Involuzione della CGIL e necessità di una nuova dialettica interna

1. Credo che la crisi del sindacalismo italiano, e della CGIL in modo particolare, sia più manifesta di quanto i suoi gruppi dirigenti siano (pubblicamente) disposti ad ammettere. I più importanti contratti di lavoro sono stati firmati e quelli che stanno per esserlo o che verranno nel futuro prossimo ingrosseranno la “vulgata”, ma non ne rovesceranno certo l’indirizzo. Per usare un eufemismo, non vedo in giro entusiasmo. I risibili risultati salariali ottenuti, strutturalmente legati all’inflazione programmata, stanno privando il contratto nazionale di lavoro di qualsiasi interesse e credibilità, stanno vulnerando alla radice il ruolo di autorità salariale del sindacato, stanno introducendo modifiche rilevanti nell’organizzazione di fabbrica e nei rapporti di potere al suo interno. I bisogni dei lavoratori, la materialità della loro condizione non incrociano più, se non marginalmente, con i temi della contrattazione, tutta assorbita dalla scomposizione del lavoro e dall’introduzione di norme che ne consentono un uso sempre più flessibile e discrezionale. Nella percezione dei lavoratori il rinnovo del contratto nazionale viene vissuto fra alterni sentimenti di estraniazione e timore, la loro partecipazione non è più richiesta (tanto nella preparazione delle piattaforme quanto nel voto finale sugli esiti) e sempre più frequentemente revocata e sostituita da procedure che sequestrano il giudizio e la decisione – scontati – dentro ambiti ristretti e addomesticati. Il ricorso alla mobilitazione e alla lotta è ormai derubricato dalla pratica sindacale e si è consolidata la consuetudine di valutare un contratto più per i danni evitati che per i risultati conseguiti. Proseguendo per questa strada, Confindustria non avrà più bisogno di chiedere il superamento del contratto nazionale: esso si estinguerà “motu proprio”. Del resto, il processo reale di distribuzione del salario passa già oggi, prevalentemente, attraverso la contrattazione articolata (per la minoranza che la esercita), attraverso la contrattazione individuale (ad opera delle elite professionali che hanno qualcosa da far valere) e attraverso le elargizioni unilaterali delle imprese. È stupefacente constatare quanto la stessa politica dei redditi, a parole posta a base del modello contrattuale vigente, sia stata nella pratica elusa. Il contratto nazionale continua a non ridistribuire la produttività del lavoro, benché i dati a disposizione di ognuno documentino quanto grandi siano state le performances delle imprese e quanto illusoria sia stata la speranza che la moderazione salariale sospingesse le aziende a reinvestire nella produzione e nello sviluppo i propri maggiori profitti.

2. Si sono così combinati tre elementi perversi che caratterizzano la situazione italiana: da una parte, la plateale abdicazione della politica a scelte di indirizzo industriale e di investimento infrastrutturale programmato e la delega incondizionata al sistema delle imprese, beneficiate da un’ampia detassazione; dall’atra la storica arretratezza strategica della classe imprenditoriale italiana; dall’altra ancora, la rinuncia del sindacato a rompere questo connubio e la tendenza a flebilmente contrastare un modello che individua le sole proprie chances nella riduzione dei costi e nella compressione del lavoro. La deregolamentazione (da noi denominata “flessibilità”), importata acriticamente dal modello americano e trapiantata su un sistema industriale non innovativo, incapace di promuovere ricerca, ormai relegato ad occupare posizioni di nicchia o di pura trasformazione, è diventata la parola d’ordine, il motore, l’alfa e l’omega di ogni discorso e strategia sul lavoro. Un comportamento sindacale rinunciatario, incline a subire bassi salari e precarizzazione del lavoro, contribuisce ad alimentare e riprodurre un’industria arretrata, refrattaria all’innovazione strategica e comunque destinata ad esaurire rapidamente i propri margini di competitività. Persino le critiche che la cultura economica liberal-democratica eleva alla inadeguatezza di un modello di sviluppo fondato sulla compressione dell’offerta di lavoro restano sostanzialmente inascoltate. L’elezione di D’Amato alla guida di Confindustria dice, in fondo, che il grosso del padronato ha ormai compiuto una scelta che riguarda, a un tempo, la politica e le relazioni sindacali: l’aggressività liberista dei nuovi padroni, insofferenti verso ogni vincolo all’iniziativa d’impresa, si salda con una mai sopita voglia di rivincita di quel padronato di vecchia scuola che ha sempre considerato le conquiste operaie degli anni ’70 come una parentesi da chiudere non appena le condizioni lo avessero consentito.

