Dalla fine di agosto ai primi di settembre del 2002 si è tenuta a Johannesburg la conferenza delle Nazioni unite col titolo: “Sviluppo sostenibile”. Per poter esprimere un giudizio sui suoi successi e sulle delusioni che ha generato, occorre vederne i lavori e i risultati alla luce dell’evoluzione (o involuzione) delle Nazioni unite e degli eventi internazionali.
L’ecologia è sbarcata nei paesi industriali, prima negli Stati uniti, poi in Europa, fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso come protesta contro i guasti che l’industrializzazione selvaggia, l’aumento dei consumi stavano provocando nell’ambiente naturale.
Nel 1970 il mondo era diviso in tre parti: quella dei paesi industriali con l’economia del libero mercato, capitalistici; quella dei paesi socialisti e dei loro satelliti; e un “terzo mondo” di paesi arretrati, poveri, talvolta poverissimi, con una popolazione che stava aumentando in ragione di 90 milioni di persone all’anno.
Nei paesi capitalistici l’aumento della produzione agricola era stata ottenuta con il massiccio impiego di pesticidi clorurati persistenti; la moltiplicazione delle merci provocava l’inquinamento dei fiumi e la formazione di crescenti masse di rifiuti; il rapido aumento degli autoveicoli in circolazione offriva nuove occasioni di mobilità, ma a spese di un crescente consumo di petrolio, dell’immissione nell’atmosfera di gas tossici. La “società dei consumi” si rivelava sempre più rapidamente una “società dei rifiuti”.
I paesi “socialisti” cercavano strade verso l’industrializzazione, in competizione con quelli capitalistici, secondo diverse ideologie, da quella sovietica e dell’Europa orientale a quella cinese e dei paesi poveri del sud-est asiatico; in entrambi i casi gli effetti negativi planetari si facevano sentire con inquinamenti industriali, con la distruzione delle foreste, con lo sfruttamento del suolo, con devastanti opere di regolazione del corso dei fiumi.
Da parte loro anche i paesi del terzo mondo cercavano una strada allo sviluppo economico, spesso pilotati dalle influenze degli altri due gruppi contrapposti. I paesi capitalistici e socialisti si confrontavano con la corsa ad armi nucleari sempre più potenti, collaudate con esplosioni nell’atmosfera (mille dal 1945 al 1962) che facevano ricadere al suolo polveri radioattive.
Come risposta ad una crescente protesta, soprattutto nei paesi industrializzati capitalistici, contro i guasti dell’ambiente, la crescita della popolazione mondiale, la corsa agli armamenti nucleari, le Nazioni unite decisero di indire una conferenza internazionale, che si tenne a Stoccolma nel giugno 1972, sul tema “L’ambiente umano”.
La conferenza non portò a grandi risultati concreti (i paesi del blocco sovietico non parteciparono) né ad accordi vincolanti, ma ebbe il merito di esporre, in forma popolare e chiara, i termini del problema. In pochi mesi uscirono decine di libri, fra cui meritano di essere ricordati – e meriterebbero di essere riletti ancora oggi – Una sola terra, di Barbara Ward e Rene Dubos, Il cerchio da chiudere di Barry Commoner, I limiti alla crescita del Club di Roma, L’entropia e le leggi economiche, di Nicholas Georgescu-Roegen
Sia pure con diversi accenti, questi libri introducevano alcuni nuovi concetti: il pianeta Terra, come ecosistema unitario, al di la dei confini politici, ha una capacità ricettiva limitata per la popolazione umana, per le attività economiche e per le rispettive scorie. Inoltre ha una riserva limitata di risorse naturali come minerali, fonti energetiche, fertilità del suolo.
Per conservare l’ambiente naturale adatto agli esseri umani occorreva porre dei limiti alla crescita della popolazione e allo sfruttamento delle risorse naturali e occorreva cambiare i modelli di produzione e di consumi.
Le crisi petrolifere degli anni settanta e ottanta, gli incidenti a grandi stabilimenti industriali e ad alcune centrali nucleari, la congestione delle città, sembravano confermare la fragilità ecologica della Terra. D’altra parte stava cambiando anche il mondo: negli anni novanta del Novecento il socialismo era in crisi e il capitalismo con le sue leggi di libero mercato e di crescita economica e merceologica stava trionfando.
