Cenere radioattiva di decine di migliaia di proiettili e bombe all’uranio che si stanno mangiando la vita di serbi, bosniaci, albanesi. Cenere tossica di polveri chimiche e di idrocarburi combusti sollevata dai 78 giorni di sterminio bombarolo e aiutata a viaggiare, a insediarsi in terre, acque, polmoni, sangue da un embargo che solo nell’ipocrita disattenzione dei media è davvero finito. Cenere di uno Stato che godeva della stima del mondo e per mezzo secolo aveva indicato ai popoli in lotta di liberazione una via di fuga dalla tenaglia dell’allineamento con le superpotenze, aiutando a costituire un secondo polo planetario della lotta per l’emancipazione umana. Una cenere che ha accecato, intorpidito, avvelenato gran parte della popolazione di questo Stato. Ma sotto la quale, forse, covano e si rianimano braci accese.
Vittime e complici dell’inganno
Cenere sulla testa di una sinistra che si è fatta travolgere e addirittura rendere complice di una devastazione imperialista in Europa, a cinquant’anni dall’”Ultima e più terribile delle guerre”. Cenere per coprire la vergogna di aver sostenuto, anche al di là di ogni evidenza contraria, le più turpi invenzioni delle centrali della disinformazione e della menzogna. Da un sacrosanto bagno di cenere non dovrebbe andare esente quasi nessuno. Non certo la pseudosinistra che, con il “sergente D’Alema” (per gli USA meno di un vivandiere), ha voluto farsi co-protagonista di un crimine per tutti i versi assimilabile all’assalto nazista ai paesi liberaldemocratici e socialisti. Oggi, svuotata di ogni credibilità anche da quello dei suoi tanti tutti capovolgimenti sistemici, quei “moderati” (termine paradossale) pagano il prezzo del crescente rifiuto verso ogni genere di “organismi geneticamente modificati”. Non si salva nessuno perché nessuno ha saputo vedere l’evidenza, neppure dopo le puntuali smentite a valanga, ovviamente reperibili solo in trafiletti mimetizzati o su selezionati media esteri, della più colossale operazione di mistificazione dai tempi del rovesciamento paolino del messaggio nazareno.
C’era chi, a sinistra, serrando gli occhi sulla matrice nazifascista del progetto Grande Albania , “Croazia dei croati”, Bosnia della Sharìa, Montenegro della mafia, e ostinatamente ignorando soldi e ceffi del narcotraffico e dei servizi occidentali che guidavano la marcia dei secessionisti, sproloquiava di “autodeterminazione” nei termini esatti di un Bossi. C’era chi, paludandosi di ecumenico movimentismo, tesseva reti di complicità, “dal basso”, tra centri sociali, ONG, “società civile” e forze e personaggi serbi creati e guidati dal superboss della destabilizzazione finanziario-politica dei paesi liberi, George Soros, dalla CIA e dal BND tedesco. Vanno ricordati il coordinamento filo-occidentale di “Alleanza Civica”, i teppisti fascisti di Otpor, il partito del quisling Zoran Djindjic, il gruppo giovanilistico raggruppato attorno a Radio B92, del circuito USA di Radio Free Europe, formazioni femministe della “società civile” guidata da Sonia Licht (Fondazione Soros) che riuscivano a imbrigliare compagne straniere in convegni a Podgorica nientemeno che sul “Fascismo serbo”, all’ombra di un presidente narcotrafficante come Milo Djukanovic del Montenegro. C’era chi, pilatescamente, si attestava dietro il famigerato “né-né”, lo squallido limbo di chi deprecava i macelli Nato, ma restava un sodale della satanizzazione e s’impegnava soprattutto a bastonare Milosevic e i serbi. Importanti esponenti di questo trasversale schieramento della collusione, indiretta, ma determinante, arrivarono addirittura a costringere i manifestanti per la Jugoslavia e per la pace a cacciare dai cortei e dalle veglie sui ponti le comunità serbe che, con noi, volevano piangere e imprecare sulla patria uccisa.
L’imperialismo, soprattutto europeo nella prima fase dello squartamento balcanico nel segno del marco, ma poi a totale egemonia statunitense, deve molto a questi “agevolatori”. Deve loro l’aver soffocato tutti i tentativi di controinformazione che cercavano di scardinare l’architettura di menzogne su “pulizia etnica”, “fosse comuni” “nazionalismo serbo”, “dittatura” o “tesoro” di Milosevic”, “Milosevic, già uomo degli americani” e “scatenato privatizzatore” (falsità assoluta, molto efficace a sinistra), formazione di estrema destra fatte passare per “giovani democratici anti-regime”.Un qualche alibi, volenti o neolenti, ne veniva all’aggressione e, dunque, il sabotaggio della lotta di massa contro la guerra a quello che era forse il paese multietnico e multiculturale più democratico, pluralistico e socialmente avanzato, pur nelle intemperie e nei ricatti dell’imperialismo finanziario e sanzionatorio, del nostro continente. Oggi i protagonisti di questa aberrazione storica non si coprono il capo delle ceneri che hanno contribuito a disseminare, neppure davanti allo smascheramento delle cosiddette “stragi serbe” di Sarajevo (grande trombettiere, Adriano Sofri), Sebrenica, Racak, al crollo dai 500.000 albanesi del Kosovo secondo il Dipartimento di Stato “probabilmente uccisi”, alle 2080 vittime di tutte le etnie, effettivamente individuate dagli investigatori Nato e dal Tribunale Penale per la Jugoslavia. Eppoi, “Hitlerosevic”, quel capolavoro dell’identificazione, con un falso fotografico, tra nazisti e serbi nel comune allestimento di “campi di sterminio” (quello serbo è poi risultato un campo di raccolta per profughi cui gli operatori della TV inglese ITV avevano messo davanti un reticolato). Senza parlare del pellegrinaggio di ONG, buonisti sciolti e provocatori in perfetta malafede (un nome per tutti, Adriano Sofri) a “Sarajevo multietnica assediata dai serbi”, servito da copertura alla pulizia etnica bosniaca di metà città, abitata da serbi.
