Rientro da Belgrado dove il governo jugoslavo sta cercando in Parlamento di superare l’opposizione degli alleati socialisti montenegrini (SNP) alla sua bozza di legge che permetterebbe, con una modifica costituzionale, la consegna di Slobodan Milosevic al Tribunale Nato dell’Aja.
Torno da una Jugoslavia dove i disoccupati sono ormai il 60%, solo 850.0000 operai lavorano a tempo pieno; la Zastava, ricostruita sotto Milosevic ma ora ferma, aspetta un compratore, come tutte le maggiori imprese serbe; i disoccupati non ricevono più sussidi né buoni-cibo; l’inflazione dall’ottobre scorso è dell’80% e nell’ultimo mese era del 18% in più; lo stipendio medio è di 100.000 lire, con cui si compra mezzo paio di scarpe. Le tasse universitarie sono quadruplicate; per le superiori pubbliche si sta introducendo una retta. Si è riunito in una Belgrado dimessa, smagrita e apatica, ma percorsa da incessanti scioperi, il Comitato Internazionale di Difesa di Milosevic che raggruppa 600 personalità di tutti i paesi, è copresieduto da Ramsey Clark e ha per vicepresidente chi scrive. Il Comi tato ha diffuso alcuni documenti giuridici e politici sull’aberrazione legale e morale che vede l’ex-presidente Milosevic in carcere dopo che tre mesi di indagini e centinaia di testimoni non hanno prodotto la benchè minima prova a sostegno dell’unica accusa formulata:”abuso di potere”. Infatti, quell’indagine è stata chiusa. Ora si dovranno trovare altre accuse. Il Comitato (che ha raccolto un milione di firme contro arresto e estradizione solo in Ucraina) intensificherà la sua campagna contro le violazioni del diritto perpetrate a Belgrado e all’Aja su ordine USA. Si è incontrato in carcere con Milosevic e ne ha constatato le gravi condizioni di salute (patologie coronariche e cardiache) che non è consentito affrontare con medici indipendenti e terapie appropriate. Milosevic si avvale di 10 studi legali volontari (e di osservatori stranieri del Comitato) che ne hanno chiesto l’immediata scarcerazione per mancanza di pro- ve. Per esercitare ulteriori pressioni su un Kostunica già convinto e sul governo jugoslavo, è giunta a Bel -grado il 19 giugno Carla Del Ponte, PM all’Aja. Sabato 16 giugno, il Comitato ha partecipato alla manifestazione di massa del Partito Socialista Serbo dove ho visto almeno 25.000 persone ( a dispetto di giornali che scrivono “più di 5000”). Dopo il comizio in Piazza della Repubblica, un grande corteo si è recato fino alla prigione centrale di Belgrado. In prima fila la nuova, ringiovanita e bonificata dirigenza. Significativa la partecipazione di tanti operai e studenti, soprattutto alla luce delle pesanti intimidazioni che, con continui arresti e la soppressione di ogni voce dissidente nei media e nelle istituzioni, sta portando avanti il regime DOS.
Il videogioco dei profughi albanesi
C’è un film statunitense –“Sesso e Potere”- con Robert De Niro e Dus tin Hoffman che andrebbe consigliato a tutti coloro, attori e compar se della “comunità internazionale”, che ancora si spazzolano la coscien za con le fandonie che sono servite da nulla osta per l’”intervento umanitario”.
Il film racconta di un presidente colto in flagrante stupro che riesce a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica facendo inventare ai suoi creativi una guerra in Albania, nella quale le forze della democrazia si dovevano confrontare con “i terroristi”.
Guerra inesistente, virtuale, ma resa del tutto credibile dai trucchi elettronici messi in opera sugli schermi televisivi: dall’attrice travestita da albanese che corre disperata in un villaggio elettronico, elettronicamente fatto saltare dai terroristi, ai profughi in fuga che da dieci diventano diecimila, all’eroe USA paracadutato oltre le linee nemiche (elettroniche) e che riappare nel video di un amatore con la maglietta piena di buchi elettronici che dicono in codice Morse “coraggio, mamma”.
Abituati dai dieci anni a vedere guerre solo sugli schermi, tutti gli americani ci cascano, il presidente è perdonato per la marachella sessuale e trionfalmente rieletto per un secondo mandato.
Il film è un lavoro illuminante sulle aporie fabbricate dagli stragisti della guerra balcanica e dai loro corifei mediatici: 500.0000 profughi albanesi, centinaia di fosse comuni, 100.000 albanesi trucidati, negazione di diritti umani, espulsioni, pulizia etnica.
Invenzioni diventate tragicamente vere, ma solo dopo l’ingresso della Nato in Kosovo e sostituendo alla parola “albanesi” le parole “serbi”, “rom”, “albanesi dissenzienti”, “goranci” , “ebrei” ed altre minoranze dall’UCK eliminate dal Kosovo (come prima dalla Krajna e dalla Bosnia) nel numero effettivo di 400.000.
La verità sul “genocido” e i né-né
Cose che, a obiettivo raggiunto, furono ammesse dagli stessi mandatari della catastrofe, anche se a volte solo sotto la pressione dell’evidenza prodotta dai numeri e da qualche fonte inconfutabile come l’ONU, gli investigatori FBI, lo stesso Tribunale dell’Aja. Con i massimi media occidentali che riconoscono l’inganno attuando l’astuto meccanismo papale “ammetti oggi per poter tornare a mentire domani”, restano nella fanghigliosa trincea degli irriducibili del “mostro Milosevic” e dei “nazionalisti serbi” solo i patetici vessilliferi del famigerato partito del né-né, né con la Nato né con Milosevic, la discreta passarella etica di ripiego per il passaggio delle armate militari, politiche ed economiche che hanno frantumato un magari contagioso esempio di Europa unita, un’inammissibile resistenza alla Nato, agli USA e al pensiero unico, una barriera all’avanzata imperiale verso l’Asia centrale.