Questo spiega perché le Nazioni unite, a venti anni dalla conferenza di Stoccolma, hanno indetto nel 1992 a Rio de Janeiro una seconda conferenza, diciamo così, “ecologica”, questa volta col titolo “Ambiente e sviluppo”. (Non si dimentichi che in inglese development indica sia lo sviluppo umano e sociale sia la crescita economica; e a Rio si trattava di crescita e di affari e di come non farli intralciare dall’attenzione per l’ambiente).
La conferenza di Rio finì con grandi strombazzamenti pubblicitari, con una “Agenda 21” che avrebbe dovuto dare linee guida per la politica ambientale nel XXI secolo, con finti accordi per diminuire l’inquinamento responsabile (per effetto serra) dei mutamenti climatici, per conservare le foreste e la biodiversità. Accordi mai rispettati.
Nel frattempo era diventata di moda la parola “sostenibile” e gli accordi di Rio de Janeiro avrebbero dovuto portare, appunto, ad uno sviluppo sostenibile, adatto alla attuale e alle future generazioni. Sostenibile è termine equivoco e anche ipocrita perché fa finta di ignorare l’unico grande vincolo posto dall’ecologia: l’esistenza dei limiti alle risorse del pianeta, l’esistenza di una “capacità portante” limitata per le risorse che la natura offre e per le scorie che la natura può assimilare.
E nel frattempo la popolazione terrestre che “pesa” sulla Terra era passata dai 3800 milioni del 1972 a 5400 milioni del 1992; nei giorni della conferenza di Johannesburg ha raggiunto i 6200 milioni di persone.
Questa lunga (e me ne scuso) premessa per rilevare che nella conferenza di Johannesburg, a trent’anni da quella di Stoccolma e a dieci anni da quella di Rio, intanto fin dal titolo è scomparso qualsiasi riferimento agli esseri umani e alla stessa parola “ambiente”. Il titolo stesso – “sviluppo sostenibile” – stava ad indicare che per gli organizzatori era lo sviluppo, anzi la crescita economica della produzione e dei consumi, che conta e l’attenzione per la natura e l’ambiente (e anche quella per gli esseri umani, con la loro povertà, con i loro diritti e aspirazioni) non deve intralciare il glorioso cammino dell’economia.
Intralci, però, “purtroppo”, ce ne sono e la conferenza di Johannesburg non ha potuto fare a meno di considerarli. La popolazione mondiale, prima di tutto, che sta aumentando in questa fine del 2002 in ragione di circa 70 milioni di persone all’anno. Nei paesi poveri aumenta il numero di ragazzi e di giovani che si presentano nel mercato del lavoro, che non trovano lavoro nei loro paesi, che hanno nuove aspirazioni consumistiche indotte dalla pubblicità dei paesi industriali; ragazzi e giovani che si presentano sul mercato del lavoro dei paesi industriali, i quali talvolta hanno bisogno di mano d’opera a basso costo e che spesso li respingono nei paesi d’origine. D’altra parte nei paesi industriali aumenta la popolazione anziana, con bisogni diversi da quelli delle altre classi di età, con bisogni di assistenza e di cure.
Tradizioni locali e credo religiosi non consentono di intervenire su un rapido rallentamento dell’aumento della popolazione, rallentamento che comunque non scioglierebbe, anzi aggraverebbe, il nodo dell’aumento della popolazione degli anziani.
Ricchi e poveri hanno bisogno di energia: i paesi ricchi per moltiplicare le automobili, per riscaldare le case, per far funzionare le fabbriche e gli elettrodomestici; i paesi poveri per fare qualche passo fuori dalle notti senza illuminazione, per aumentare la mobilità, per azionare pompe e macchinari agricoli, per costruire case e far funzionare ospedali.