The voice of silence
Stanno in silenzio, cronisti ed esperti, voltano il capo dall’altra parte, mentre sia dalla straordinaria lotta di Slobodan Milosevic – contro la scandalosa parzialità del giudice May che gli taglia sistematicamente i tempi e corre in soccorso ai testimoni sbaragliati dall’imputato – nel tribunale-agenzia USA dell’Aja, sia da testimonianze incontrovertibili (vedi soprattutto “Menzogne di guerra”, di Juergen Elsaesser, Città del Sole, 11 euro) escono confermate le verità sul complotto per l’amputazione e la distruzione di un grande pezzo d’Europa. Struzzi. Code di paglia lunghe dalle protette poltrone dei loro collateralismi fino alle ossa del tremillesimo serbo trucidato in Kosovo dopo l’occupazione Nato.
Nel vasto panorama dei media italiani la Jugoslavia – oggi ufficialmente ridotta a “Serbia-Montenegro”, fino a quando gli USA, schiacciando le riserve della tardivamente preoccupata Europa, non otterranno che il collega contrabbandiere Djukanovic imponga la rottura totale – è un buco nero. I pochissimi inviati che hanno seguito, da febbraio, le udienze del processo dell’Aja a Milosevic, hanno smesso quasi subito, quando si sono accorti che riferire correttamente sull’andamento degli interrogatori e controinterrogatori, come sulle condizioni di detenzione dell’imputato, avrebbe minato alla base quanto erano andati raccontando di Slobo e del suo governo fin dall’inizio della crisi. Un’onta alla quale ovviamente preferire, da bravi professionisti, “the voice of silence” alla Simon e Garfunkel. Tocca all’Ernesto, tra le poche pubblicazioni riuscite ad evitare la tagliola dell’inganno imperialista e a denunciarne le prede, a fare un po’ di cronaca.
Il processo
Organizzato, finanziato e diretto dagli USA, il processo all’Aja alla fine di luglio è stato sospeso dal giudice Richard May e aggiornato a settembre, dopo una visita medica, cui finalmente ha potuto assistere anche il medico di fiducia di Milosevic, che ha confermato le gravi condizioni di salute del detenuto, affetto da ipertensione e da seri problemi cardiocircolatori, aggravati dall’inumane trattamento riservatogli nel carcere di Scheveningen (illuminazione costante, isolamento, negato accesso a sanitari personali, negati rapporti regolari con avvocati e famigliari, negata una terapia durante due settimane di “influenza” a giugno, negato accesso a qualsivoglia documentazione, tempi e ritmi massacranti delle udienze imposti dalla riunione, voluto dalla Del Ponte, in uno solo dei processi per i fatti di Croazia, Bosnia e Kosovo. Due imputati serbi sono già deceduti in prigionia, uno con un misterioso “suicidio” per impiccagione). Per la procuratrice Carla Del Ponte, nota per la sollecitudine con cui seppe far coincidere, alla pari del suo predecessore Louise Harbour, le imputazioni a Slobo con i più rovinosi contraccolpi subita dalla Nato nel corso del macello balcanico (gli “errori collaterali”), le cose non erano andate bene. Dopo la contraccusa iniziale di Milosevic, alla mano di una sconvolgente documentazione audiovisiva, sui crimini di guerra Nato, si era assistito a una sfilza di testimoni d’accusa, perlopiù albanesi del Kosovo o ex-membri delle istituzioni jugoslave, letteralmente distrutti dal controinterrogatorio di Milosevic – che si difende da solo e nega riconoscimento al Tribunale-Gestapo, come lo chiamano i serbi – smascherati come bugiardi, scoperti indottrinati dai servizi inglesi, o membri dell’UCK, affogati nelle contraddizioni, a volte in crisi di nervi, a volte addirittura in fuga dall’aula pretendendo di star male.. Al punto che il governo USA, esasperato, ha incominciato a criticare la Del Ponte per non aver saputo mettere in piedi un decente gruppo di testimoni credibili e ha dato da intendere che anche il Tribunale dell’Aja poteva aver fatto il suo tempo. Sviluppo preoccupante per la combriccola di magistrati pinocchieschi dell’Aja, visto che i quattrini per il funzionamento del tribunale e di loro stessi arrivano soprattutto dal Tesoro USA, dal solito Soros, dalla Fondazione Rockefeller, cioè da una delle parti in causa. A proposito di ONG e della reputazione di difesa dei diritti umani riconosciuta alle più note, va segnalata la circostanza che l’intero meccanismo dell’Aja è affidato alla guida nientemeno che di Human Rights Watch, un’escrescenza della CIA, piuttosto ben mimetizzata, cui molti, troppi, riconoscono dignità, indipendenza, onestà.
