Intifada fino alla vittoria

Alla nostra delegazione Action for peace, che si è aggirata per la Palestina al passaggio dal 2001 al 2002, gli israeliani hanno fatto di tutto. Colpi di mitraglia da carri armati sui piedi delle prime file di un corteo anti-occupazione a Nablus; pioggia di gas incapacitanti e bombe assordanti sui manifestanti che avevano violato un posto di blocco tra Ramallah e l’università (negata) di Bir Zeit; brutali blitz tra i manifestanti contro l’occupazione israeliana dell’Orient House, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Gerusalemme (tre arresti, mazzate, sputi sulle bandiere palestinesi, rotta la gamba a una compagna); assalto a chi accompagnava il dirigente dell’Intifada Mustafa Barghuti (arrestato e malmenato due volte in tre ore), con l’europarlamentare Luisa Morgantini scaraventata per terra e altri compagni bastonati e gassati; città come Hebron e percorsi come Betlemme-Gerusalemme negati, anche ai patriarchi cristiani, con modi protervi e ingiuriosi.

E l’elenco delle brutalità di polizia ed esercito israeliani potrebbe andare avanti. Resta solo da rimarcare la latitanza e indifferenza , in bella intesa, dei grandi mezzi d’informazione e delle autorità politiche italiani. Quasi 500 pacifisti o sostenitori dei diritti palestinesi provenienti da Italia (200), Francia, Belgio, Inghilterra, nonviolenti e totalmente inermi, costantemente aggrediti e addirittura sparati dai colonialisti israeliani, sono evidentemente notizia meno rilevante dell’ennesima montatura sui progetti terroristici di Arafat.

Ciononostante, in virtù della pari faziosità ma maggiore professionalità dei media francesi e anglosassoni e per la costante, precisa presenza di quella grandiosa televisione indipendente che è Al Jazira (forse il più efficace momento di unificazione araba dai tempi di Nasser e del Fronte del Rifiuto messo in piedi da Saddam Hussein contro la resa di Camp David), la repressione messa in atto contro di noi da quello che i liberal israeliani chiamano il regime militare del triumvirato Sharon-Eliezer-Mufaz, si è risolta in un autentico autogol. Utilizzando gli attentati dell’11 settembre per inserire il conflitto israelo-palestinese e israelo-arabo nel quadro della crociata occidentale contro il terrorismo, cioè contro l’Islam, cioè contro il Sud del mondo renitente all’imperialismo USA, Sharon aveva tentato la carta dell’internazionalizzazione : i governi democratici, condizionati dall’emergenza antiterrorista, non avrebbero più potuto tentennare di fronte all’appello all’isolamento e alla liquidazione del “terrorista” Arafat e delle sue formazioni laiche o islamiche che fossero. E per alcuni mesi l’operazione ha funzionato, grazie anche all’efficace ricatto israeliano nei confronti degli Stati Uniti che sono stati costretti a mettere la sordina alle riserve di loro settori politici ed economici nei confronti di un blitzkrieg israeliano mirato alla cancellazione-espulsione definitiva del popolo palestinese e alla sistemazione del contenzioso arabo-israeliano manu militari, da Gerusalemme al Golfo Persico e, magari, all’Iran.

Ovviamente il regime dei generali israeliani – che annovera non solo lo stragista di Sabra e Shatila, ma anche illustri veterani dei massacri nei centri palestinesi dagli anni ’50 in qua – non demorderà da questa strategia, ora che le Torri Gemelle e la prospettiva certa di altri episodi analoghi, garantiti da decenni di terapie ideologiche e addestramenti terroristici CIA e Mossad in giro per il mondo, ha imposto all’Occidente un quasi incondizionato allineamento alle motivazioni sioniste. Ma questa inedita presenza di massa europea, con tanto di parlamentari nazionali ed europei (in prima linea di Rifondazione Comunista), ha lasciato il segno. E non solo in Israele, dove ha sostenuto e rafforzato lo sparuto, ma politicamente sempre più maturo , gruppo di pacifisti israeliani. Pacifisti passati dalle posizioni minimaliste ed equivoche della vecchia, borghesissima Peace Now, alla radicalità filo-Intifada della nuova sinistra pacifista di New Profile con Jeff Halper, o di Gush Shalom con Uri Avneri. Il mezzo migliaio di partecipanti all’”Azione per la pace”, affiancati da decine di militanti delle sinistre extraparlamentari, che hanno compiuto operazioni parallele, e dai cooperanti di ONG per una volta non affaristiche o inserite tipo Kosovo in oscure mire politiche, hanno fortemente innervosito le autorità israeliane, fino a fare perdere la testa ad alcuni militari. Domani dovrebbe avere un effetto stimolante, con le mille iniziative che ne stanno discendendo in Europa, anche su formazioni politiche che finora non hanno espresso il loro pieno potenziale di solidarietà materiale e politica alla lotta di liberazione palestinese, nelle forme giudicate opportune dalla sua direzione.