3. È possibile rimuovere tutto questo e non avvertire la necessità di un cambiamento? La CISL persegue una propria linea, ben delineata, che muta alla radice la natura del sindacato confederale e lo inscrive perfettamente nella situazione data: sostituzione del contratto nazionale con patti territoriali o regionali; sostituzione della contrattazione decentrata con le commissioni bilaterali; sostituzione di parte del salario (comunque variabile) con l’azionariato operaio; forti ed entusiastiche concessioni sul terreno della flessibilità della prestazione e del mercato del lavoro; sussidiarietà nel sociale attraverso una partecipazione cogestita del collocamento; potenziamento dei servizi di patronato e consimili. Il conflitto sociale è totalmente superato dentro una diffusa pratica consociativa che liquida l’autonomia del sindacato cooptandolo, in chiave subalterna, nei meccanismi di funzionamento dell’azienda: la “reductio ad unum”, l’assimilazione del punto di vista dei lavoratori a quello dell’impresa trova qui il suo compimento.

E la CGIL? La CGIL vuole difendere il contratto nazionale di lavoro, ma procrastina un modello negoziale che lo svuota dall’interno; si oppone all’iperflessibilità del lavoro, ma appone sistematicamente la propria firma a contratti che ne sanciscono la frammentazione; protesta per il patto di Milano, ma sottoscrive patti territoriali in deroga o accordi di grandi gruppi che prevedono la sostituzione di lavoro stabile con lavoro precario; afferma con enfasi, nel proprio statuto, la sovranità dei lavoratori su tutte le materie che li riguardano, ma non li fa mai votare; ribadisce il valore del welfare, ma ondeggia quando si tratta di chiedere un aumento della spesa sociale per sostenerne le prestazioni; afferma la centralità del tema dell’occupazione, ma non trova il coraggio di contrastare una linea governativa che ne affida la promozione a consunte ricette liberiste o all’attesa messianica della ripresa economica.

4. La constatazione di questo grave empasse è al centro dell’iniziativa della sinistra sindacale che ha cercato di mettere a tema una proposta, non già per celebrare il rito ripetitivo della lamentazione, né per elencare obiettivi seducenti ma impraticabili, bensì per coinvolgere l’intera CGIL in una ricerca capace di approdare alla ricostruzione di una linea che oggi pare del tutto inadeguata. La domanda urgente è allora questa: vi è consapevolezza – nell’insieme della CGIL – di questa inadeguatezza? E se si, è possibile avviare una riflessione collettiva sulle nostre comuni difficoltà? Un confronto davvero libero, vale a dire svincolato dalla camicia di forza degli schieramenti pregiudiziali? Oppure prevarrà il riflesso burocratico che alla domanda “com’è il rancio?” fa rimediabilmente seguire la risposta “ottimo e abbondante”? Non si tratta di rivelare una verità già scritta che qualcuno custodisce e a cui qualcun altro debba infine approdare. Si tratta di sapere se si ritiene davvero possibile procedere in perfetta continuità o se non sia invece indispensabile suscitare tutte le risorse di cui disponiamo per riattrezzare un progetto ed una linea oggi esangui , a partire, probabilmente, dallo stesso impianto culturale che li sostiene. Se il giudizio sui problemi aperti è condiviso, allora occorre mettersi in gioco, tutti, responsabilmente, scansando la scorciatoia di assumere o respingere in blocco un punto di vista. È vitale reintrodurre una dialettica autentica nella CGIL. e sconfiggere quella cultura che considera le opinioni differenti una cancrena da amputare. Sarebbe un vero guaio se prevalessero la pigrizia o un riflesso opportunistico, se si finisce per lasciare le cose come stanno e la CGIL in una posizione di stallo, in balia degli eventi. E se all’apertura di un dialogo serio si opponesse un richiamo all’ordine di impronta fideistica e disciplinare.