Chi pensava che il via libera all’attacco israelo-statunitense all’Iran sarebbe venuto dal Congresso americano si sbagliava. E si sbagliava anche chi pensava che un presidente Bush frustrato dal caos iracheno, dallo stallo afghano e dalle pressioni delle lobby industriali avrebbe finito per decidere da solo. L’attacco all’Iran si farà grazie alle dichiarazioni del neo ministro degli Esteri francese Kouchner. In questi anni di minacce e controminacce, di scuse e pretesti per fare la guerra le uniche parole ‘rivelatrici’ sono state quelle della laconica frase “ci dobbiamo preparare al peggio”. Molti le hanno prese come uno scivolone, altri le hanno considerate una provocazione scaramantica, altri come un incitamento e altri ancora come una rassegnazione ad un evento ineluttabile. Può essere che la frase contenga tutto ciò ma l’essenza profonda delle parole di Kouchner è diversa.
In questi ultimi 15 anni di interventi militari di vario tipo e in tutte le parti del mondo si sono stabilite strane connessioni e affinità. Gli eserciti sono integrati dai privati, gli idealisti dai mercenari, gli affari dall’ideologia, la verità si è intrisa di menzogne che neppure la logica della propaganda riesce più a scusare.
Ed una delle connessioni più insolite è quella che si è realizzata tra militari, operatori umanitari e politica estera arrivando a permettere che ognuna delle tre componenti si possa spacciare per le altre due. Il collante principale di questo connubio è la concezione dell’emergenza. La politica estera ha perduto il carattere di continuità dei rapporti fra gli Stati e nell’ambito delle organizzazioni internazionali. Si dedica ormai da tempo a gestire rapporti di emergenza, rapporti temporanei legati ad interessi o posizioni transitorie e mutevoli e a geometrie variabili.
D’altra parte, la politica dell’emergenza è l’unica che permette l’impegno limitato e selettivo. Inoltre, siccome la dimensione dell’emergenza può essere manipolata o interpretata, può essere costruita o smontata a piacimento. Seguendo la stessa logica, gli eserciti di questi ultimi quindici anni si sono dedicati esclusivamente all’emergenza, preferibilmente esterna e per motivi cosiddetti umanitari in modo da garantirsi consenso e sostegno. Non ci sono più eserciti capaci di difendere i propri territori o di assicurare la difesa in caso di guerra. È sempre più difficile trovare uno Stato che sia minacciato di guerra da un altro Stato e tutti gli eserciti del mondo oggi contano su un preavviso di almento 12 mesi per mobilitare le risorse idonee alla difesa nazionale. Si sono perciò specializzati nell’emergenza sia come tipo sia come tempo
e ritmo degli interventi.
Quando Kouchner dice candidamente che ci dobbiamo ‘preparare al peggio’ non fa altro che interpretare una filosofia che non si pone come obiettivo la ricerca del meglio, della soluzione meno traumatica, ma che invoca la gestione dell’emergenza da parte della politica, dello strumento militare e delle organizzazioni umanitarie ormai legate a doppio filo. È anche l’ammissione dell’incapacità della stessa politica nel pensare e trovare soluzioni durature, dell’incapacità degli strumenti militari di gestire situazioni conflittuali fino alla completa stabilizzazione e dell’incapacità delle organizzazioni umanitarie di risolvere i problemi della gente in una prospettiva un po’ più lunga di quella offerta dall’emergenza. Infine Kouchner ammette anche che la somma di queste incapacità conduce ineluttabilmente alla guerra. E allora guerra sia.
È evidente che in queste condizioni sono necessarie alcune forzature che garantiscano la realizzazione dell’emergenza e degli interventi delle varie componenti: deve succedere qualcosa – quello che gli analisti chiamano ‘trigger’ – che determini l’emergenza politica, deve essere in immediato pericolo la sicurezza collettiva e si deve
prevedere una catastrofe umanitaria (più grande è meglio è). Si deve in sostanza possedere un apparato gestibile capace di ‘inventare’ l’emergenza e di inventarne la fine che consente il distacco e il disimpegno a prescindere dalla soluzione dei problemi. L’attacco all’Iran rientra perfettamente in questo quadro e, a ben vedere, è un quadro ormai quasi completo.La disponibilità di pretesti per l’attacco è molteplice.