Prima di riferirvi il pensiero dei tanti dirigenti palestinesi incontrati, è forse il caso di vedere quali sono oggi gli equilibri politici all’interno della Resistenza. Le formazioni islamiche Hamas e Jihad hanno dato prova di maturità ottemperando alla richiesta di Arafat di interrompere gli attacchi suicidi e le operazioni in territorio israeliano. Su questa base la dirigenza dell’Intifada, a chiara egemonia di sinistra e impersonata dai due Barghuti, Mustapha (segretario del Partito del Popolo – comunista – in Cisgiordania , presidente del Centro palestinese per i diritti umani e del coordinamento delle ONG palestinesi) e Marwan, presidente del Comitato unitario dell’Intifada, ha proposto all’ANP e a tutte le componenti della Resi-
stenza una dichiarazione strategica unitaria per la fase conclusiva della lotta di liberazione nazionale. Dichiarazione oggi in corso di elaborazione e che pone al primo punto dell’ordine del giorno la liberazione nazionale e la costituzione dello Stato palestinese su tutti i territori occupati nel 1967. Non è negabile che divergenze tattiche permangano tra la cosiddetta direzione interna, sorta dalla prima Intifada e che controlla la seconda, e il gruppo intorno ad Arafat, al vertice dell’ANP, composto oltre che dall’autorevole e universalmente stimato portavoce Yasser Abed Rabbo, dai vecchi compagni di Ara
fat dei tempi dell’OLP. Divergenze, segnate anche dai noti episodi di corruzione e autoritarismo di cui molti notabili sono stati imputati, nonché dagli arresti, definiti arbitrari, di militanti del Fronte Popolare e del Fronte Democratico, oltrechè di attivisti islamici.

Queste differenze non sono state certo nascoste nell’incontro avuto con tutti i massimi dirigenti dell’Intifada, da Fatah al Fronte Popolare, dai comunisti al Fronte Democratico. Al ruolo di mediatore decisivo ed indispensabile, indefettibilmente attribuito dall’ANP e da Arafat al governo statunitense, faceva da contrappeso il rifiuto, ribadito anche dagli esponenti arabo-israeliani, di ogni fiducia sia in Washington, vista totalmente appiattita sul militarismo terrorista di Sharon, sia in un processo negoziale che rivaluti Oslo. Da una parte, dunque, chi non punta a niente di meno che alla liberazione nazionale di tutti i territori (Stato, confini, Gerusalemme Est, profughi, smantellamento delle colonie); dall’altro, chi pensa a piani Tenet, Mitchell, Oslo ed è disposto a considerare (tatticamente?) riduzione di territorio, permanenza limitata di insediamenti, mancata continuità dello Stato, limiti al diritto al ritorno. Tutto questo non vieta che Arafat rimanga il capo riconosciuto del popolo palestinese, sostenuto e in buona misura condizionato da una dirigenza dell’Intifada di grande spessore politico, di visione sicuramente più di sinistra e che gode di indiscusso consenso in tutte le componenti della Resistenza, fungendo spesso da autorevole mediatrice nel contrasto tra il moderatismo dell’ANP e la radicalità degli islamici.