Torturati per mentire
Un’inarrestabile caduta di credibilità, quello della criminale operetta dell’Aja, che è diventata tonfo finale grazie alle clamorose rivelazioni di Rade Markovic sui metodi di reclutamento dei testimoni e di reperimento delle “prove” , in una delle ultime udienze della prima sessione. In quel momento, il Tribunale Internazionale per la Jugoslavia è letteralmente esploso. Stupefacentemente, ma mica tanto alla luce di quanto rilevato sopra, nessun organo di informazione, nessun militante del “né-né” ne ha dato conto. Rade Markovic era il capo dei servizi di sicurezza dell’ex-presidente. Dopo 17 mesi di “trattamento persuasivo” nel carcere di Belgrado, era stato chiesta la sua testimonianza contro Milosevic. Un testimone-bomba, si diceva nei corridoi del Tribunale, che avrebbe finalmente rovesciato il vento in faccia a quell’irriducibile confutatore di Milosevic e raddrizzato l’ormai claudicante “processo del secolo”.
Invece questo “testimone della corona” ha ferito a morte l’obbrobrio giuridico dell’Aja rivelando una verità che già si sospettava fosse una prassi del Tribunale: tortura e ricatto. Rovesciando non solo le carte, ma l’intero tavolino, davanti a giudici e procuratori rossi di rabbia e imbarazzo, Radovic ha denunciato che a Belgrado, su disposizioni del Tribunale dell’Aja, era stata ininterrottamente torturato dagli sgherri di Djindjic perché si risolvesse a dichiarare il falso contro un imputato la cui figura morale e politica cresceva di giorno in giorno. Un giorno lo venne a trovare addirittura il ministro degli interni, Mihailovic, insieme a Petrovic, capo dei nuovi servizi segreti controllati dalla CIA. Violando la legge, se lo portarono a una cena privata dove offersero a lui e famiglia un cambio d’identità e una vita di lusso in un paese straniero, ovviamente insieme alla cessazione delle torture. Radovic finse di accettare, ma all’Aja denunciò tutto. Non solo. Negò tutte le accuse che avrebbe dovuto avvallare: Milosevic non ha mai promosso una politica di espulsione degli albanesi dal Kosovo, ha insistito che gli autori di violenze contro civili venissero arrestati e processati, non ha mai abusato di fondi dello Stato, non ha mai ordinato assassinii politici, non ha mai intaccato il pluralismo democratico, non ha fatto che difendere, in totale isolamento internazionale e sabotato dalla più gigantesca opera di diffamazione della storia, il suo paese, la convivenza etnica, la pace, contro i fantocci chauvinisti e fascistizzanti allevati nelle serre del’imperialismo…
Non male per un testimone “d’accusa”. Radovic concludeva il suo intervento – ripetutamente e come d’abitudine, quando le cose diventavano imbarazzanti per l’Accusa, interrotto dal giudice May – illustrando con documenti la ferma opposizione dell’ex-presidente jugoslavo a qualsiasi espressione di odio etnico e il suo costante, alla fine disperato, impegno per la salvezza dell’unità dei popoli balcanici, contro gli etnicismi degli eredi del collaborazionismo nazifascista, favoriti dal civilismo “umanitario” di prestigiose ONG “pacifiste” ( totalmente assenti tra i più reietti delle vittime dell’aggressione, il milione e passa di profughi serbi cacciati da Croazia, Bosnia e Kosovo, dove chiaramente “non gira una lira”). Oggi Markovic è in cella a Scheveningen, nessuna Amnesty ne controlla l’incolumità, alla mercè di coloro che ne ordinarono la tortura e che da lui sono stati svergognati. Si può usare il termine “eroe”?.
Un caso già sollevato dal Comitato Internazionale per la Difesa di Slobodan Milosevic (presidente Ramsey Clark) che ha anche sollecitato i parlamentari europei a denunciare a Strasburgo le pesanti violazione dei diritti giuridici e umani del prigioniero Milosevic. Un’iniziativa già raccolta da parlamentari tedeschi
Dopo il Kosovo la Macedonia
Nel Kosovo, occupato per un buon tratto dalla più grande base militare USA costruita dopo la guerra del Vietnam ( dalla multinazionale Halliburton, di cui era a capo il vicepresidente USA e bancarottiere, Dick Cheney), nè il formicaio di voracissime ONG (oltre 900 a un certo punto), né l’amministrazione ONU Unmik, né il presidio di 40.000 militari KFOR, né l’elezione a presidente del razzista secessionista “moderato” Rugova, e a premier del razzista secessionista mafioso e tagliagole Thaci, hanno saputo – voluto – impedire il totale degrado della provincia serba e l’imperversare impunito degli sgherri UCK, più o meno riciclati da poliziotti.
