Iraq: vittorie della Resistenza

Lo sviluppo della guerra in Iraq gioca un ruolo strategico nel contesto dei rapporti di forza mondiali che vedono contrapporsi i fautori di un mondo imperiale e unipolare e i partigiani di un modello di sovranità di popoli liberamente cooperanti. Assistiamo dall’inizio dell’occupazione all’aumento costante del numero ufficiale dei morti dell’armata statunitense. Hanno oltrepassato il numero simbolico di 2.000, senza contare i contractors privati, che restano esclusi da questo bilancio. I feriti sono ormai più di 25 mila, di cui la metà resteranno invalidi a vita. Gli occupanti, procedendo al saccheggio e alla distruzione delle risorse economiche e artistiche del paese, si sono rivelati incapaci di ristabilire la distribuzione regolare di acqua potabile, di elettricità e di benzina.
In questo contesto la Resistenza irachena è sempre più forte, tanto dal punto di vista della sua capacità armata quanto sotto il profilo della sua capacità di mobilitare dei forti movimenti di massa. La crescita della mobilitazione nazionale ha provocato la tragica repressione da parte degli occupanti non solo dei resistenti ma anche della popolazione civile, degli intellettuali, degli scienziati e dei giornalisti.
Molte città, di cui la più conosciuta è Fallujah, sono state praticamente cancellate dalle carte geografiche. Oggi ci sono in Iraq, secondo le fonti ufficiali, più di 50 mila prigionieri politici o per reati di opinione, fatti oggetto, nella maggior parte dei casi, di trattamenti inumani e degradanti.
Ne è un chiaro esempio il caso di Abdul Jabar Al Qubaysi, storico oppositore di Saddam Hussein e direttore di un quotidiano di Baghdad, arrestato dalle forze di occupazione statunitensi il 4 settembre 2.004 e tenuto segretamente in reclusione per più di un anno. Oggi, dopo una lunga campagna internazionale di solidarietà in suo favore, gli occupanti hanno ammesso di averlo in detenzione presso Camp Cropper, vicino all’aeroporto di Baghdad. Rinchiuso in assoluto isolamento, Al Qubasysi è riuscito recentemente a far sapere a suo fratello che gli occupanti non lo accusavano che di una cosa: avere “delle opinioni politiche pericolose”. La sua vicenda è emblematica della terribile e quotidiana violazione dei diritti umani nell’Iraq occupato.
Lo stesso Allawi, ex primo ministro e senza dubbio deluso per essere stato licenziato dai suoi padroni, ha da poco dichiarato all’Observer che la situazione dei prigionieri politici in Iraq è peggiore di quella dei tempi di Saddam Hussein.
In questo contesto non può meravigliare che le attività di Resistenza armata ma anche gli scioperi, le manifestazioni e i boicottaggi si espandano in tutto il paese. Sono da notare due elementi: il primo è che, malgrado la propaganda degli occupanti, la Resistenza armata è quasi completamente autoctona, dal momento che il 97% dei prigionieri incarcerati a Fallujah sono iracheni. Il secondo elemento da ricordare è che a Fallujah, come in altre circostanze, gli eserciti occupanti hanno fatto uso di arme vietate, tra cui il fosforo bianco.