Il Putsch del 5 ottobre
Era una delle giornate più desolate che una lunga carriera di giornalista dalla parte “sbagliata” mi avesse offerto. 6 ottobre 2000. Kostunica ha prevalso su Milosevic, la sede del parlamento con dentro le schede che assegnavano la vittoria elettorale alle sinistre messo a fuoco, le bande di sottoproletari di periferia, capeggiate da fighetti della media ed alta borghesia che, dopo aver indirizzato il pogrom contro le istituzioni democratiche, spazzavano il paese picchiando, cacciando, uccidendo, distruggendo chiunque e qualunque cosa non aderisse al colpo di Stato. Un golpe costato agli USA la bellezza di 700 milioni di dollari (oltre ai finanziamenti passati dallo speculatore imperialista numero uno, George Soros, alla cosiddetta “società civile”) per la creazione, formazione, rifornimento di organizzazioni e mezzi d’informazione incaricati del golpe e del successivo regime autocratico DOS con relativo programma di svendita del paese alle multinazionali imperiali.
Ero appena tornato da Kragujevac, dove solo pochi mesi prima avevo visto un’entusiasta classe operaia ricostruire la sua grande fabbrica di automobili, ricostruzione alla quale il governo aveva destinato il 6% della sua spesa. Nella risalita dalla stazione, costruita da Bismarck nel primo dei tentativi germanici di sfondare i Balcani per arrivare alle fonti d’energia, al grande rondò dell’Hotel Slavia la strada era popolata da vortici di polvere sollevati da un vento gelido, e da rari e frettolosi passanti. A Kragujevac la Zastava era stata chiusa, i buoni pas to aboliti, i finanziamenti alla ricostruzione cancellati, le macchine ferme, e voci di un’imminente cessione a una multinazionale stranie ra. I sindacalisti, che avevano speso pezzi doloranti di vita per continuare a far battere quel cuore di classe operaia, organizzandone anche la sopravvivenza dei figli con le sottoscrizioni di amici in Italia, venivano aggrediti, sputati, malmenati, estromessi. Una di loro, la più combattiva e forte, mi accompagnò all’autobus per Belgrado. Ci salutammo dai finestrini, guardando facce di cui le lacrime facevano perdere i contorni. Qualcuno, di là dal mare, inneggiava a una qualche “rivoluzione democratica”, donne organizzate si riunivano a Podgorica, sotto l’occhio benevolo del presidente narcotrafficante Djukanovic, per rumoreggiare sul “fascismo serbo”, settori vociferanti della “sinistra sociale” inviavano plausi ed auguri ai dirigenti di una combriccola di rinnegati chiamata Otpor e di una Radio del circuito spionistico USA, B-92, entrambi reduci da corsi di formazione tenutigli da generali CIA a Budapest. Intanto un popolo, che aveva resistito al genocidio di bombe, contaminazione e fame, aveva perso tutto: tante vite, la dignità, la verità, la sua autodeterminazione, la libertà, la sovranità, la convivenza con gli altri, il ruolo nella resistenza ai paesi all’imperialismo, il futuro.
Il dopo sbronza
Mi passavano per la testa queste cose, su verso l’Hotel Slavia, in una Belgrado svuotata di tutto se non della depressione. I combattivi slogan contro gli USA e contro la Nato erano stati coperti da minacce di morte a Milosevic, di esultanza per i conquistatori (tutta roba Otpor). L’ubriacatura dei giorni del pogrom, quando un qualche cambiamento, uno qualsiasi, era parso a molti una svolta verso la normalità, il pane, il latte, lo stipendio, la pace, la salute, aveva prodotto i classici postumi del giorno dopo. È vero, Kostunica pareva persona dabbene, patriottica, ma quanto presto s’era capito che il burattinaio era quello Zoran Djindjic, rinnegato e spia, fuggiasco in Germania, führer di pretoriani in camicia nera e testa rasata. Spariti i teppisti dell’assalto al Parlamento, era la maggioranza degli jugoslavi, quelli che avevano visto le loro schede bruciare col Par lamento, a determinare l’umore di una città ingrigita nel suo tardo liberty sfregiato dalle bombe. Dall’euforia della resistenza al vuoto del tracollo e della disillusione. E io vicino a loro, tanto più amaramente e appassionatamente per non aver potuto raccontare una verità che non conveniva, per i più impenetrabili dei motivi. Sì, il tempo è galantuomo, e oggi i cospiratori e corruttori si vantano addirittura dei loro imbrogli. Ma intanto qualcuno dovrebbe chiedersi perché ha retto la coda a chi ha colpito alle spalle, a morte.