Gli attuali (anno 2002) consumi mondiali annui di energia sono all’incirca 420 esajoule (EJ, cioè miliardi di miliardi di joule; una tonnellata equivalente di petrolio corrisponde a circa 42 miliardi di joule), così ripartiti:
Carbone 100 EJ/anno
Petrolio 165 EJ/anno
Gas naturale 85 EJ/anno
Elettricità nucleare 28 EJ/anno
Elettricità idro, geo, ecc 32 EJ/anno
Questi numeri dicono poco. Immaginiamo che gli attuali (2002) circa 6200 milioni di terrestri siano divisi in due classi: 2000 milioni nel Nord del mondo (Nord America, Europa occidentale e orientale, Australia, Giappone e pochi altri) e 4200 milioni nel “Sud del mondo”, che comprende paesi in via di industrializzazione, paesi con enormi squilibri interni fra una parte moderna e una massa di cittadini arretrati (India, Cina, Brasile), paesi poveri e poverissimi, soprattutto in Africa e Asia.
I consumi individuali di energia nelle due parti del mondo (si badi bene che si tratta di stime molto approssimate, ma sufficienti a dare una idea della violenza potenziale insita nelle disuguaglianze) sono:
Nord del mondo 140 mld di joule/persona /anno
Sud del mondo 35 mld di joule/persona/anno
Se, nei prossimi venti anni, i consumi energetici individuali degli abitanti del Nord del mondo restassero costanti e quelli dei paesi del Sud del mondo aumentassero un poco, da 35 ad appena 55 miliardi di joule per persona all’anno, i consumi di solo petrolio dal 2002 al 2025 arriverebbero a circa 70 miliardi di tonnellate, quasi la metà delle riserve mondiali di petrolio, stimate di circa 150 miliardi di tonnellate. Nel corso di appena venti anni il mondo dovrebbe fare i conti con una scarsità di petrolio, che per ora è insostituibile nelle automobili, nella fabbricazione della plastica, eccetera. L’inevitabile rallentamento dei consumi energetici nel Nord del mondo innescherebbe una forte crisi economica, e il forte divario ancora fra Nord e Sud comporterebbe turbolenze e violenze politiche, associate alla domanda di una più equa distribuzione dei consumi. (Per qualche dettaglio di calcolo si vedano: G. Nebbia, “Twenty-twentyfive”, Futures, 33, (1), 43-54 (January 2001), traduzione italiana in G. Nebbia, Le merci e i valori, Milano, Jacabook, 2002.)
Ma anche così non si farebbero grandi passi avanti: i crescenti consumi di energia comportano un aumento della immissione nell’atmosfera dei gas responsabili dei mutamenti climatici. Sulle fonti di energia rinnovabili – il moto delle acque, l’energia del Sole e del vento, l’energia ricavabile dal moto ondoso — si sa quasi tutto dal punto di vista tecnico; esse potrebbero fornire elettricità a costi di poco superiori a quelli dell’elettricità ricavata da fonti fossili, ma finora nessun governo del mondo si è seriamente impegnato a sviluppare una industria delle apparecchiature adatte a catturare le fonti rinnovabili.
La domanda di alimenti da parte della crescente popolazione mondiale richiede riforme agrarie, innovazioni tecniche per la conservazione dei raccolti, la difesa del delicato rapporto fra vegetazione spontanea e terre coltivate, la disponibilità di acqua.
Acqua, altro tema discusso – senza proposte o soluzioni concrete, nella conferenza di Johannesburg – necessaria nei paesi del Sud del mondo per migliorare le condizioni igieniche delle abitazioni, per smaltire gli escrementi, per la prevenzione di epidemie. Acqua che, nei paesi del Nord del mondo, è consumata in quantità ben superiore ad un ragionevole bisogno, le cui riserve si impoveriscono a causa dei mutamenti climatici, le cui riserve diventano sempre meno utilizzabili a causa dell’inquinamento che le città e le fabbriche e i campi coltivati dei paesi industriali provocano scaricando le scorie nei grandi corpi idrici naturali: fiumi, laghi e falde sotterranee.
