Jugoslavia: Dietro l’attacco “umanitario”

Nell’ultimo rapporto annuale (A National Security Strategy for a New Century, 5-1-2000), la Casa Bianca annuncia con toni messianici qual è la sua “strategia della sicurezza nazionale per un nuovo secolo”: “In questo momento della storia, gli Stati Uniti sono chiamati a svolgere il ruolo guida”, essendo “l’unica nazione capace di fornire la necessaria leadership e capacità per una risposta internazionale alle sfide comuni”. Tali “sfide”, precisa il documento della Casa Bianca, provengono da “diversi Stati che hanno la capacità e volontà di minacciare i nostri interessi nazionali, la sovranità dei paesi a noi vicini e l’accesso internazionale alle risorse”. Per “difendere questi interessi” – a partire dall’”interesse vitale” del “nostro benessere economico” – “adotteremo tutte le misure necessarie, tra cui l’uso unilaterale e deciso della nostra potenza militare”. Allo stesso tempo, “dobbiamo essere preparati e disposti a usare tutti gli strumenti appropriati della nostra potenza nazionale per influenzare le azioni degli altri Stati: per proteggere il proprio modo di vita, l’America deve essere la guida nel mondo”. Nell’enunciazione di tale strategia vi è la chiave di lettura della guerra scatenata un anno fa nel cuore stesso dell’Europa. Guardando il mondo attraverso quest’ottica, gli Stati Uniti vedono le “sfide” provenire non solo dai paesi ostili ma anche da quelli alleati, in particolare dall’Europa. Ciò che gli Stati Uniti hanno maggiormente temuto e temono è di veder diminuire la propria influenza in Europa nel momento in cui – dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e del Comecon e la disgregazione dell’Unione Sovietica – si sta ridisegnando la carta geopolitica e geoeconomica dell’intera regione.

Sul piano economico l’Unione europea ha un peso complessivo che si sta avvicinando a quello statunitense e in diversi settori lo sta superando. Il suo prodotto nazionale lordo (oltre 8.500 miliardi di dollari annui) ha ormai superato quello statunitense (che è di circa 8.000 miliardi). Sui 200 maggiori gruppi transnazionali del mondo, 74 hanno il proprio centro direttivo negli Stati Uniti e 70 nell’Unione europea. Per ciò che riguarda gli investimenti esteri, quelli statunitensi sono aumentati nel 1992-98 del 326%, mentre quelli europei sono cresciuti del 1069% superando il 50% del totale mondiale. La nascita dell’euro ha ulteriormente accresciuto la potenzialità economica dell’Europa, creando una moneta in grado un giorno di fare concorrenza al dollaro e un’area economica integrata (composta per ora da undici paesi) che accresce la competitività dei gruppi transnazionali europei nei confronti di quelli statunitensi. La battaglia è a tutto campo e si svolge a colpi di fusioni e acquisizioni. Grandi manovre sono in atto, contemporaneamente, sul mercato finanziario mondiale, dove enormi masse di capitali vengono impiegate non solo in operazioni speculative (il cui valore annuo supera di una dozzina di volte quello del pil mondiale), ma in complesse strategie come quella attuata nel 1998 per colpire le economie asiatiche e ridurre il peso economico dello stesso Giappone. Ciò che gli Stati Uniti vogliono evitare è che il processo di ristrutturazione politica ed economica della grande regione europea sfugga al loro controllo o, peggio, crei una integrazione tra Europa occidentale e orientale, Russia compresa, da cui nascerebbe la principale area economica mondiale, di gran lunga superiore a quella nordamericana. In questa partita, che si svolge sul tavolo della globalizzazione, gli Stati Uniti giocano non solo le proprie carte economiche e politiche ma, contemporaneamente, quelle militari che danno loro il maggior vantaggio. Hanno quindi compiuto una serie di mosse per rivitalizzare la Nato, strumento essenziale della loro leadership nei confronti degli alleati europei.

Il primo passo in tal senso è stato compiuto con la guerra del Golfo del 1991: anche se i membri europei dell’Alleanza atlantica non vi parteciparono in quanto tali, il comando e l’intera infrastruttura militare della Nato svolsero un ruolo effettivo nella sua preparazione e conduzione.

Il secondo passo è stato compiuto con il conflitto in Bosnia: qui, per la prima volta ufficialmente, la Nato è intervenuta “fuori area” in quanto tale. La crisi apertasi con la disgregazione della Federazione jugoslava, accelerata dal riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte della Germania (dicembre 1991) e dell’Europa dei dodici (gennaio 1992), è stata abilmente sfruttata da Washington. Basti ricordare che, quando nell’ambito della conferenza Carrington fu presentato alle parti bosniache il primo piano di pace (piano Cutilheiro), che prevedeva la “cantonalizzazione” della Bosnia su modello svizzero, esso fu in un primo momento (marzo 1992) accettato dalle tre parti, ma subito dopo venne fatto fallire dall’atteggiamento assunto dagli Stati Uniti, determinando lo scoppio della guerra.