Pogrom antipatriottico
Il 24 marzo 2001, anniversario della prima e della seconda aggressione nazista (quest’ultima in salsa Nato) alla Jugoslavia multinazionale e multietnica, il Partito Socialista Serbo (quello che ne rimane dopo arresti e spontanee secessioni verso i vincitori) organizza un convegno internazionale di denuncia dei crimini Nato e della dittatura DOS (tutti i mezzi d’informazione, tranne un piccolo giornale, occupati dai nuovi boss, e così, senza fare prigionieri, tutte le aziende, le istituzioni, ruoli di rilievo pubblici o privati), gli arresti senza incriminazioni, le detenzioni senza processo, le persecuzioni, le uccisioni, le minacce a Milosevic, capo della più grande forza d’opposizione. Il convegno vede la partecipazione di delegati da decine di paesi, trasmette al mondo i dati della realtà jugoslava sotto un regime che sta smantellando ogni protezione sociale, ogni libera espressione del pensiero, ogni fondamento giuridico, e che prepara leggi per la totale svendita del patrimonio nazionale. Seguono manifestazioni che, dopo tanti mesi, raccolgono in piazza decine di migliaia di persone, contro la visita di Solana o della pseudo-magistrata Del Ponte, per l’anniversario dell’aggressione, contro la Nato.
L’incontro con Milosevic
Milosevic mi riceve nella sua residenza. In due ore di colloquio svela i tanti retroscena degli imbrogli statunitensi, da Holbrooke a Dayton, da Rambouillet alle pulizie etniche. Parla della ricostruzione, in effetti miracolosa, che aveva rimesso in piedi il paese a cominciare da sotto le bombe: ”Ecco dove si trova il tesoro di Milosevic”, ride, “nei ponti di Novi Sad ricostruiti, nella Zastava con duemila auto prodotte al mese, nei 10.000 alloggi costruiti in sei mesi e nel 60% delle case e delle fabbriche ricostruite, nell’accoglienza dei rom e degli ebrei cacciati dai nuovi stati etnici, nella sistemazione e cura di oltre un milione di profughi dei quali nessuna ONG occidentale si è mai occupata”. È un Milosevic apparentemente in buona salute, fortemente determinato a resistere e a lavorare per la rinascita del suo paese, con una chiara visione del futuro: ”Quando gli USA innescarono la guerra Iran-Iraq, il nostro amico Ramsey Clark chiese a Kissinger cosa si aspettasse dalla guerra. La risposta fu: ”Che si massacrino a vicenda”. La storia si ripete: guerra tra slavi e musulmani perché si infiacchiscano, si uccidano, sgomberino il campo e perché l’Europa non abbia pace e stabilità. Basta guardare al Kosovo, alla Cecenia, al Daghestan, ora alla Macedonia. Tutti territori indispensabili per le infrastrutture di rapina imperialistiche, per l’assedio a Russia e Cina, da soggiogare e, economicamente, da dare in appalto alla criminalità organizzata. Ora gli USA si sentono minacciati da Putin, dalla Moldavia, dall’Ucraina, dalla Bielorussia, dalla Cina. Li considerano minacce all’Occidente solo perché hanno fatto qualche passo verso una maggiore dignità nazionale e verso sinistra, per curare con maggiore responsabilità i propri interessi. Molte cose stanno cambiando. E qui la gente si sveglia dall’ipnosi che gli aveva fatto credere che il suo futuro dipendesse dal FMI e dalla Banca Mondiale. Hanno rubato alla Russia centinaia di miliardi e poi vorrebbero negoziare crediti a tassi d’usuraio. Questa Russia ha ancora un potenziale enorme. Deve liberarsi dalle mafie nutrite dall’Occidente che ne devastano l’economia e poi molti giochi si riaprono”.
A Milosevic ripeto l’accusa delle privatizzazioni selvagge che, secondo alcuni, sarebbero state introdotte con il congresso del PSS del 1997. “Nella nostra Costituzione tutte le proprietà sono garantite: statali, sociali, cooperative, private. Il grado di privatizzazione dipende dallo sviluppo dell’economia, dalle condizioni capestro imposte dagli organismi internazionali (che alla fine abbiamo respinto), dall’indebitamento e dalla protezione sociale. Noi avevamo creato un equilibrio ottimale nelle circostanze d’assedio generale in cui ci trovavamo. Abbiamo respinto una privatizzazione totale, soprattutto dei settori strategici, per mantenere comunque un controllo pubblico come ormai non esiste più che in pochissimi paesi. Abbiamo assicurato ai nostri operai il 60% delle aziende privatizzate e limitato al 40% i capitali nazionali o stranieri. Nessuno in Europa lo ha fatto. Abbiamo dato molta terra ai contadini. I 10 ettari della precedente legge erano troppo pochi per una famiglia nell’economia moderna. Ora gli ettari che si possono possedere sono 160. Non è certo latifondo. Quanto alla Telecom – uno scandalo tutto italiano –,la mediazione di un miliardo e mezzo per un prezzo che per noi era conveniente ma costoso per gli italiani, è andata per metà a intermediari cechi. Del resto va chiesto conto agli italiani. Noi non abbiamo visto un dinaro in termini di mazzette. Quella somma ci serviva per ricostruire un’economia devastata dalle sanzioni che, nel 1993, avevano causato un’inflazione del 350 mila per cento. Entro il ’94 eravamo riusciti a ridurre l’inflazione a zero, e il dinaro rimase stabile fino al ’99. Eravamo in miseria ma sani, e tra il ’94 e il ’98 il nostro PIL crebbe dell’8%, più che in tutti paesi vicini, per quanto foraggiati da tedeschi e statunitensi. Ecco un altro torto jugoslavo: non c’è un serbo che lavori in altri paesi, mentre qui venivano a lavorare migliaia di rumeni e bulgari. È questo il “tesoro” di Milosevic, quello che si affannano a cercare ovunque senza poterlo trovare mai.” Poi, tornando a sorridere, l’ex-presidente ricorda di come Madeleine Albright, “la fidanzata di Thaci” (capobastone dell’UCK) la chiama, si sia irritata quando da Holbrooke venne a sapere che avevo accettato, senza né fuggire né far versare sangue, il verdetto delle elezioni presidenziali: “Ma come, quello sciagurato ha accettato la sconfitta?” sbottò l’Albright. Evidentemente si contava su una nuova tornata di bombe, o come minimo su una bella guerra civile, propiziata dal mio rifiuto a passare le consegne”.
