realmente diverse, eccentriche, perfino stridenti. Per essere concisi: con coloro che considerano il movimento del 1977, compresa la cacciata di Lama dall’Università di Roma, un istruttivo precedente della conflittualità cui può dar luogo il lavoro precario, intermittente, frammentato; che reputano la riproposta del modello occupazionale fordista un’utopia reazionaria (“utopia” perché irrealistica, “reazionaria” perché volta all’indietro, in preda a nostagia per un ciclo di accumulazione capitalistica ormai tramontato), là dove invece bisognerebbe elaborare una strategia di lotte e di obiettivi che assuma l’intreccio (e l’alternanza) di lavoro e non-lavoro come la condizione strutturale con cui misurarsi; che mettono al centro della scena la connessione ben stretta, tipica del postfordismo, tra produzione e sapere, lavoro e affetti, plusvalore e linguaggio; che reputano possibile, anzi doveroso, scindere il concetto di “pubblico” da quello di “statale”. In questione è una lunga tradizione (risalente ai primi anni Sessanta) che identifica l’attualità del comunismo con la soppressione del lavoro salariato, divenuto ormai un costo sociale eccessivo e ingiustificato, con il rattrappimento e la dissoluzione dello Stato in quanto “monopolio della decisione politica”, con la massima valorizzazione di ciò che rende unica e irripetibile la vita dei singoli. Questa tradizione, certamente molto diversa da quella gramsciana che predomina in Rifondazione (nonché tra i “timidi” e i “vicini di casa”), ha o no diritto di cittadinanza nell’eventuale Consulta?

Il rapporto di produzione come unico terreno realistico di una grande politica: ecco, detta di un fiato, la carta di identità della Consulta. Ma il rapporto di produzione postfordista (proprio perché ha incluso in sé la vita nel suo insieme (abitudini maturate al di fuori del lavoro, affetti, ethos, sapere) è diventato talmente pervasivo da sfuggire alla vista. Per questo, metterlo al centro dell’attenzione politica non è cosa breve, né facile. I modi in cui si forma attualmente il plusvalore, l’inedita ampiezza della cooperazione produttiva, l’articolazione effettiva della giornata lavorativa sono ambiti ancora largamente ignoti.