Acqua necessaria per l’irrigazione di quei campi da cui sia il Nord sia il Sud del mondo possono trarre alimenti, ma anche prodotti industriali; mentre sta aumentando la domanda di alimenti nel Sud del mondo, i mutamenti climatici e l’eccessivo sfruttamento agricolo impoveriscono i terreni, rendono necessario l’impiego di crescenti quantità di concimi e pesticidi che, a loro volta, contribuiscono alla contaminazione dell’ambiente. I mercati richiedono all’agricoltura dei paesi poveri prodotti commerciali, richiesti dal Nord del mondo per l’alimentazione del bestiame (cioè per dare alimenti pregiati ai paesi ricchi) e rendono minore la superficie del suolo disponibile per le colture necessarie per sfamare le popolazioni locali. Come si vede le priorità che avrebbero dovuto essere affrontate dalla Conferenza di Johannesburg – energia e mutamenti climatici, agricoltura e biodiversità, acqua e servizi igienici, prevenzione delle epidemie e malattie – sono strettamente legate fra loro e con i modi di produzione e di consumi: maggiori consumi nei paesi industriali significano maggiore consumo di energia e peggioramento futuro del clima e quindi diminuzione delle future disponibilità di acqua e cibo.
Non per niente le Nazioni unite nel documento “del Millennio” e nel documento finale della conferenza, hanno indicato come “prima priorità” il cambiamento dei modi di produzione e di consumi che sono insostenibili.
Il che significa che coloro che consumano una elevata proporzione dell’energia globale, dei prodotti della terra, dei prodotti forestali e dell’acqua, ne devono consumare di meno, anche per assicurare una disponibilità un po’ più decente di beni materiali ai poveri e ai poverissimi della Terra. Il che significa che occorre un controllo pubblico, internazionale, della produzione merceologica, una pianificazione della quantità e della qualità dei prodotti, dei macchinari, degli alimenti, delle costruzioni, dei mezzi di trasporto, sotto il vincolo di consumare meno acqua e meno energia e meno prodotti agricoli e meno minerali: una globalizzazione che è proprio il contrario di quella attuale, basata sul massimo sfruttamento delle risorse della natura, dovunque si trovino, e della vendita della massima quantità di merci.
Ma di come vada attuato il cambiamento dei modi di produzione e consumi che sono insostenibili, nessuna indicazione concreta è stata data.
In questo, a mio parere, la conferenza di Johannesburg è fallita; si è conclusa con qualche generica, e sostanzialmente tirchia, promessa di soldi, ma nessuna indicazione di come i flussi di soldi, destinati a combattere la povertà, potranno essere spesi per realizzare quelle priorità da cui dipende la possibilità di assicurare alle generazioni future un mondo meritevole di essere abitato. E nessun cenno si è fatto della necessità di porre fine allo scandalo universale più grande, la corsa agli armamenti, convenzionali e nucleari, le merci oscene che assorbono denaro, lavoro, materiali, sottratti ai bisogni veramente umani. Nel documento finale c’è un timido accenno alla parola “pace”, ma nessun cenno al fatto che nel mondo trentamila bombe nucleari rendono, se fosse possibile, ancora più insostenibile il pianeta in cui viviamo. Nessun accenno al carattere minimo del tanto strombazzato accordo russo-americano di diminuzione delle bombe nucleari strategiche, al fallimento degli accordi per la limitazione degli esperimenti nucleari, alla proliferazione anzi delle armi nucleari, resa possibile dall’enorme quantità di materiale “esplosivo” nucleare esistente nel mondo.
La Russia possiede più di 1000 tonnellate di uranio adatto per bombe nucleari e circa 140 tonnellate di plutonio, entrambi adatti per bombe nucleari; gli Stati uniti hanno 750 tonnellate di uranio e 85 tonnellate di plutonio: una bomba nucleare di piccole dimensioni richiede b25 chilogrammi di uranio “da bombe” o 8 chilogrammi di plutonio. Ormai vengono costruite “piccole” bombe nucleari da impiego tattico, adatte per esplodere in bunker o caverne.
Da anni la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale l’uso e anche la minaccia di uso delle armi nucleari; da anni il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari impone l’avvio di trattative per l’eliminazione di tali armi. È, a mio parere, questo disprezzo per concrete azioni di disarmo e di pace, insieme all’effetto serra e alla povertà, una delle cause fondamentali dell’insostenibilità del nostro pianeta.