L’idea che l’Iran voglia sviluppare un ordigno nucleare e che voglia distruggere Israele è ormai largamente ammessa da tutti. Mancano i riscontri e le prove oltre alle fanfaronate, ma siamo stati testimoni di fanfaronate terroristiche che si sono comunque materializzate e nessuno vuole più rischiare, neppure per amore della verità. Un attacco iraniano o sostenuto dagli iraniani alle forze americane in Iraq, anche questo senza prove, sta convincendo persino i più scettici. Prima o poi, a forza di parlarne ed evocarlo, sarà preso come un invito o una sfida e sarà fatto sul serio. La politica iraniana di sostegno ad Hamas e agli Hezbollah rende Teheran estremamente vulnerabile. Basta un’intemperanza o un errore di queste formazioni per scatenare un intervento militare immediato.
La politica estera dei maggiori paesi, Europa inclusa, si è ormai abituata all’idea che un intervento armato sia in grado di ricacciare l’Iran sulle posizioni di vent’anni fa. Sta anche passando l’idea che lo scopo non è tanto e soltanto quello di impedire la formazione di una potenza nucleare, ma quello di eliminare il paese come attore regionale portatore d’interessi petroliferi e strategici in tutta l’Asia centro-meridionale. Sul piano militare tutto è ormai pronto da tempo. I piani d’attacco sono in vigore dal 1979, all’epoca della crisi dell’ambasciata Usa, e sono stati aggiornati con nuove tecnologie e strategie. La tesi che si tratti di un attacco mirato essenzialmente alle strutture atomiche senza danni collaterali per la popolazione civile è soltanto una pietosa fantasia di chi si è ormai abituato a mentire. Anche l’idea che possa essere limitato al territorio iraniano è quanto meno sospetta, perché lo scopo dell’ostinazione e dell’ostentazione degli ayatollah da una parte e di quella israelo-americana dall’altra riguarda interessi e ambizioni che vanno ben al di là del Golfo persico.
Qualsiasi genere di attacco produrrà ingenti perdite di militari e civili a prescindere che s’inneschi una emergenza nucleare di fall out o una fuga di radiazioni. Qualsiasi attacco non potrà che avere come premessa la distruzione delle strutture difensive: basi aeree e missilistiche, depositi, rampe mobili, porti militari, unità in navigazione, difese contraeree e radar, reparti terrestri mobili e corazzati, centri di comunicazione e di comando e controllo dovranno essere eliminati prima o contemporaneamente all’attacco alle installazioni nucleari. Molte di queste strutture coincidono con i maggiori centri abitati. Facendo la tara ai più sofisticati missili da crociera, alle bombe intelligenti guidate sugli obiettivi da parte dei commandos israeliani e statunitensi, già da tempo all’opera in Iran, rimane un margine abbastanza elevato di danni collaterali. Se dovessero essere usati al posto delle bombe ad esplosivo convenzionale ‘bunker busting’ i mini ordigni nucleari a fissione o le bombe a neutroni, la percentuale di danni potrebbe aumentare ma non così enormemente come molti asseriscono.
Anche la tesi che si possano fare attacchi chirurgici con una sola componente, quella aerea e missilistica, è uno specchio per le allodole. Un’azione complessa che miri, come si dice di voler fare, a rispedire il potenziale bellico iraniano all’età della pietra, presuppone azioni di attacco multiple, con forze multiple, da direzioni multiple in tempi ristretti in modo da impedire all’avversario, come diceva il colonnello Boyd, ogni capacità di decisione, risposta e controstrategia. L’azione multipla deve anche
prevenire la ritorsione diretta da parte delle forze aeree e navali iraniane contro le installazioni e i trasporti petroliferi nel Golfo Persico e in quello di Oman. Deve neutralizzare le minacce missilistiche alle basi militari americane in Asia Centrale e nel medio Oriente. Deve impedire azioni iraniane di strategia indiretta in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq, in Libano, a Gaza, nel Caucaso e in ogni altro posto dove uno sciita può creare un fastidio. Teheran inoltre controlla la costa settentrionale dello stretto di Hormuz e la chiusura di questa via d’acqua al traffico delle petroliere potrebbe far schizzare il prezzo del petrolio a livelli oscillanti tra i 200 e i 400 dollari al barile. Lo stesso risultato si otterrebbe se l’Iran ritorcesse le azioni di sabotaggio e bombardamento sugli impianti petroliferi di altri paesi dell’area.