L’Imperatore ordina, il vassallo obbedisce
Congedandomi, Milosevic mi stringe la mano e dice: “Grazie per l’informazione corretta”. E aggiunge con forza : ”Never give up” : non arrendersi mai.
Tre giorni dopo la residenza dell’ex-presidente viene presa d’assalto da una banda di civili mascherati ed armati. La folla li respinge. Segue una notte convulsa di trattative. La mattina successiva irrompono i poliziotti e si portano via Milosevic. È il 31 marzo, giorno del ricatto USA: cento miliardi di lire per l’arresto del dittatore. Il giorno più buio nella storia di uno dei più nobili popoli del mondo. Nella sala in cui ero stato ricevuto poche ore prima e dove non c’erano che mobili, i poliziotti affermano di aver rinvenuto un arsenale bellico: decine di Kalachnikov, bombe a mano, addirittura mortai. Una volta Milosevic mi aveva detto: “Non voglio che si sparga una goccia di sangue serbo in mia difesa”. Questo per gli eroi cartacei nostrani che si sono indignati perché Milosevic non si è fatto uccidere, ordinando alle sue guardie di sparare sulla polizia.
Un popolo alla gogna
Sono passati altri mesi. La stretta repressiva ed autoritaria è stata rafforzata. Decine di dirigenti del PSS sono in carcere senza accuse. Tutte le sedi del PSS sono state confiscate e il partito espulso. La DOS vanterebbe nei suoi confronti un credito di 8 miliardi di dollari: allo scioglimento della Lega dei Comunisti, le proprietà immobiliari sarebbero passate al Partito Socialista e a quello neocomunista (YUL), anziché essere distribuite tra tutti i 20 partiti jugoslavi, compresi quelli di estrema destra! Milosevic è in carcere, dove ha subito due attacchi cardiaci e viene definito “sotto sedativi”. Gli vengono negate cure e sanitari di sua scelta. Le imputazioni ufficiali sono ancora quelle vaghissime di corruzione e appropriazioni indebite, ma si stanno preparando altre in consonanza con i dettami del Tribunale dell’Aja , che portino alla forca. L’arresto è avvenuto alla scadenza fissata da Washington, in cambio di una mancia al servo.. Altri 50 milioni verranno elargiti solo dopo che l’ex-capo di Stato sarà stato consegnato ai giustizieri Nato di Carla del Ponte. Sovranità e dignità nazionali sono finite là dove oggi è rinchiuso Milosevic. In tutto il mondo personalità della politica, della cultura, della comunicazione sottoscrivono appelli alla liberazione di Milosevic, contro un arresto arbitrario e dettato dalla potenza genocida per poter evitare lo scoglio dei danni di guerra a un paese completamente disintegrato e avvelenato e, addirittura, chiedere ai popoli jugoslavi, che per tre volte lo hanno eletto liberamente, i costi della guerra d’aggressione. Diffuse sono anche le preoccupazioni, mi dice Vladimir Krsljanin, un compagno comunista che ha assunto il pericoloso compito di portavoce di Milosevic e responsabile internazionale del PSS, che (come accaduto per il leader turco Ocalan, irresponsabilmente messo sulla via che lo ha portato ai suoi aguzzini) a forza di torture e psicofarmaci Milosevic venga ridot to a un vegetale e che, poi, ammetta tutto e incrimini tutti. Incredibilmente molta sinistra volta la faccia dall’altra parte. Del resto anche curdi e palestinesi hanno finito col dare fastidio.
Un paese che risarcisce i suoi carnefici
Gli USA ritengono che se si riuscisse a far condannare Milosevic dallo pseudotribunale dell’Aja, sarebbe tutto il paese a poter essere dichiarato responsabile per il costo delle bombe umanitarie e per tutte le spese militari e di “mantenimento della pace” sostenute fin dal 1992. Secondo calcoli del Pentagono, la quota statunitense per l’anno fiscale 1999 ammonterebbe a 5,5 miliardi di dollari per le sole “operazioni di pace”. Mentre la guerra vera e propria sarebbe costata 6,6 miliardi, ai quali andrebbero aggiunti i 12 miliardi di dollari stanziati dal Congresso per le attività in Kosovo e il finanziamento dell’UCK, di Otpor, della DOS e dei media jugoslavi. Dal 1992 il costo del mantenimento delle truppe USA in Bosnia e Kosovo sarebbe di 21,2 miliardi di dollari. Condannare Milo sevic significherebbe allora giustificare i bombardamenti, le distruzioni, le uccisioni e fornirebbe le basi per una richiesta di risarcimento.