Ci ha detto Marwan Barghuti:”Per cento anni abbiamo combattuto senza negoziare, per dieci anni abbiamo negoziato senza combattere. Ora è il tempo per combattere e negoziare”. Che è poi il corollario di un suo altro detto famoso:”Vincere resistendo un minuto di più”.

Altra sfumatura diversa è la sottolineatura, su cui Arafat insiste in sintonia con parte del movimento pacifista, della terribile sofferenza a cui è sottoposto il suo popolo di fronte al quinto esercito del mondo, che passa il tempo a fare il tiro al piccione sui civili palestinesi, a disintegrare case e campi, a realizzare il genocidio strisciante di genti incarcerate in un campo di concentramento grande come quel 22% di Palestina storica che l’ONU assegnò nel 1947 ai suoi abitanti. I dirigenti dell’Intifada preferiscono porre l’accento sui risultati raggiunti, a livello interno e internazionale, dall’Intifada dei sassi, della lotta di massa, o delle armi che sia. E che si tratti, per quanto tragico sia il prezzo, di successi sembrano ribadirlo i mille e mille ragazzini e ragazzi che ci hanno salutato, festeggiato, accompagnato nelle nostre peregrinazioni attraverso le macerie di Rafah e Khan Junis, o sotto i tiri dei soldati israeliani a Ramallah e Nablus, o nel fango e tra i cartoni dei campi profughi da Deisheh a Qarara.

Bambini e giovani che, a dispetto delle diagnosi di psicanalisti e sociologi, ribadite anche da certe esponenti della nonviolenza palestinese, esprimono vitalità, allegria, cordialità, comunicativa, intelligenza, in misura tale da rassicurare sulla loro salute psichica e nervosa. Colpiscono di più, semmai, le spaventose carenze materiali. È un’esperienza che a suo tempo mi sorprese in Nord Irlanda, dove gli effetti della brutalità repressiva unionista e britannica parevano compensati dal gesto liberatorio del lancio di sassi o molotov, dal sentirsi parte di una comunità in lotta per obiettivi umani, politici, morali indiscutibili, in qualche modo parte di un futuro in atto. Si direbbe il privilegio di popoli biologicamente saldi e moralmente agguerriti, corrazzati contro la rassegnazione.

In effetti, dell’Intifada si tendono a mettere in evidenza, chi i presunti “terrorismi”, chi le vittime, sofferenze, ingiustizie. Raramente si parla di quanto questa lotta di 16 mesi ha conseguito. Ed è moltissimo. Grazie anche a Al Jazira, milioni di arabi tra l’Oceano Atlantico e il Golfo sono diventati partecipi testimoni di un’oppressione barbarica e di una resistenza eroica. E questo ha certamente mutato in profondità la conoscenza e la coscienza di queste masse, condizionandone, come s’è visto, i regimi anche più subalterni agli USA. Si tratta di un fiume in buona misura ancora sotterraneo, ma che non mancherà, anche alla luce dei programmi di conquista e sottomissione di Sharon, di produrre conseguenze a lungo termine.

C’è poi la risonanza suscitata nell’opinione pubblica europea e mondiale (vedi il vertice antirazzista e antisionista di Durban, vedi il Movimento, vedi l’adunata internazionale della gioventù comunista e antimperialista ad Algeri) dalla tenacia con cui l’Intifada ha perseguito i suoi obiettivi, senza farsi bloccare da sciagurate equiparazioni con il terrorismo, o da ingannevoli piani di pace finalizzati a annebbiare l’opinione pubblica. Sempre sul piano geopolitico, la riammissione dell’Iraq nel consesso arabo e, ancor più, il riavvicinamento Iraq-Siria, con forti riflessi antimperialisti, devono tutti qualcosa al riproporsi sulla scena della lotta palestinese. La sanguinaria repressione condotta l’anno scorso contro gli arabi stanziali del Nord e nomadi (beduini) del Sud, con 13 manifestanti uccisi in Galilea, insieme alla risposta dell’Intifada, ha saldato i legami tra i cittadini di seconda classe arabi d’Israele e i palestinesi di Gaza e Cisgiordania, mentre si sono rafforzati i collegamenti politici e di cooperazione tra palestinesi dell’interno e i profughi in Libano, laici o islamici, e con gli Hezbollah, vittoriosi sulle forze d’occupazione israeliane e che i governi di Siria e Libano e perfino l’Unione Europea si sono rifiutati di includere nella lista delle organizzazioni terroristiche voluta dagli USA.