Tutta la politica statunitense nel corso del conflitto in Bosnia fu orientata a mettere le Nazioni Unite in una situazione di stallo, dimostrando infine che solo l’intervento degli Usa e della Nato poteva imporre il cessate il fuoco. Il terzo passo è stato compiuto con l’allargamento della Nato a Polonia, Repubblica ceca e Ungheria, cui dovrebbe seguire l’ingresso di altri paesi dell’Est. La Nato in tal modo non solo interviene ma si estende “fuori area” inglobando paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia.

Non a caso tutti i paesi candidati a entrare nell’Unione europea – Polonia, Repubblica ceca, Ungheria, Turchia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia – sono già membri della Nato (i primi quattro) o candidati all’ammissione. Gli Stati Uniti legano in tal modo sempre più a sé i paesi che entreranno nella Ue, così da mantenere e allargare la propria influenza in Europa.

Il quarto passo è stato compiuto con la guerra contro la Jugoslavia. Spente le fiamme del conflitto in Bosnia, i pompieri di Washington si sono occupati del focolaio del Kosovo (formatosi per cause endogene, tra cui vi sono responsabilità di Belgrado) usando benzina al posto dell’acqua. La guerra, voluta e condotta soprattutto dagli Stati Uniti, ha demolito non solo ponti e edifici. Ha demolito uno Stato, distaccandone di fatto una parte (il Kosovo) e cominciando a distaccarne un’altra (il Montenegro). Ha favorito in tal modo la formazione di altri “Stati etnici”, che frammentano ulteriormente la regione acuendo le tensioni che la attraversano.

Il quinto passo è stato compiuto nel corso della guerra stessa quando gli alleati europei, al summit svoltosi a Washington nell’aprile 1999, hanno accettato di trasformare la Nato in una alleanza che impegna i paesi membri non solo ad assistere (in base all’art. 5 del trattato del 1949) qualsiasi di loro fosse attaccato nell’area nord-atlantica, ma, in base al “nuovo concetto strategico”, a “condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza”. Contemporaneamente gli alleati europei hanno accettato di “costruire l’identità europea della sicurezza e della difesa all’interno dell’Alleanza”. In base a tale principio l’Unione europea ha deciso nel dicembre 1999 di dotarsi di una “forza di reazione rapida” di 50-60mila uomini per acquisire quella che il ministro Dini ha definito “una vera e propria capacità di potenza”. Ma, ha assicurato Dini, la Nato resterà comunque “lo strumento essenziale per regolare la sicurezza internazionale”. Capacità di potenza, dunque, ma sempre nel quadro della Nato dominata dalla superpotenza statunitense. Lo conferma il fatto che gli Stati Uniti, mentre hanno fatto in modo che fosse l’Europa ad addossarsi il peso maggiore della “costruzione della pace” in Kosovo, ribadiscono nel rapporto della Casa Bianca che “la leadership americana rimarrà indispensabile per assicurare la pace nei Balcani”.

L’Unione europea in tal modo non solo rinuncia al progetto di un nuovo assetto democratico e di pace nella grande regione europea (Russia compresa), ma rischia di ritrovarsi un giorno in prima linea in una nuova e non meno pericolosa guerra fredda. In tale scelta, apparentemente autolesionista, vi sono tutti i limiti di questa Europa nata sulla base di grandi interessi e poteri, che portano di volta in volta i governi a fare individualmente ciò che più conviene.

Questo spiega perché non solo la Gran Bretagna, alleata tradizionale degli Stati Uniti, ma anche Francia e Germania, relativamente più autonome, hanno accettato un anno fa di scatenare una guerra nel cuore dell’Europa. Sicuramente esse hanno contrattato con gli Stati Uniti delle contropartite in termini di spartizione di aree di influenza. Da parte sua il governo D’Alema – partecipando a una guerra che lo stesso presidente del Consiglio ha definito uno “spartiacque” che segna “l’avvento di una nuova era” in cui “la comunità internazionale si arroga il diritto d’ingerenza umanitaria” – si è guadagnato la medaglia sul campo. Intervenendo al convegno dell’Aspen, il 18 marzo a Venezia, il segretario di Stato Madeleine Albright ha detto di D’Alema, Dini e Scognamiglio: “Essi hanno contribuito ad assicurare che l’Alleanza atlantica restasse unita nonostante i ripetuti sforzi per dividerla. Si meritano perciò la gratitudine di tutti coloro che hanno a cuore la protezione dei basilari diritti umani e della promozione della pace” (U.S. Department of State, 18-3-2000). A quando dunque la prossima guerra per la promozione della pace?