Nella Jugoslavia, dove gli USA e la Nato hanno ripercorso passo passo il piano di Hitler e di Mussolini (inventore della “Grande Albania” ed espulsore di serbi dal Kosovo)di frantumazione dell’unità degli slavi del sud e nella quale l’arresto del difensore del paese e di una democrazia con ancora forti connotati sociali, persi ovunque in Europa, serve esclusivamente a legalizzare e giustificare guerre e massacri occidentali, la gente oggi sta peggio che sotto o dopo le bombe. Inflazione quasi al 100%, embargo tuttora in massima misura in vigore, carenza di tutti i beni necessari alla vita, dalle medicine, al pane, al latte, alla corrente. Le maggiori industrie sono ferme, come la Zastava, mentre è in preparazione la legge che ne permette l’acquisto da parte di capitali stranieri. Su dieci milioni di abitanti, un milione e mezzo è disoccupato. Ma il vicepresidente della Serbia, Aleksandar Pravdic, ha detto in un incontro con gli industriali di Vicenza che 700 mila potrebbero essere impiegati in piccole e medie imprese sul modello del nordest. Un invito implicito a delocalizzare verso i Balcani, dove una “manodopera qualificata, laboriosa, di basse pretese” (definizione di Otpor) non manca. Pravdic ha promesso la rapida privatizzazione di ogni impresa serba, con risvolti impliciti nello sviluppo finanziario e bancario dell’area. È inoltre richiesta e sollecitata la presenza italiana nel settore bancario, dove sono già attive Banca Cattolica, Popolare di Molfetta, Commerciale, Beo-Finest.
Il nuovo compito di Optor
Se subito dopo il putsch d’ottobre pareva che gli USA volessero rinunciare a mantenere in vita la loro creatura Otpor (il cosiddetto “movimento degli studenti”, caro a settori del popolo di Seattle e a giornalisti di sinistra che lo volevano con sé a Nizza e Praga), oggi l’atmosfera di repressione e terrore viene di nuovo affidata a questa feroce accozzaglia di manutengoli del regime e, soprattutto, della CIA. Tutti dichiarati seguaci di Djindjic e ostili al presunto “moderato” Kostunica (che tuttavia non ha battuto ciglio sull’arresto di Milosevic e ora collabora alla stesura di una legge di modifica costituzionale che ne permetterebbe la consegna all’Aja e che pare aver addirittura accettato la spartizione del Kosovo ripulito dai serbi contro il dettato ONU), si adoperano con larghezza di mezzi a mantenere il paese in uno stato di paura e soggezione. Ai cartelloni costati centomila dollari, appesi in tutto il paese e in cui si vedeva un Milosevic sullo sfondo di penurie e devastazioni, se ne sono aggiunti ora altri che urlano semplicemente “Consegnatelo!”, intendendo l’estradizione all’Aja. Ultimamente se ne sono aggiunti di nuovi, sempre di Otpor, con la minacciosa scritta “Vi stiamo osservando”, diretta contro chi, al potere, dovesse manifestare timidezze sia nell’ottemperare a Djindjic, ministro dell’economia, direttore del FMI e capo del G17 (il gruppo dei 17 economisti serbi fedeli al verbo thatcheriano), nei suoi progetti di privatizzazione totale, sanità e scuola compresi, sia nella consegna di Milosevic al boia para-americano, sia nella repressione degli elementi cosiddetti antisistema: sindacalisti, esponenti e militanti della sinistra, ex-sindaci, giornalisti non allineati (ai quali, peraltro è negata la parola: uno di essi che in tv stava criticando certe misure economiche ultraliberiste, si è visto di colpo oscurare lo schermo, cosa mai accaduta durante la precedente “dittatura”, quando il 90% dei mezzi d’informazione erano in mano all’opposizione prezzolata dagli USA e dai tedeschi).
Tra gli episodi dell’ ininterrotto pogrom di Otpor si può citare quello, esemplare, di Ruzica, insegnante serba in una città della Vojvodina a maggioranza ungherese (a Budapest, con l’avallo Nato, si rivendica questa provincia della Federazione). Pluripremiata per attività umanitarie interetniche con l’italiana ABC e con l’Unicef, Ru zica, titolare della scuola più attrezzata ed innovativa della regione, è stata cacciata su due piedi. Rivela che le municipalità a maggioranza ungherese si stanno unendo in unità omogenee, che i libri di testo e i programmi vengono dettati da Budapest e che ad allievi e insegnanti viene imposto un questionario in cui ci si deve dichiarare di una determinata etnia. A Natale ai bambini ungheresi messe di regali. A quelli serbi niente.
La dottoressa Klara Mandic, fondatrice della società d’amicizia serbo-ebraica (tutta la comunità ebrea di Pristina si è rifugiata a Belgrado) e i cui famigliari furono sterminati dai nazisti è stata assassinata l’11 maggio a Belgrado. La colpa sua: aver lavorato instancabilmente con la sua organizzazione per smascherare le spaventose menzogne diffuse dai media occidentali, con ahinoi il supporto di molti esponenti di sinistra, contro i serbi e il loro governo. Una sua “lettera aperta agli ebrei d’Ame rica” ne porta testimonianza. La polizia si è subito buttata sulla versione della rapina, nonostante assolutamente nessuno degli averi di Klara fosse scomparso dalla sua abitazione. Klara è stata prima bastonata e poi finita con un colpo alla nuca. Un metodo applicato ripetutamente nell’eliminazione, prima del golpe, di una dozzina di stretti amici e collaboratori di Milosevic, compreso il ministro della Difesa, il governatore della Vojvodina (autore confesso un militante di Otpor), il direttore della compagnia di bandiera.
Globalizzazione. E l’imperialismo?
