L’Iran volta pagina: questa l’espressione più usata nei commenti alle recenti elezioni per il Majlis (parlamento) di Teheran che hanno visto la schiacciante vittoria dei “riformatori” guidati dal presidente in carica Mohammad Khatami. L’espressione è certamente corretta, ma apre subito la strada a un interrogativo: d’accordo, l’Iran volta pagina, ma in quale direzione e con quali prospettive? Il quesito non è affatto pleonastico e men che mai paradossale. La vittoria dei “riformatori” (come tre anni fa la elezione di Khatami alla presidenza) è certamente avvenuta sotto la spinta di quell’ansia di rinnovamento, di democrazia, di “apertura” che anima le masse giovanili e femminili, ma anche i nuovi tecnocrati e i nuovi ceti produttivi nati dalla evoluzione – interna e internazionale – degli ultimi anni. Il problema è come quell’ansia si traduce, in quali termini politici e organizzativi, e a quali forze politiche affida la propria espressione. Il discorso qui si fa più complesso e può per ora essere soltanto accennato.
Ci sono infatti due aspetti, quello interno, che possiamo sintetizzare nel rifiuto dell’integralismo khomeinista da parte delle nuove generazioni (più di metà degli iraniani sono nati dopo la rivoluzione del 1979, il 70% ha meno di 30 anni di età), e quello esterno, del rapporto con il resto del mondo e dunque del ritorno dell’Iran sulla scena internazionale, dopo l’isolamento imposto dagli Stati Uniti d’America. Proprio su questo punto si sono visti dei risultati immediati, con caute espressioni di reciproco “disgelo” e con la revoca da parte americana delle sanzioni per quel che riguarda la vendita dei tappeti e dei pistacchi: elemento tutt’altro che futile o marginale perché si tratta di voci importanti nelle esportazioni iraniane. C’è stata poi una apparente battuta d’arresto alla riunione dell’Opec, con la iniziale opposizione iraniana all’aumento delle quote di produzione, seguita però subito dopo da un atteggiamento di maggiore disponibilità. Ma è davvero oro tutto quello che brilla?
La fine dell’isolamento dell’Iran è certamente un fatto positivo per chi, come noi, si è battuto e si batte contro tutti gli embarghi e le sopraffazioni, nei confronti non solo dell’Iran ma anche dell’Iraq, della Libia, del Sudan, della Serbia e di ogni altro Paese; ma deve essere il risultato – ecco il punto – di una sconfitta dell’arroganza e del prepotere dell’imperialismo. Diverso è il discorso se la fine dell’isolamento è il premio per la “buona condotta” dei soggetti interessati, poiché si sa bene che i “certificati di buona condotta” rilasciati dalla Casa Bianca sono sempre intrisi di veleno. Un po’ quello che accade, non a caso, con la Libia, per cui si loda Gheddafi se si mostra “ragionevole” ma lo si attacca subito dopo e ci si mostra “delusi” se dice dalla tribuna del vertice euro-africano delle sacrosante verità sulle colpe del colonialismo e dell’imperialismo. Ora non c’è dubbio che gli elettori iraniani, i giovani e le donne in primo luogo, chiedano democrazia e partecipazione e vogliano entrare in rapporto con il resto del mondo. È dubbio tuttavia che democrazia e partecipazione significhino per loro pura e semplice accettazione del modello occidentale e che il rapporto con il resto del mondo significhi piegarsi alla volontà, o anche solo alle esigenze, dell’Occidente e degli Stati Uniti. Ma ecco allora l’interrogativo: fino a che punto queste esigenze possono essere assunte dalla classe politica che si raccoglie intorno a Khatami? Esistono nel nuovo establishment forze capaci di non omologarsi ai modelli esterni e di non confondere il progresso con una nuova subordinazione a quegli interessi “imperiali” che furono sconfitti proprio in Iran ventuno anni fa? Ciò non vuol dire, naturalmente, preferire i “riformatori” i khomeinisti “duri e puri” solo perché frontalmente contrapposti all’America e alla sua politica. Ma il problema resta, e potrà ricevere una risposta solo dagli sviluppi dei prossimi mesi, o forse addirittura dei prossimi anni. Nelle file dell’opposizione c’è chi una risposta l’ha già data, netta e sbrigativa.
Si tratta dei “Mujaheddin del popolo” e del Consiglio Nazionale della Resistenza da essi guidato: per loro non è cambiato nulla, Khatami non è diverso da Khamenei (succeduto a Khomeini come “guida spirituale”) e tutto ciò cui stiamo assistendo non è altro che una “sceneggiata di regime” tesa a perpetuare il potere della casta khomeinista. Un giudizio certamente schematico (in altri tempi si sarebbe detto dogmatico) che ha tuttavia anche un fondo di verità: nel senso che Khatami e i suoi sono indubbiamente figli del khomeinismo, interni per così dire all’establishment integralista, e che dunque un mutamento reale, di fondo, dovrà avere in futuro altri protagonisti. Ma non si può per questo far finta che nulla sia cambiato o stia cambiando. Il nuovo è sotto gli occhi di tutti, o quanto meno se ne vedono i fermenti; ma deve ora tradursi in strutture organizzative e in programmi politici chiari. E qui c’è tutto da costruire.
Sorge allora, inevitabile, un’altra domanda: dove sta la sinistra? Dei “mujaheddin” (sinistra islamica o islamo-marxista, come talvolta sono stati definiti) si è già detto. E gli altri? La sinistra laica tradizionale è purtroppo – almeno per ora – fuori gioco: dopo essersi erroneamente annullata nel khomeinismo (anziché assicurargli, come era logico, un appoggio critico) è stata di fatto spazzata via dalla scena e la sua voce si fa sentire soprattutto – e talvolta addirittura soltanto – dall’esilio; il che non vuol dire naturalmente che non esistano dei nuclei anche all’interno, ma senza nessuna possibilità di incidere realmente. Quanto alla nuova sinistra, essa è tutta da costruire; ed è proprio da qui che può cominciare a delinearsi una risposta agli interrogativi che si ponevano all’inizio. Ci sono nello schieramento “khatamista” – il Movimento del 2 Kordad, dal giorno in cui Khatami fu eletto presidente – gruppi dai nomi insoliti, come il Fronte della Partecipazione o dell’Organizzazione per la Promozione dell’Unità, che esprimono esigenze e sensibilità sicuramente di sinistra; nelle loro file – ecco uno dei tanti apparenti paradossi della situazione – ci sono esponenti di primo piano di quel gruppo di “studenti” khomeinisti che nel novembre 1979 occuparono l’ambasciata americana sequestrandone il personale, ma ci sono anche gli studenti protagonisti delle manifestazioni (quasi una autentica rivolta) dell’estate scorsa. Si tratta dunque di forze composite, per così dire in gestazione, il cui processo di maturazione è appena cominciato. Sarà anche questo processo a determinare in che direzione verrà voltata la nuova pagina dell’Iran.