Introduzione ai lavori

Cerchiamo anzitutto di spiegare il senso di questo incontro e del tema di cui vogliamo occuparci. E’ necessario infatti evitare sin dall’inizio un equivoco che ci porterebbe completamente fuori strada. Quando parliamo di “crisi globale” intendiamo una crisi del capitalismo globalizzato, una crisi del capitalismo nell’assetto che questo ha attualmente raggiunto e non certo una sua crisi sistemica. Non crediamo affatto che questa crisi – come del resto le crisi che si sono susseguite dall’inizio degli anni Settanta e si sono via via accelerate nell’ultimo quindicennio – rappresenti l’antefatto di un crollo, come pure qualcuno ha sostenuto con una certa superficialità. Crediamo piuttosto che il capitalismo viva di crisi e se ne rinnovi, che si modernizzi addirittura attraverso esse e che questo sia esattamente quanto sta accadendo oggi sotto i nostri occhi. In questo senso, la copertina di una settimanale uscito di recente, che mostra un Marx che impugna soddisfatto la falce e il martello occupando il posto della statua della libertà, ci sembra del tutto fuorviante.

Detto questo, però, il nostro problema rimane intatto. Che tipo di crisi è quella attualmente in corso? Sia nell’accademia che nel circuito mainstream dei mezzi di comunicazione di massa essa viene presentata come una crisi di natura prevalentemente finanziaria, dovuta all’esplosione della bolla speculativa immobiliare: la caduta del valore degli immobili negli Stati Uniti ha rivelato improvvisamente come i crediti maturati da alcune banche dopo la concessione di mutui subprime fossero inesigibili; il meccanismo infernale dei derivati ha fatto il resto e adesso la crisi minaccia di contagiare l’economia reale perché le banche hanno smesso di far circolare liquidità e non finanziano più le imprese, nonostante queste siano perfettamente sane. Ci sembra una colossale mistificazione. In realtà, riteniamo che questa sia una crisi del tutto “strutturale”. Una crisi, cioè, che si dipana anzitutto sul terreno della produzione e della riproduzione sociale. E’ una crisi che trova le sue radici nel processo di accumulazione capitalistico e nelle difficoltà del sistema, sin dai primi anni Settanta, a contrastare la caduta del saggio di profitto. E’ in altre parole una crisi di sovrapproduzione, determinata da decenni di politiche neoliberiste che sono passate prevalentemente per l’attacco al costo del lavoro e al suo potere d’acquisto. Solo a partire da qui la crisi si diffonde al mondo finanziario: né le classi subalterne né i ceti medi proletarizzati sono in grado di rispettare onorare i debiti contratti, debiti ai quali sono stati obbligati dalla loro oggettiva situazione di difficoltà economica e ai quali sono stati spinti dalle necessità del sistema di far circolare le merci. In altre parole, è del tutto inutile aspettare la crisi dell’economia reale: essa c’è già e anzi c’è già da molto tempo.

Ma la crisi comporta importanti ricadute sul piano delle politiche economiche degli Stati nazionali degli organismi internazionali. Si assiste in queste settimane alla messa in scena sistematica ed organizzata del “ritorno dello Stato”. Persino quegli intellettuali e quei politici che fino a qualche tempo fa erano stati gli apologeti più entusiasti del liberismo sarebbero diventati improvvisamente “statalisti” (pensiamo ad esempio al ministro Tremonti, il cui liberismo, del resto, aveva da tempo le sue originalità). In realtà noi dubitiamo che si possa parlare a questo proposito di statalismo, almeno nel senso in cui questo termine viene solitamente utilizzato dalla sinistra e parleremmo piuttosto di “statalismo neoliberista”. E cioè di un uso consapevole dello Stato da parte delle elite espressione delle classi dominanti, un uso per fini politico-economici relativi alla conservazione della proprietà e di una determinata distribuzione della ricchezza. Un uso, oltretutto, che si concretizza in una serie di misure volte alla salvaguardia dei profitti e alla socializzazione integrale delle perdite del settore privato. E’ come se lo Stato tendesse in questa fase a ridiventare quel «comitato d’affari della borghesia» che era stato denunciato da Marx nella seconda metà dell’Ottocento. Da questa configurazione lo Stato si era nettamente distaccato nel corso Novecento, quando la spinta delle classi subalterne e la presenza concomitante di un’alternativa di sistema nel blocco socialista avevano determinato il compromesso fordista-keynesiano e lo sviluppo delle politiche di welfare. Adesso, invece, in concomitanza con il picco più basso di forza relativa delle classi subalterne, lo Stato torna ad essere strumento esclusivo e diretto delle elites.