STRUTTURAZIONE DELLA RESISTENZA

La Resistenza armata è in larga misura strutturata attorno alle milizie dell’antica armata nazionale nata durante la colonizzazione britannica, in seguito allo sviluppo di un movimento patriottico di massa che esigeva la formazione di un’armata nazionale. Questa origine patriottica spiega il ruolo dei militari di carriera nella formazione della gran parte dei gruppi di Resistenza che coordinano generalmente le loro attività sul terreno, al di là delle differenti tendenze ideologiche presenti al loro interno (laici, baathisti, islamici sunniti o sciiti). Questa Resistenza non ha niente a che vedere con le attività e i metodi impiegati dai terroristi, come invece cerca di accreditare la propaganda dei media legati agli occupanti, secondo la quale le popolazioni civili agirebbero sotto il controllo della fantomatica “piovra” Zarqawi, personaggio, a quanto si sostiene, onnisciente e onnipresente nel paese. Ma numerosi testimoni iracheni raccontano che, al momento dei controlli ai check point, i soldati americani hanno in più occasioni nascostamente inserito bombe a scoppio ritardato nelle automobili. Queste bombe sarebbero dovute scoppiare in diversi luoghi del paese per dare l’impressione di una escalation militare delle presunte rivalità tra le diverse comunità etniche e religiose. I recenti arresti di soldati britannici travestiti da resistenti, a Bassora come in altre città irachene, hanno confermato l’esistenza di una operazione politica tesa a manipolare l’opinione pubblica irachena e internazionale e a rappresentare la Resistenza come frutto dell’“integralismo sunnita”.
Sappiamo bene però che la realtà della Resistenza irakena supera largamente il “triangolo sunnita” inventato dagli occupanti. Anche la gran parte dei partiti sciiti, in particolare quelli diretti dagli ayatollah iracheni e non iraniani, sostiene, in diverse forme, la lotta contro gli occupanti. Nella direzione del movimento che fa capo all’ayatollah Moqtada Al Sadr si contano in particolare alcuni giovani consiglieri provenienti da famiglie comuniste; il che spiega senza dubbio il carattere anti-imperialista di questa struttura e le sue approfondite riflessioni sui temi sociali ed economici. Dobbiamo anche constatare che il vecchio e potente Partito Comunista Iracheno, decimato dalle scissioni e dalla repressione, è oggi diviso in diversi gruppi di cui all’estero si conosce spesso solo quello associato agli occupanti, i cui dirigenti sono in gran parte legati a leader curdi più o meno separatisti. Questa leadership curda è la principale causa della sua marginalizzazione nel paese e del suo sostegno al perfido principio della “federalizzazione” dell’Iraq, porta aperta verso quella etnicizzazione, quella confessionalizzazione e quella divisione dal paese apertamente desiderate dagli Stati Uniti.
Allo stato attuale, le attività di resistenza proseguono, insieme a fasi di negoziazione con gli occupanti, come testimonia l’incontro de Il Cairo tenutosi la settimana scorsa. Dopo due anni di resistenza armata le autorità di occupazione sono state costrette a riconoscere la rappresentatività della Resistenza, la sua legittimità politica. Il “governo” di Baghdad, in accordo con gli occupanti e i governi arabi, ha firmato un documento nel quale riconosce la differenza che sussiste tra i “resistenti” orientati a liberare il paese dall’occupazione e i “terroristi”, che colpiscono i civili. Questo documento prevede, al contempo, la necessità di organizzare una rapida partenza delle forze di occupazione. In seguito, alcuni gruppi della resistenza hanno inviato loro emissari per continuare le negoziazioni col “presidente” J. Talabani mentre gli occupanti, dal canto loro, hanno proclamato l’interruzione delle offensive militari. Anche se le differenti sensibilità della Resistenza irachena sono divise sull’opportunità di iniziare, in questa fase del conflitto, i negoziati con gli occupanti e i loro rappresentati iracheni, costituisce indubitabilmente una grande vittoria per l’intero popolo iracheno il fatto che gli occupanti abbiano riconosciuto legittimità e dignità politica ai loro avversari. Una vittoria passata sotto silenzio o minimizzata dalla gran parte dei media del pianeta.