La strategia militare dell’attacco all’Iran non può perciò essere affidata ad un attacco chirurgico o ad una sola componente. Non può che essere quella della ‘Swarm Warfare’, la guerra dello sciame o dell’orda, riesumata da Arquilla e Ronfeld dopo l’insuperabile applicazione di Gengis Khan. In termini moderni questa strategia attiva tutte le dimensioni della guerra – terrestre, navale, aerea, missilistica, spaziale, virtuale e dell’informazione – su teatri e livelli multipli. Per far questo occorre che lo ‘sciame’ delle varie componenti e delle azioni che si sviluppano concentrandosi in un luogo e in una dimensione per poi trasferirsi su altri luoghi e altre dimensioni sia comunque sufficiente ad impedire qualsiasi reazione.
Le orde incaricate della distruzione fisica degli obiettivi devono integrarsi e concentrarsi sui bersagli con le orde virtuali delle azioni diplomatiche, della guerra psicologica e con quelle della manipolazione dell’informazione.
Le azioni militari devono poi essere finalizzate a creare una emergenza umanitaria che consenta l’intervento di organizzazioni internazionali in territorio iraniano. Ovviamente la catastrofe deve essere attribuita alla responsabilità degli stessi iraniani. Anche in questo campo tutto è ormai pronto o quasi, soprattutto dopo l’esortazione di Kouchner. Agenzie internazionali e organizzazioni non governative stanno già scalpitando per andare in Iran a togliere il velo alle donne. Se si dà loro la possibilità d’intervenire per raccogliere i rifugiati, curare i feriti, fare la conta dei morti ed indire una tornata di elezioni al mese, ci sarà la gara per portare la democrazia in Iran.
La complessità di questo scenario non deve indurre a credere che si debbano mobilitare quantità enormi di forze. Le capacità di bombardamento degli stormi israeliani e statunitensi sono talmente elevate da essere in grado di battere obiettivi multipli con un numero limitato di velivoli. I missili da crociera che possono essere lanciati dal mare sono ormai armi tecnologiche che non hanno bisogno di interventi di massa per realizzare distruzioni mirate o su larga scala. Semmai la molteplicità dei piani e dei livelli d’intervento porrà problemi di coordinamento, comando e controllo, ma nulla di eccezionale. Stati Uniti e Israele collaborano da mezzo secolo e i problemi di pseudo autorizzazioni da parte di paesi terzi ai sorvoli o al transito di truppe sono ormai superati sia dagli accordi politici con i paesi interessati sia dalla predisposizione delle due
potenze a ignorare le obiezioni.
Rimane, grave e importante, l’incognita del post-emergenza.
L’incognita sul futuro di uno Stato di origine e mentalità imperiale che si vede transitato dal ruolo di Stato canaglia a quello di Stato fallito e da aspirante al ruolo di potenza regionale a quello di buco nero politico e strategico. Rimane forte l’incognita della reazione non tanto alla sconfitta o al ridimensionamento delle aspirazioni ma all’umiliazione. Non è escluso che quello che si vuole evitare, la nuclearizzazione dell’Iran, tutta da dimostrare e tutta da realizzare, non sia invece favorita con l’aiuto di potenze esterne proprio dall’umiliazione.
Fabio Mini è generale, ex comandante delle forze della Nato in Kosovo
(01 ottobre 2007)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Operazione-sciame-di-fuoco/