Il discorso ci porterebbe molto lontani, ma riteniamo che qui si nasconda un problema sinora poco indagato. Il rapporto del liberalismo con lo Stato, infatti, è ben più complesso di quello che solitamente la sinistra, anche quella marxista, ha creduto. Per una sorta di pigrizia intellettuale, noi stessi tendiamo a pensare che liberalismo e statalismo siano due termini in netta contrapposizione. Sin dai tempi delle enclosures e delle Leggi sui poveri, però, la storia dimostra come il liberalismo sappia usare benissimo lo Stato: sa farlo arretrare o avanzare a seconda delle circostanze, dei rapporti di forza e delle sue convenienze, facendolo funzionare in maniera coerente agli interessi delle elites.

Cosa significa concretamente tutto ciò, rispetto alla questione delle forme politiche? Di fronte alla strada intrapresa dal governo Berlusconi, a sinistra si sente da più parti parlare dell’avvento di un vero e proprio regime, addirittura del riemergere di elementi di fascismo. Noi crediamo che il problema non sia affatto il fascismo ma semmai, ancora una volta, il liberalismo. Il liberalismo ha sempre saputo dimostrare un’enorme duttilità: esso è un Proteo capace di adattarsi flessibilmente ai più diversi rapporti di forza, assumendo le forme contingenti adeguate. Se dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la grande Rivoluzione democratica internazionale che comprende le due guerre mondiali il liberalismo ha assunto la forma del “liberalismo democratico” con cui esso è oggi correntemente identificato, il liberalismo è però anche altro. Alla stessa maniera, esso contiene al suo interno ben altre potenzialità e contiene soprattutto una tendenza “bonapartista”, una spinta verso la “democrazia autoritaria”, che si libera quando le classi subalterne sono più deboli e incapaci di opporsi efficacemente. Sotto quest’aspetto bisognerebbe spingere più avanti la riflessione e chiedersi che ne sia della democrazia moderna ai nostri giorni, se essa non sia addirittura finita. La democrazia moderna – la democrazia intesa in senso pieno e integrale – è una forma politica che coincide con la spinta dal basso delle classi subalterne; quella spinta che attraverso il conflitto ha saputo determinare nei paesi capitalistici un gigantesco compromesso sociale, politico, economico, culturale. Quando questa spinta cessa ecco che i compromessi vengono meno e non ha più molto senso parlare di democrazia. La democrazia ci appare allora come una forma politica storicamente determinata, che come tutte le altre ha un inizio, un decorso e una fine, che oggi sembra arrivata. Per definire la fase attuale parleremmo perciò, quanto meno, di “democrazia autoritaria”.