Provincia-bordello, a beneficio dei maschi in “missione disagiata” di ONG e contingenti amministrativi e militari ONU e NATO, dove ogni cosa è gestita, come nella Bosnia “liberata”, da funzionari occidentali che affiancano, con potere decisionale, le maschere politiche delle “istituzioni”. Funzionari che governano un territorio sotto controllo armato ed economico delle famigerate “Cinque famiglie” mafiose albanesi. Quelle che da dieci anni che hanno fatto del Kosovo il centro mondiale per lo smistamento dell’eroina proveniente dai campi di oppio in Afghanistan, ora riattivati dai vincitori, per il traffico di prostitute e di essere umani in genere, o di loro pezzi. Funzionari che, in compenso sono stati accusati dall’UE di aver fatto sparire in loro conti nel paradiso fiscale di Gibilterra almeno 4,5 milioni di Euro dei pacchetti di “aiuti” per il protettorato kosovaro.
Ultimissime dal Kosovo, peraltro indistinguibili dalle notizie degli ultimi 3 anni, ci riferiscono di costanti devastazioni di cimiteri serbi (Djakovica, Orahovac, Milosevo, Pristina), con lapidi infrante e scritte inneggianti all’UCK; di 400 desaparecidos serbi, (in aggiunta ai 3000 trucidati e ai quasi 300.000 espulsi dopo l’ingresso della KFOR9, denunciati dal “Coordinamento per la riunione delle famiglie di serbi rapiti o dispersi in Kosovo-Metohia”; dell’esumazione continua di cadaveri serbi da fosse comuni (20 solo lo scorso 17 luglio, a Dragodan, nei pressi di Pristina); di quotidiane aggressioni al Monastero di Pec, sede del patriarca Artemije, e tuttora di distruzioni di luoghi di culto ortodossi (Artemije ha denunciato la totale devastazione di 110 tra chiese e conventi, perlopiù medioevali); di una KFOR che accompagna attivamente il lavoro sporco di pulizia etnica del Corpo di Protezione del Kosovo (in cui si sono riciclati i banditi dell’UCK) irrompendo nelle case dei 100.000 serbi rimasti (e tenuti in totale isolamento “a difesa della propria incolumità”), nella presunta ricerca di armi, terrorizzando gli abitanti, minacciando la “soluzione finale” per l’enclave serba di Mitrovica, cacciando dalle loro case e dai loro uffici a Pristina (17 giugno) le ultime 57 famiglie di accademici e insegnanti serbi, per mettere al loro posto nuclei famigliari albanesi. Si trattava di quei professori che, nonostante la costante minaccia terroristica UCK, avevano fatto funzionare fino all’ultimo giorno dell’aggressione NATO le istituzioni scolastiche dello Stato federale, a composizione, lingua e corsi multietnici, all’incontro dell’apparato scolastico e sanitario parallelo, etnicamente pulito (riservato a frequentatori albanesi e alla sola loro lingua) messo in piedi da Rugosa con i finanziamenti di Gorge Soros e di Madre Teresa di Calcutta.
Mentre le truppe russe, giunte con3.600 uomini per prime a Pristina, nell’entusiasmo dei serbi e dell’antimperialismo internazionale, si sono gradualmente ritirate e ridotte a 600 unità, avanzando riserve nei confronti della conduzione dell’ occupazione di una provincia che nominalmente fa ancora parte della Jugoslavia, i contingenti occidentali della KFOR assistono con crescente indifferenza, che nel caso degli USA e aperto compiacimento, al riscatenarsi dell’espansionismo grandalbanese. Il parlamento a totale dominio albanese approva (subito imitato dal governo del fantoccio Djindjic a Belgrado) un’amnistia per i terroristi panalbanesi dell’UCK. Al polacco Marek Nowicki, Difensore Civico ONU in Kosovo-Metohia, viene negato il diritto di visitare i detenuti nelle carceri. Gli USA rilasciano sistematicamente terroristi albanesi catturati da altri reparti KFOR mentre erano impegnati ad infiltrarsi in Macedonia e consegnati agli americani di Bondsteel.
Nella disattenzione dei media modiali, concentrati sullo stravolgimento informativo di altre carneficine imperialiste e coloniali, dall’Afghanistan alla Palestina, e sulla programmata “soluzione finale” per gli iracheni, prosegue intanto, sempre sotto egida USA, il lavoro di smembramento della Macedonia. Un paese e un governo che alla Nato, durante l’aggressione alla Jugoslavia, avevano concesso tutto: la secessione, l’ospitalità alla truppe Nato, le proprie basi, assistenza logistiche, complicità politica. E ne sono stati ripagati con la riduzione a colonia Nato, l’appoggio agli invasori e separatisti albanesi, la criminalizzazione (con il solito concorso di certa disinvolta stampa di sinistra) dei difensori dell’unità e sovranità dello Stato, definiti derogatoriamente “nazionalisti”. Qualifica riservata in modo particolare al primo ministro Ljubco Georgievski che, dopo aver fatto passare una generosa normativa che accedeva alle richieste della minoranza albanese relative a lingua, autonomie e istituzioni scolastiche, ha pubblicamente denunciato in un discorso del 2 agosto la collusione della Nato con il persistente terrorismo separatista grandalbanese, attraverso la fornitura di armi e il libero passaggio del confine con il Kosovo garantito ai militanti dell’UCK riciclati in Macedonia nell’Esercito di Liberazione Nazionale (NLA).