Il regime ha ogni interesse a soffocare le voci critiche. L’economia jugoslava funziona a un terzo della capacità di prima del putsch, si susseguono scioperi contro salari di 13 marchi o non pagati, contro la svendita di aziende a interessi stranieri. All’inizio di maggio Dusan Matic, avvocato dell’ex-capo della sicurezza Rade Markovic, ora in carcere, ha dichiarato in una conferenza stampa che il suo cliente era stato minacciato di morte se non avesse accettato di testimoniare contro Milosevic (contro il quale non si è ancora trovato neanche un testimone). Altri sei esponenti del precedente governo sono morti in circostanze misteriose
Parlando degli amici esteri di Otpor, Vladimir Krsljanin si è chiesto come mai, dopo aver offerto fraterna solidarietà ai teppisti di Otpor e alle spie di Radio B 92, ora essi tacciano di fronte alla repressione e al lo strangolamento in atto contro il popolo jugoslavo. “Si limitano a proporre aggiustamenti riformistici alla globalizzazione, ma non hanno assolutamente nulla da dire sull’uccisione di un intero paese, sulla sanguinarie manovre UCK-USA in Macedonia, sulla pulizia etnica in Kosovo e neppure sui massacri in Palestina. Non muovono un dito per difendere l’Iraq dal genocidio strisciante. Sono gli stessi che inneggiano agli ultra-reaganiani della DOS, oppure al pacificato EZLN messicano, ma si scordano i campesinos, gli operai, i guerriglieri delle FARC-EP. Come mai tanta mobilitazione per il G8 a Genova e silenzio totale sui genocidi di Palestina e Jugoslavia, dei curdi e degli iracheni? Evidentemente, o ci si muove all’interno dei canoni occidentali dei “diritti umani”, o si è fuori, dimenticando che tutti coloro che si battono per il proprio riscatto sono da sostenere”.
Ricordiamo ai faciloni dell’oblio, che Otpor fu creata attraverso larghe sovvenzioni USA ai giovani disoccupati, attratti dalle solite false immagini del bengodi capitalista. Nell’edizione di “News and Information” della primavera 2001, una pubblicazione del National Endowment for Democracy (NED, braccio culturale della CIA per la destabilizzazione dell’Europa orientale, in cui si diplomò Vesna Pesic, leader dell’Alleanza Civica jugoslava e poi di Otpor, fiduciaria con Sonia Licht di George Soros), si ammette che NED ha finanziato Otpor, Radio B2-92, l’importante agenzia di notizie BETA, nonché le più seguite emittenti televisive. Nei giorni scorsi NED ha ospitato, insieme all’International Republican Institute (struttura PR dell’estrema destra repubblicana) , i dirigenti di Otpor per un seminario sul controllo della “normalizzazione” jugoslava. L’incarico conferito a Otpor è l’accentuazione della spinta a una rapida messa in atto della “terapia shock” imposta dal FMI all’economia e allo stato sociale.
Optor o mafia?
Una delle più recenti prodezze di questa cosca di ascari USA è una campagna di cartelloni con il viso di Milosevic e la scritta Overi, che vuol dire “Assicuratevi che (Milosevic) sia liquidato”. È inquietante, o piuttosto rivelatore, che il termine Overi sia adoperato esclusivamente dalla mafia per descrivere i tre colpi sparati dal sicario contro il corpo di una vittima già uccisa. Otpor, secondo il documentatissimo sito statunitense “Emperor’s clothes”, rappresenterebbe per gli USA una carta di ricambio per l’ipotesi che l’attuale regime, dilaniato da conflitti interni, non garantisca l’esito della totale colonizzazione della Serbia.
Un’interessante analisi delle manovre della “comunità internazionale” guidata dal FMI in corso d’attuazione per colonizzare la Jugoslavia, viene offerta da Michel Chossu dovsky, docente a Ottawa e uno dei più autorevoli studiosi della regione balcanica (ripetutamente presente anche su Liberazione e il Manife sto). L’arresto dell’ex-capo di Stato di una nazione debitrice e la sua consegna all’Aja, richiesti dai suoi principali creditori,sarebbe la condizione preliminare per negoziati su prestiti, previsti per quest’estate, che il regime di Belgrado spera ammonteranno a un miliardo di dollari. Washington, a seguito di una legge del Congresso (HR 1064), ha addirittura avvertito Kostunica che, a meno che il suo governo non avesse adempiuto incondizionatamente al dettame USA, ogni aiuto finanziario verrebbe negato. Un avvertimento che Washington non ha difficoltà a mettere in pratica, visto che gli USA sono il principale azionista sia del FMI, che della Banca Mondiale, organismi a cui è stato fatto sapere che il Tesoro USA potrebbe trattenere la propria quota di ogni loro futuro aumento di capitale. È così che si è visto Kostunica piegarsi alla creazione a Belgrado di un ufficio del Tribunale dell’Aja, nonché a modifiche costituzionali che subordinano la giurisdizione jugoslava sui propri cittadini a quella di tale tribunale. Un’ulteriore condizione richiesta dagli USA è stata l’immediato rilascio dei terroristi UCK condannati per crimini commessi in Kosovo.
Condizione accettata con la frettolosa approvazione, il 28 febbraio, di una legge di amnistia. I detenuti liberati sono poi rientrati in massa nei ranghi dell’UCK attivo in Macedonia.