Non bisogna trascurare il fatto che questa catena di crisi – perché è questo ciò che si sta determinando e non una semplice crisi economica – avviene nel contesto di enormi trasformazioni internazionali. Trasformazioni che vedono l’emergere lento ma inesorabile di interi continenti, che fuoriescono dal sottosviluppo al quale erano stati costretti da secoli di pratiche coloniali e dall’imperialismo occidentale. Ormai da diversi decenni, intere regioni del mondo premono con la loro crescita e determinano oggettivamente una diversa redistribuzione del potere e della ricchezza su scala internazionale. Questa spinta si rafforza però all’interno di un campo minato che è costituito dal monopolio statunitense della forza militare. Da un lato gli Stati Uniti vedono progressivamente declinare la propria egemonia economica, politica, ideologica sul resto del mondo, dall’altro essi sono ancora la potenza leader sul piano militare e hanno tutto l’interesse a far valere tale leadership per non perdere posizioni. Tutto ciò determina una situazione molto pericolosa e potenzialmente esplosiva perché i rischi di un conflitto generalizzato, in queste condizioni, aumentano in maniera esponenziale.

E’ a partire da queste considerazioni che va interpretata la figura di Barack Obama. Non sono pochi, anche a sinistra, coloro che hanno visto in Obama una sorta di messia: pensiamo a come la sua vittoria è stata presentata anche da il manifesto e in certi articoli di Liberazione. Del resto, anche negli Stati Uniti stessi si è parlato – in chiave negativa da parte dei repubblicani, in chiave positiva da parte di certi settori della sinistra alternativa – persino di un possibile “socialismo” obamiano. Piuttosto che perdersi dietro a queste fantasie, i marxisti devono rimanere con i piedi per terra e analizzare i dati di fatto oggettivi. Certamente è molto significativo che in un paese come gli Stati Uniti, che ha avuto una lunghissima storia di Stato razziale ed è stato segnato ancora di recente dall’apartheid, una minoranza discriminata intraprenda un processo di emancipazione-cooptazione (anche la semplice cooptazione è infatti preferibile alla discriminazione tout court). Tutto ciò rende più realistiche le parole pronunciate da Marx quando definiva gli Stati Uniti come il paese della democrazia politica compiuta, il paese cioè nel quale le differenze sociali – o etniche in questo caso – non avevano più nessun rilievo sul piano formale. Parole che all’epoca erano del tutto sbagliate ma che oggi assumono una nuova attualità. Ma tutto ciò ci fa capire come in realtà il compito di Obama sia proprio quello di salvare e modernizzare il capitalismo statunitense e di mantenerne la leadership sul piano mondiale, non certo quello di superarlo in una prospettiva socialista.

Insomma, le questioni urgenti sul tappeto sono molte e molto complesse. La cosa più sconcertante, però, è che mentre si verifica questa catena di crisi, mentre il mondo è in fibrillazione e le contraddizioni più acute vengono allo scoperto, i comunisti e la sinistra in generale sono nel nostro paese pressoché cancellati. Proprio quelle forze che avevano saputo prevedere in tempo la crisi, mostrando come essa crescesse persino non troppo nascosta sotto la cenere delle politiche neoliberiste e sotto l’egemonia del liberalismo trionfante, sembrano oggi non avere nemmeno la forza di parlare. Questo è un problema serio non solo per le prospettive dei comunisti e della sinistra politica ma soprattutto perché mette in discussione l’esito che i processi in corso possono avere. Mentre nella società emergono potenti contraddizioni si sviluppano sotto i nostri occhi nuovi e insperati movimenti antagonistici. Movimenti che appaiono però del tutto privi di direzione politica e incapaci di trovare sia una consapevolezza generale sia il filo conduttore dell’unità delle lotte.

Di fronte a questi movimenti i comunisti hanno in questo momento ben poco da dire. La cosa più importante allora, in queste condizioni, è cercare di studiare e capire ciò che sta accadendo. E’ questo lo scopo di questa iniziativa de l’Ernesto: far lavorare assieme i comunisti iniziando un percorso comune. Un percorso che si svolge adesso prevalentemente sul piano intellettuale ma che si propone di aprire presto una prospettiva concreta di unità politica, condizione che riteniamo necessaria per ritrovare efficacia. Questo, del resto, è il ruolo principale di una rivista come la nostra, che proprio sul terreno dell’analisi ha saputo acquisire quel prestigio che le viene riconosciuto anche sul piano internazionale.