“Molte cose sono state dette circa la multietnicità in Kosovo, Macedonia e Bosnia, ma quello che in effetti accade è la più vasta pulizia etnica che i Balcani ricordino”, ha dichiarato Georgievski, denunciando anche la continuata, per quanto taciuta dai media, occupazione di larghe zone del Nord della Macedonia da parte dei terroristi UCK. Con il pieno appoggio degli USA che si sbracciano però a sollecitare il governo macedone a “mostrare ragionevolezza”.
Difficile da confutare, la denuncia dei “nazionalisti”, quando si pensi che la MPRI (Military Professional Resources Inc.), agenzia statunitense di mercenari controllata dalla CIA, ha il privilegio di armare, addestrare e istruire entrambe le squadre in gioco: l’esercito governativo macedone e le bande secessioniste albanesi. E’ il trucco con il quale gli USA si propongono di gestire i conflitti che scatenano e poi governano. Dall’esempio più clamoroso dell’Osama Bin Laden, operativo CIA dal 1979, contrapposto ai mercenari USA dell’Alleanza del Nord, si potrebbe scendere fino alle varie situazioni “bipartisan” di cui abbiamo ampia esperienza nel mondo politico italiano. O magari a chi si pone in posizione speculare alla demolizione degli Stati nazionali operata dagli Stati forti, vaticinando la fine dello Stato “dal basso” con la criptoleghista “democrazia municipale”.
Che, contrariamente agli europei, gli USA non ritengano concluso il lavoro di squartamento della Jugoslavia e dei Balcani, con particolare attenzione a Montenegro, Macedonia, Grande Albania, la provincia serba di Vojvodina, forse Bulgaria, è stato ribadito ad agosto dal vicecapo della CIA per i Balcani, Steven Mayer, in un’intervista all’emittente “Voice of America” (stesso circuito di Radio B92, amichevolmente frequentata dalle Tute Bianche) e in un seminario al prestigioso “Woodrow Wilson Interna-
tional Center for Scholars” (Woodrow Wilson è il padrino di numerosi genocidi USA: da presidente degli Stati Uniti, nel 1919 proclamò gli embarghi il mezzo più silenzioso, efficace e letale per disfarsi di popoli di troppo).
Mayer ha rivelato che il Dipar-timento di Stato intende convocare una nuova “conferenza di Berlino” per “ridefinire i confini dei Balcani” in termini di stabilizzante (!) monoetnicità. “Non ce l’ho con le entità multietniche. E’ che la gente non le vuole”, ha detto e a indicato come unità statali necessariamente separate la repubblica serba di Bosnia, l’Erzegovina (parte croata della Bosnia), la Serbia senza il Kosovo, il Montenegro e “alcune altre parti dell’ex-Jugoslavia”. Alla domanda se Mayer fosse favorevole allo smembramento della Macedonia, la risposta è stata:”Lasciamo per ora che la sopravvivenza dello Stato macedone rimanga una questione aperta”. Mayer ha poi sostenuto la necessità che gli USA rimangano a lungo la forza principale nei Balcani, per proseguire la battaglia contro il terrorismo integralista di Al Qaida. Peccato che proprio Al Qaida e Osama in prima persona siano stati spediti dalla CIA in Bosnia e Kosovo (come in Algeria, Filippine, Kashmir) e, a detta dei dirigenti della Sicurezza macedone, sono oggi attivi con l’UCK nel nord di quel paese, sempre all’interno del disegno statunitense di frantumazione dei Balcani.
Oggi a Belgrado
Rivedo, alle cinque del mattino, dopo che la ripresa post-bombe riuscita a “Hitlerosevic” nonostante l’embargo le aveva fatte sparire, le lunghe e stanche file di cittadini alla ricerca, perlopiù senza esito, di beni essenziali che oggi costano cinquecento volte di più rispetto all’ottobre 2000 del colpo di Stato. Tutto ha prezzi irraggiungibili, tutto tranne l’apparato produttivo serbo destinato a essere prelevato da multinazionali e da pescecani all’ombra della DOS (Opposizione Demo cratica serba, il raggruppamento di 18 partiti dominato dalla formazione di Djindjic e da cui si è separato quest’estate il Partito Democratico Serbo del presidente Vojislav Kostunica). Dismissioni di “razionalizzazione” e privatizzazioni sotto l’egida del Gruppo dei 17, organismo economico teleguidato dal FMI, hanno prodotto un milione di senza lavoro. Cacciati anche 15.000 dei 33.000 lavoratori della Zastava, totalmente ricostruita dagli operai in poco più di un anno, con fondi statali per il 6% della spesa complessiva. Il PIL, tornato in lievissima crescita nell’anno della ricostruzione sotto Milosevic, nonostante l’embargo, sta oggi a –28.
Spaventosa la nuova divaricazione delle classi, fortemente ridotta dallo stato sociale di Milosevic, difeso nella misura del possibile (sotto il costante ricatto del debito rastrellato dal FMI tra tutti i creditori di una Jugoslavia sabotata e isolatissima fin dal 1980).