LE STRATEGIE DEGLI OCCUPANTI

Per tenersi al corrente degli eventi in Iraq bisogna riferirsi ai numerosi siti internet legati alla resistenza irachena, come www.albasrah.net , www.islammemo.cc, il sito del Partito Comunista Iracheno legato alla resistenza www.aljader.net, i siti di sostegno e solidarietà come www.iraqresistence.net, www.uruknet.info, www.irakbodycount.net/ bodicount.htm, i siti antimperialisti, come www.nodo50.org/csca/index. html e www.voltairenet.org, o, ancora il sito vicino ai sevizi di informazione dell’ esercito russo, www.irak-war.ru.
Le motivazioni addotte dagli Usa per giustificare la guerra in Iraq sono cambiate rispetto a quelle iniziali dal momento che l’ipotesi di una presenza di armi di distruzione di massa sul territorio iracheno si è rivelata completamente falsa ed infondata. Nella loro volontà di far dimenticare all’opinione pubblica internazionale lo scorrere degli eventi, gli occupanti mettono ora in primo piano la loro presunta volontà di sviluppare la democrazia. Anche i “democratici” rientrati nel paese nei furgoni degli occupanti sono ormai divisi sulla legittimità dell’occupazione e accettano di riconoscere la legittimità dei loro avversari, ma continuano a rifiutare l’equiparazione di resistenti e terroristi e a rifiutare di accettare che il partito Baath – una delle componenti della Resistenza – possa essere nuovamente legalizzato in un futuro Iraq indipendente e democratico.
Gli occupanti hanno in un primo momento soppresso tutte le istituzioni irachene, aperto le frontiere ai mercati e al movimento incontrollato della popolazione, credendo senza dubbio che la “mano invisibile” del mercato avrebbe risolto, come per incanto, tutti i problemi. La realtà è stata invece quella di occupanti che hanno razziato le risorse petrolifere, ormai confiscate e privatizzate, e le risorse artistiche, oggi in vendita nelle fiere.
Il caos che è nato in conseguenza di queste politiche ha tolto agli iracheni ogni possibilità di organizzare la ricostruzione del paese distrutto dall’embargo e dalle armate di invasione. Le operazioni militari sono in conseguenza aumentate di continuo, rendendo irrealizzabile la nascita della democrazia fino al momento in cui le forze straniere che hanno partecipato all’aggressione e all’occupazione non si ritireranno dal paese.
La nomina in Iraq dell’ex ambasciatore degli Usa John Negroponte, conosciuto per il suo ruolo criminale in America Centrale, ha accelerato la repressione e le manovre miranti a creare conflitti etno-confessionali, fino ad allora sconosciuti nel paese. La partenza degli aggressori è quindi indispensabile per la riorganizzazione del paese in senso democratico.
Ma le forze di occupazione possono ancora contare sulla possibilità di reclutare delle truppe di rinforzo ovunque nel mondo, specialmente dove la distruzione dei diritti sociali crea le condizioni della disoccupazione di massa.
I mercenari saranno alla fine, come nella Roma antica dei pretoriani, la sola impresa fruttuosa del capitalismo in crisi? In Iraq il fenomeno della disoccupazione di massa, che tocca circa la metà della popolazione, spinge i giovani ad accettare, per nutrire le proprie famiglie, di arruolarsi nelle forze repressive di collaborazione poliziesca o militare.

UN SISTEMA GLOBALE IN CRISI

Il sistema capitalista è dunque, con Bush e i neoconservatori, gli integralisti protestanti e quelli ebrei, il primo responsabile della guerra in Iraq, di cui sono vittime le popolazioni occupate e coloro i quali, tra le popolazioni dei paesi occupanti, non appartengono alle ristrette cerchie dei privilegiati che ottengono dalla guerra ricavi e profitti.
La creazione di un movimento mondiale in difesa della pace, della sicurezza collettiva e del disarmo divengono quindi una necessità cruciale per evitare all’umanità di cadere nelle barbarie.
Liberare l’Iraq dagli occupanti è, in questa prospettiva, un compito primario. Per il momento la Resistenza irachena ha già evitato l’estendersi del conflitto ai paesi vicini. Anche l’Iran, che ha all’inizio osservato con cautela l’aggressione del paese dei vicini-concorrenti iracheni, ha appena riconosciuto, secondo le parole della guida suprema della rivoluzione iraniana, sia il carattere nefasto dell’occupazione, sia la responsabilità degli Usa nel terrorismo, sia le sofferenze del popolo iracheno. L’incontro delle forze antimperialiste intorno alla vicenda irachena ha inaugurato una nuova era: quella in cui forze politiche, religiose, ideologiche diverse tra loro devono imparare a cooperare. Questa situazione permette alle forze progressiste di allargare la propria cerchia di influenza ed impone l’urgenza di imparare nuovi metodi di cooperazione con forze molto diverse tra loro, con le quali, fino ad oggi, la sinistra non aveva che raramente avuto l’occasione di collaborare. Una realtà che ci spinge ad inventare nuovi metodi di lavoro, un nuovo linguaggio di emancipazione, capace di integrare il meglio di ciò che ogni corrente politica ha portato all’umanità nella via che conduce alla giustizia, alla solidarietà e alla libertà. traduzione a cura di Arianna Catania

*Sociologo iracheno. Esiliato della Resistenza irachena in Francia, a Parigi