Una colonizzazione chiamata “aiuti”
Quanto alla strategia degli “aiuti” alla ricostruzione, ne è responsabile una conferenza di banchieri e creditori dei paesi che bombardarono la federazione. L’obiettivo non è solo di scremare profitti dalla ricostruzione (di bonifica del paese più intossicato del mondo, con una decuplicazione dei decessi e delle malformazioni da chimica ed uranio, taciuti dalle autorità, ma documentate dagli organismi scientifici e sanitari, non si parla), ma di conquistare il controllo e il possesso completi dell’economia nazionale, come agevolati dalle nuove leggi sulle privatizzazioni. Il debito estero della Jugoslavia ammonta a 14 miliardi di dollari, 5 dei quali dovuti al Club di Parigi (composto da paesi Nato) e 3 al Club di Londra, un consorzio di banche private. 16 miliardi sono dovuti a un altro consorzio, l’International Coordinating Committee, capeggiato dallo statunitense Citigroup e dal gigante tedesco Westdeutsche Landesbank. A Belgrado si chiede di riconoscere la totalità di questi arretrati come condizione per la concessione di ulteriori crediti, trascurando il fatto che quel megadebito estero è stato in massima parte imposto al precedente governo jugoslavo dallo strangolamento operato dal FMI e poi da guerre ed embargo. Sono previsti prestiti alla ricostruzione di entità assai modesta. In compenso dal paese verranno estratte le residue ricchezze. Una partita di giro occidentale e Nato rispetto alla quale il famoso “scandalo Telecom-Telekom Serbjia”, incredibilmente avvallato anche da esponenti di sinistra, rappresentava una sacrosanta difesa degli interessi nazionali jugoslavi (a prescindere dalle immancabili tangenti tra italiani).
Per esempio, un primo prestito-ponte di 206 milioni di dollari, concesso da Svizzera e Norvegia nel gennaio scorso, è servito esclusivamente a rimborsare il FMI. A sua volta il prestito di 151 milioni di dollari fatto a Belgrado dal FMI a titolo di “assistenza nel dopo-conflitto” ha dovuto essere utilizzato per ripagare Svizzera e Norvegia. La propaganda di Otpor e di Zoran Djindjic, quisling serbo secondo cui “stanno giungendo grandi benefici finanziari” e “il FMI sta aiutando la Jugoslavia a riprendersi”, è un inganno di proporzioni kosovare. Ciò che in effetti resta dopo le rapine del FMI sono miseri 21 milioni di dollari stanziati dal golpe ad oggi. E anche questi sono condizionati a contratti per la ricostruzione affidati a ditte estere e, comunque, scelte dai creditori, nonché alla cessione a prezzi di svendita del patrimonio industriale jugoslavo. Commentando un prestito di consolidamento della Banca Mondiale, che servirà a rimborsare il debito jugoslavo di 1,7 miliardi nei confronti della stessa BM, lo stesso Mladan Dinkic, governatore della Banca Centrale e dirigente del FMI, ha ammesso che il paese non si deve aspettare proprio niente in termini di aiuti. In compenso la privatizzazione forzata – alla quale potranno partecipare unicamente concorrenti stranieri – ha messo all’asta l’intera economia jugoslava. Ecco un’altra faccia di quella che qualcuno volle chiamare la “rivoluzione democratica di Belgrado”.
Macedonia: gli USA signori della guerra?
Come l’aggressione alla Jugoslavia, anche quella in corso alla Macedo nia trova tra i suoi moventi principali il crescente bisogno USA di fonti d’energia. Abolito il minimalistico trattato di Kyoto, che prevedeva un modesto risparmio energetico nei paesi industrializzati, Bush Jr ha dichiarato che lo standard di vita degli americani deve essere mantenuto e migliorato con ulteriori approvvigionamenti di idrocarburi. E questi si trovano nei Balcani e oltre. Il fatto strabiliante è che, mentre ufficialmente condanna il “terrorismo UCK” (lo fa anche l’Europa, ma più sinceramente, vista la sua vitale necessità di stabilità nella regione), il governo USA lo fomenta, arma, addestra ed appoggia.
E contemporaneamente sostiene, arma ed addestra l’esercito macedone, conquistando in tal modo il controllo completo del conflitto, con il fine di destabilizzare una zona strategica per la quale dovranno passare le colossali infrastrutture petrolifere del “corridoio otto”. Il controllo totale del Kosovo, attraverso la presenza superarmata di 49.000 militari NATO, più i miliziani cripto-UCK della Forza di Protezione del Kosovo, e con Bondsteel, la più grande base USA allestita all’estero dalla guerra del Vietnam, gli USA accendono e spengono a piacere – anche a seconda del comportamento europeo in relazione alle varie guerre commerciali e diplomatiche in atto tra UE e USA – i conflitti nei Balcani. Un conferma diretta di questo gioco delle parti, in cui figura un unico giocatore, viene da documenti del Congresso USA che confermano come la CIA intrattenga tuttora rapporti di collaborazione sia con l’UCK che con le organizzazioni criminali di cui i terroristi albanesi sono il braccio armato.