Ucciso lo stato sociale
Macchine e prostitute di lusso, esibizionismi e ceffi un tempo inesistenti indicano una concentrazione di superricchi da economia mafiosa sul tipo post-“liberazione” nei paesi del socialismo reale, parallelo al dilagare vertiginoso della povertà assoluta. Il 20% dei serbi vive oggi con meno di un dollaro al giorno, il 65% con due dollari. La sanità, già gratuita, è diventata inaccessibile a gran parte di una popolazione minata per generazioni dall’inquinamento chimico e radioattivo. L’ex-Jugoslavia, che, sotto sanzioni, ancora nel 1996 era in recupero economico, è precipitata al 10° posto nella classifica dei paesi più poveri del mondo. Accanto a Ciad, Haiti, Mozambico. Nessuna delle più celebri e vociferanti ONG assiste questi nuovi “dannati della Terra”, né le centinaia di migliaia di zingari, albanesi ed ebrei scampati alle pulizie etniche di Thaci e Nato e le offerte per l’adozione di bambini serbi riguardano, chissà perché, perlopiù la sola Zastava.
Gli USA continuano a trattenere una seconda tranche di aiuti – 40 milioni di dollari – in attesa “che il governo di Belgrado mostri un maggiore grado di collaborazione con il Tribunale dell’Aja e acceleri le riforme della sua economia e del suo apparato produttivo”. Stessa condizione è stata posta dall’UE e sospesa solo quando, l’inverno scorso, un Djndjic alle corde avvertiva che il mancato arrivo degli aiuti avrebbe compromesso la stabilizzazione sociale e politica del paese e rafforzato la crescente opposizione sociale, in massima misura guidata dal rinato e riformato (nel senso di epurato dai suoi elementi compromessi con episodi di corruzione e malgoverno) Partito Socialista di Serbia (PSS). La prima tranche, di 30 –simbolici – milioni era stata pagata all’atto del sequestro e rapimento di Slobodan Milosevic, il 28 giugno del 2001, tre giorni dopo quell’ultima intervista in libertà concessa dall’ex-presidente, in cui mi diceva che un suo eventuale processo all’Aja avrebbe potuto innescare la rinascita del patriottismo e dell’antimperialismo tra i cuoi concittadini.
Uccisi i diritti dei lavoratori
Nel frattempo il governo Djndjic ha adottato due leggi fondamentali, entrambe giudicate incostituzionali dalla Corte Suprema ma nondimeno andate in vigore: quella sull’incondizionata collaborazione con l’Aja e quella sul lavoro. Entrambe hanno provocato, oltre all’accentuazione del dissidio tra Djndjic, premier serbo, e il presidente federale Kostunica, esploso con la consegna di Milosevic all’Aja,
la spaccatura della maggioranza parlamentare, con l’incostituzionale cacciata da parte di Djndjic di 45 parlamentari del partito di Kostunica “per assenteismo” e il ritiro di questo dalla coalizione DOS.
Infine, la crescita di una protesta sociale che si è espressa, a dispetto della nuova dirigenza “moderata” imposta aL sindacato, con uno sciopero generale e una ininterrotta serie di scioperi di categoria o territoriali. Protagonisti i lavoratori delle aziende di Stato, o miste, che ora vengono svendute, essendo stata cancellata la vecchia legge di Milosevic che imponeva che almeno il 60% delle azioni ottenute dalle privatizzazioni fosse riservato alle maestranze. Sono presenti anche studenti e cittadini non sindacalizzati, colpiti dalla privatizzazione di sanità e pubblica istruzione, con tasse universitarie e scolastiche che, decuplicate rispetto ai costi del passato, nominali, rendono questi servizi vitali inaccessibili alla maggioranza della popolazione.
C’è stato anche un “effetto collaterale” delle misure del fantoccio Nato al governo: con una revolverata in testa, sui gradini del Parlamento Federale, si è ucciso Vlajko Stojiljkovic, ex-ministro degli Interni, membro socialista del Parlamento Federale, accusato dai sicofanti giuridici dell’Aja di “crimini di guerra”.
Nella lettera d’addio, la protesta contro le leggi liberticide di Djindjic, la denuncia dell’aggressione Nato finalizzata alla frantumazione della Jugoslavia, la capitolazione e il tradimento dei nuovi dirigenti, le violazioni della Costituzione, la svendita della dignità nazionale. “I cittadini, i patrioti di questo paese sapranno rispondere”, sono le ultime parole del messaggio.
Ruolo e obiettivi dei Socialisti
E’ su questo piano che si svolge la battaglia politica del Partito Socialista di Serbia, oltrechè sulla difesa e diffusione della verità sulla guerra imperialista e sull’operato di Slobodan Milosevic. Per questo obiettivo si è dato vita a Belgrado al Comitato Internazionale per la Difesa di Slobodan Milosevic che, con l’adesione di numerose personalità politiche e della cultura di tutto il mondo, presiedute da Ramsey Clark, ha cercato con iniziative di controinformazione e mobilitazione di contribuire all’emergere dei fatti attraverso la cortina della diffamazione e dei silenzi mediatici e politici occidentali. Purtroppo quasi ovunque nella colpevole indifferenza dei partiti e mo
vimenti di sinistra.
Rimane invece in discussione un’eventuale alleanza anti-DOS tra il PSS – e il Fronte Patriottico che comprende socialisti, comunisti e radicali – e il partito del presidente Kostunica. Molte restano le domande circa l’affidabilità del rivale del fantoccio tedesco-statunitense Djindjic.
Il mistero Kostunica
Kostunica si è opposto alla legge sul’estradizione di Milosevic e altri serbi, ma poi ha acconsentito e ha promesso collaborazione con l’Aja. Kostunica denuncia l’aggressione Nato, ma non esonera Milosevic dalla false accuse e non spende parola sulla persistente persecuzione dei Serbi in Kosovo, né sul futuro della provincia, né sulle terrificanti notizie, documentate da ricerche di scienziati e istituti privati e statali, circa il dilagare delle patologie tumorali provocate dai bombardamenti all’uranio e dall’inquinamento chimico. E’ vero che contro la legge sul lavoro, che disintegra i diritti dei lavoratori, introduce una turboflessibilità, riduce i salari, liberalizza i licenziamenti e le privatizzazioni senza salvaguardia per gli operai, Kostunica è arrivato fino a staccarsi dalla coalizione di governo e a ritirare i suoi ministri. Ma è anche il politico che proprio queste misure le aveva previste nel suo programma elettorale ultracapitalistico del 2000. Rimane il sospetto che il liberaldemocratico, filomonarchico Kostunica tenda solo a operazioni d’immagine, a rappresentarsi, in vista delle elezioni programmate per il 29 settembre, come l’antagonista onesto, patriottico, dotato di sensibilità sociale di Zoran Djndjic, definito “corrotto, autoritario, venduto e mafioso”. Una tattica che, il 5 ottobre del 2000, gli fruttò i voti di tanti serbi massacrati e spaventati dal decennale terrorismo militare ed economico NATO. Una tattica portata avanti anche con il clamoroso arresto di uno spione USA, l’ambasciatore John Daviod Neighbor, capostazione CIA nei Balcani, mentre complottava in un ristorante con il vice-primo ministro serbo Momcilo Perisic. Perisic gli stava consegnando documentazioni sugli estradandi all’Aja e su possibili testimoni “buoni” contro Milosevic (Perisic ha dovuto successivamente dimettersi, con grave scorno della coalizione guidata da Djndjic). L’arresto è stato fatto eseguire all’esercito, ancora considerato cuore della resistenza serba e al quale il presidente ha recentemente imposto il cambio del capo di Stato Maggiore, sostituendo il generale Nebojsha Pavkovic, passato a vele spiegate nel campo di Djindjic, con il “patriottico” Branko Krga. Krga si è subito detto “difensore inflessibile della Costituzione (quella violata da Djindjic con i decreti di estradizione).
Una nuova aria a Belgrado
Numerose sono state, negli ultimi mesi, le manifestazioni organizzate dal PSS, partito di Milosevic e da altri gruppi della Sinistra, in difesa della sovranità serba, dei diritti dei lavoratori e della liberazione di Slobo. La crescita nei sondaggi di quello che rimane numericamente il primo partito di Serbia non è stata compromessa, a luglio, da una miniscissione – secondo molti generosamente “agevolata” dall’estero – di un gruppo di destra del partito (30 su 190 membri del Comitato Centrale). E’ stato allestito un congresso straordinario in cui si è voluto destituire Milosevic dalla presidenza del partito e dichiarare la propria disponibilità a collaborare con Djindjic, l’Aja e con le politiche FMI. La più recente –all’atto di scrivere – manifestazione di protesta ha visto riuniti circa 50.000 aderenti a quattro formazioni: il PSS, con grande maggioranza, il partito liberalnazionale di Vuk Draskovic, la Sinistra Unita (JUL) di Mira Markovic e il Nuovo Partito Comunista di Kitanovic.
I “rivoluzionari” di Otpor
Pensiamo entrambi a Karzai, già consigliere d’amministrazione della petrolifera USA UNOCAL, che all’atto dell’insediamento a presidente dell’Afghanistan “liberato”, assegna all’UNOCAL l’incarico di costruire – e sfruttare – l’oleo-gasdotto dal Caucaso all’Afghanistan al Pakistan all’India agli USA, quando leggiamo i titoli che annunciano la conclusione a Zagabria di un accordo tra serbi, croati e rumeni, per la costruzione di un oleodotto dall’Asia centrale a Vienna. L’esecuzione dell’accordo con le proprie multinazionali verrà curato dall’Agenzia USA per il Commercio e lo Sviluppo (USTDA) che avrà la prima e ultima parola sull’opera e sulla sua gestione. Il mio interlocutore è Vladimir Krsljanin, membro della segreteria del PSS, suo responsabile per gli esteri e portavoce. Eravamo insieme anche due anni fa, intorno al 5 ottobre, quando le squadracce di Otpor e i miliziani del sindaco di Cacak dettero fuoco al parlamento con i voti che avevano assegnato la vittoria parlamentare al PSS e poi procedettero ad “epurare”, uccidendo, cacciando, bastonando, istituzioni e società. Al PSS vennero sottratte tutte le proprietà immobiliari e soppressa pubblicazione dopo pubblicazione. Otpor, la finta “sinistra giovanile” partorita dai manuali CIA per la sovversione interna, disseminava cartelloni per il paese esigendo l’esecuzione di Milosevic e poi la sua consegna al tribunale yankee dell’Aja. A capo dell’economia si insediava il “liberista” del FMI, Dinkic. A Roma qualcuno titolava “Rivoluzione democratica a Belgrado”. Cosa è successo da allora?
Vladimir Krsljanin
V.K. Il 5 ottobre 2000 in questo paese furono abolite la libertà e la democrazia. Il giorno di S.Vito del 2001 (28 giugno) il presidente Slobodan Milosevic fu rapito dal regime e consegnato al tribunale dell’aggressore Nato. Ciò aprì la strada alla definitiva disintegrazione e all’occupazione della Jugoslavia.