Lo strumento per questa strategia è un’agenzia di veterani statunitensi, arruolati come mercenari alle dipendenze del Pentagono, chiamata Military Professional Resources Inc. (MPRI) e collocata ad Alexandria, in Virginia, a due passi dalla sede CIA di Langley. Quest’agenzia ha un contratto ufficiale con il governo macedone per l’allestimento delle sue forze armate e, in forma più discreta, un accordo con le bande UCK oggi operative nel Nord della Macedonia. Non per nulla è documentato che sistematicamente le truppe anglo-americane rilasciano i terroristi albanesi responsabili di eccidi o trovati con le armi addosso. Interlocutore diretto del MPRI è ancora una volta l’immarcescibile Agim Ceku, ex-generale croato, formalmente ricercato come criminale di guerra per la pulizia entica in Krajna, responsabile ufficiale della Forza di Protezione del Kosovo e organizzatore del secessionismo grandalbanese in Macedonia. Notizie recenti, riferite da giornalisti occidentali e mai smentite, riferiscono anche di un sostanzioso apporto di mercenari ceceni, i seguaci del capo-banda mafioso e sequestratore di persone Basajev. Il cerchio si chiude, e i secessionisti integralisti ceceni, sollecitati dalla Cia, ricambiano il favore degli istruttori dell’UCK venuti a dar man forte ai tempi dell’invasione del Daghestan (territori dell’oleodotto russo da neutralizzare) e dell’insurrezione contro i russi. Se ne trae l’amara constatazione di chi si fosse giovato delle sbagliate o carenti analisi sul la“guerra russa pari a quella Nato contro la Jugoslavia”. La solita inversione tra aggressori e aggrediti. Il territorio in gioco è la valle serba di Presevo, pure aggredita dall’UCK nei mesi scorsi e dalla quale ora, dopo una finta pacificazione firmata dai dirigenti albanesi locali, i terroristi si sono spostati in massa nel nord della Macedonia, evidentemente dopo un accordo serbo-statunitense per il controllo di questa valle.
Parte il corridoio 8
La valle di Presevo è una stretta gola tra le montagne che costeggiano il Kosovo a ovest e un’altra catena montuosa che definisce il confine con la Bulgaria a est. Si tratta di un passaggio strategico da oriente ad occidente utilizzato da secoli per gli scambi commerciali e per il transito di eserciti tra Medio Oriente ed Europa. Ieri si trattava di un territorio usato largamente dalle armate tedesche, oggi serve ai rifornimenti dei secessionisti albanesi in Macedonia e, soprattutto, a chiudere la tenaglia strategica imperialista tra Medio Oriente e Balcani.
Del resto la costruzione dell’oleodotto transbalcanico da Burgas sul Mar Nero, attraverso la Valle di Presevo e la Macedonia, al porto albanese di Vlore, è già in corso ed è affidata al consorzio bulgaro-macedone-albanese AMBO. Dovrebbe diventare operativo entro il 2005. A capo del consorzio, a dominante capitale USA, è E.L. Ferguson, direttore della “Brown & Root” per lo sviluppo dei settori petrolio e gas in Europa. “Brown & Root” è un’associata della multinazionale USA Halliburton, la compagnia petrolifera del vicepresidente (e testa pensante della Casa Bianca) Dick Cheney! Sotto l’ombrello di AMBO stanno poi già operando giganti della globalizzazione come Texaco, Chevron, Exxon, Mobil, BP, Amoco, Agip e Total-Elf. Incidentalmente, anche l’enorme base USA in Kosovo, Bondsteel (350 chilometri quadrati, piste per bombardieri B-52), è stata costruita e viene manutenuta dalla Halliburton. Recente mente il governo USA ha chiesto per la base un prolungamento del contratto d’affitto a 75 anni e, a questo scopo, ha chiesto all’UNMIK, l’organismo ONU che governa il Kosovo, di ripristinare diritti di proprietà andati smarriti nella guerra.
Altro che il “disimpegno dai Balcani”, un tempo volenterosamente attribuito a Bush Due.
Lo stesso Colin Powell ha dichiarato giorni fa che non è prevista alcuna data per l’uscita USA dal Kosovo o dalla Bosnia. È una sorpresa che gli attacchi terroristici contro la Macedonia – a detta di tutti gli analisti un paese che offre un esempio di eccellente convivenza etnica, pari a quella garantita dal precedente governo in Jugoslavia – siano partiti, sotto gli occhi benevoli delle truppe anglo-americane e grazie al sostegno logistico e addestrativo del MPRI e delle SAS (Forze speciali) britanniche, proprio nel momento in cui è stato approvato lo studio di fattibilità per l’oleodotto e il corridoio 8, realizzato dalla “Brown & Root”, ed è stato dato il via ai lavori?
Ai collaterali della mistificazione sulla natura “dittatoriale, nazionalista e privatista” del governo di Milosevic, nonché sul carattere “democratico” della rivolta che ha portato al potere i proconsoli USA, andrebbero ricordati questi elementi che confermano uno scenario da sempre delineato, sulla base di studi seri, dai critici dell’aggressione Nato sostenuta dai “distinguo” di certi pacifisti. Impadronirsi dei Balcani, opportunamente disintegrati e permanente strumento di pressione e ricatto contro l’Europa; eliminare modelli di democrazia e protezione sociale, potenzialmente contagiosi nel mondo della dittatura dell’impresa multinazionale e dell’egemonia dell’imperialismo; aprire strade per i rifornimenti energetici e del narcotraffico sussidiario alla finanza ufficiale; destabilizzare allo scopo gli stati compresi nell’arco balcanico-asiatico; chiudere la tenaglia strategico-militare Medio-Oriente-Turchia-Balcani; completare, con quello politico e militare, l’assedio economico alla Russia e, in prospettiva, alla Cina e agli stati del subcontinente indiano. Sono temi centrali per ogni lotta alla globalizzazione capitalista. Ma chissà se a Genova qualcuno li ricorderà, insieme alla spaventosa sofferenza dei popoli soggiogati o da soggiogare.