Oggi, pluralismo e democrazia sono definite inesistenti dallo stesso presidente Kostunica. Controllori stranieri sono alla testa di tutte le nostre istituzioni statali e delle maggiori imprese, mentre un regime fantoccio svende le risorse del paese, esegue qualsiasi ordine dei nostri padroni stranieri, governa con decreti che la Corte Suprema rigetta come incostituzionali. Recentemente, inviati del Tribunale dell’Aja hanno portato a Belgrado decine di imputazioni “segrete”, da utilizzare come mezzi di pressione su coloro che si vorrebbe testimonino menzogne contro Milosevic. Con lo stesso fine in mente, George Bush ha assicurato la continuazione delle sanzioni contro i depositi bancari jugoslavi nel mondo poiché la collaborazione del regime con l’Aja e con le forze d’occupazione nel Kosovo lascia ancora a desiderare.
Non per nulla l’FMI ha imposto la chiusura delle vostre quattro maggiori banche, alla latino-americana.
L’intero sistema bancario del paese è stato, come in Bosnia, affidato al controllo NATO. Una specie di dollarizzazione. Con effetti evidenti sulla nostra indipendenza.
E tutto questo non sembra che indebolire la coalizione del premier Djindjic, anche a stare ai sondaggi che, nonostante la miniscissione, vi vedono in forte vantaggio su tutti gli altri partiti. Dopo le elezioni del 29 settembre, ci sarà ancora una coalizione DOS?
Noi ci auguriamo un consenso che impedisca la continuazione di questo processo di devastazione e svendita del paese e di colonizzazione del nostro Stato. I segni sono buoni, a partire dalla spaccatura, magari forse solo a scopi elettorali, e tuttavia clamorosa, tra Kostunica e Djindjic. In un ambiente di durissima repressione, lavoriamo a questo risultato con tutte le nostre ringiovanite forze, particolarmente nei luoghi di lavoro, un tempo più lontani, nei luoghi di studio, tra i milioni che sono piombati nella miseria a causa dell’aggressione e di questo regime. La coalizione DOS si sta effettivamente sfaldando e registriamo un certo panico anche tra i sostenitori stranieri del regime per il crescere dell’opposizione sociale, il totale distacco del mondo intellettuale, la rabbia dei lavoratori, cui fornisce un grandissimo impulso la lotta per la verità, la libertà e la dignità condotta dal presidente Milosevic di fronte a quella corte da Gestapo.
Già, una lotta che solo per pochi giorni i serbi hanno potuto seguire sulle televisioni, e ne hanno ricavato grandissima emozione e incoraggiamento, ma che poi il regime ha oscurato d’imperio.
Ma la manifestazione di massa delle forze patriottiche nell’anniversario del sequestro di Milosevic ha espresso la volontà di unire i nostri sforzi per rovesciare i fantocci e ottenere al più presto elezioni a tutti i livelli. La gente si aspetta giustamente che il PSS svolga un ruolo decisivo in questo processo.
Ora l’imperialismo si è dotato di una nuova arma: il terrorismo internazionale e i paesi canaglia.
L’11 settembre è una rielaborazione su scala gigantesca della farsa del Golfo di Tonchino (quando gli USA finsero un attacco alla loro flotta del Pacifico da attribuire al nemico nordvietnamita, per poi radere al suolo con le bombe il Nord Vietnam), seguita da una dichiarazione di guerra globale al mondo. Così abbiamo truppe USA in 150 paesi, in Afghanistan si sono usate armi nucleari, il petrolio del Caspio è sotto tiro, come sono sotto tiro Russia e Cina. Poi però c’è tutta una serie di contraccolpi: i successi delle sinistre in Bielorussia, Moldavia, Cechia, Venezuela, l’indomabile resistenza palestinese, il totale caos afgano, il dilagare della protesta in America Latina, la solidarietà di un fronte antimperialista che si va costituendo tra Stati e popoli. Proprio l’altro giorno abbiamo festeggiato la giornata di solidarietà con il fraterno popolo dell’Iraq. Anche se non si vede e se l’attuale condizione potrà protrarsi a lungo, l’impero è in agonia.
Non pecchi di ottimismo?
Gli scandali e i crolli delle più grandi corporation nordamericane, la crisi recessiva generale, la sovrestensione dell’impegno militare, i provati legami tra il corrotto giro affaristico dei Bush con i nazisti del Reich ai tempi di Bush nonno e con i Bin Laden nei giorni di Bush nipote, mostrano che la storia del XX secolo deve essere riscritta. Un bel capitolo lo sta scrivendo Slobodan Milosevic. La sua battaglia contro la terribile macchina propagandistica della Nato, ipocritamente addobbata con toghe tribunalizie, e contro il tentativo degli aggressori di processare per i propri crimini l’intera nazione serba, è diventato sinonimo di giustizia storica. Non hai idea di quanto abbia chiarito le idee a un popolo confuso e impaurito.
Ne ho idea quando esco in strada e in pieno centro trovo un negozio la cui vetrina è stata infranta da poco. Motivo: aveva esposto una foto di Milosevic. Il vetro era rotto, ma la foto era tornata lì. Brace accesa sotto la cenere.