L’elenco annovera altri successi (importante la crescita esponenziale dei coscritti o riservisti che si rifiutano di servire nei territori occupati, o in assoluto nelle forze armate, a costo di inevitabili periodi di detenzione)che consentono ai capi dell’Intifada di affermare che la lotta di questi mesi paga. Con la repressione coloniale più feroce e sanguinaria dalla Seconda Guerra Mondiale, Sharon puntava a soddisfare la sua principale promessa elettorale: sicurezza. Il fallimento del proposito è documentato dalla riduzione di metà del flusso turistico, principale fonte di introiti dell’economia israeliana, dal boicottaggio in molti paesi dei prodotti israeliani , dalla fuga dagli insediamenti del 20% dei coloni e dal gran numero di nuove case che rimangono vuote, dalla riduzione del 25% delle immigrazioni (che ora si tenta di compensare con insistenti appelli e condizioni di favore ai 200.000 ebrei argentini),dal collasso dell’industria edile, privata dei suoi 250.000 operai palestinesi, dalla fuga dei capitali e dagli investimenti esteri calati della metà. Tutto questo ha determinato un vero effetto-bomba sull’economia israeliana e, dunque, sulla coesione della società nel segno del razzismo antipalestinese.

L’anno nuovo veniva inaugurato dalla stampa israeliana con il grido di dolore della “prima recessione di Israele dal 1953”, in massima misura da attribuire all’Intifada. Non aveva un’europarlamentare danese del nostro gruppo sollecitato Marwan Barghuti ad insistere sulla guerra agli obiettivi economici di Israele?

Per la prima volta la crescita è calata, arrivando sotto lo zero: meno 1,4% rispetto al 2000, (PIL meno 0,5% nel 2001, ma anche meno 5,3% nella seconda metà dell’anno) mentre il dollaro ha guadagnato il 9,3% sullo shekel. La borsa di Tel Aviv ha perduto il 9,3% in un anno. Una situazione definita “disastrosa” dall’ex-ministro delle finanze Avraham Shochat e suscettibile di ulteriore peggioramento nei mesi a venire. E pensare che fino all’Intifada la crescita media di Israele era stata del 6,4%. Anche la produzione industriale ha subito un calo del 2,1% (10,5% per i settori high-tech e dell’edilizia), mentre servizi e commercio sono scesi dell’1.4% rispetto a un aumento del 19,4% prima dalle’Intifada. L’export di beni e servizi, cresciuto del 23,9% nel 2000, è crollato del 13,1%. A coronare la peggiore crisi vissuta da Israele dalla guerra di Suez c’è il dato della disoccupazione: 7,6% nel 1997, 9% nel 2001. La pubblicazione di questi dati ha provocato un altro evento inedito nel parlamento israeliano: la mancata approvazione del bilancio e, dunque l’adozione dell’esercizio provvisorio, segno dell’infelice gestione di uno Stato all’orlo della bancarotta a causa di privatizzazioni e spese militari e nonostante l’iniezione annuale di 3 miliardi di dollari statunitensi. Il Knesset non se l’è sentita di ridurre di un miliardo e mezzo di dollari i finanziamenti che avrebbero difeso lo stato sociale e favorito i settori deboli della società, dai disoccupati ai pensionati, dai disabili alle popolazioni del Neghev a cui sono state negate facilitazioni che gli avrebbero permesso di allargarsi ulteriormente a spese della disastrata, espropriata e abbandonata comunità araba beduina. Così, nelle nostre giornate a Gerusalem-
me abbiamo potuto assistere via via a scioperi, rabbiose manifestazioni e blocchi stradali di varie categorie in difficoltà. Se poi da quello economico si passa al disagio e degrado morale della società israeliana, c’è un dato drammatico su tutti, diretta conseguenza dell’illimitata violenza istituzionale esercitata contro i palestinesi e dall’esaltazione di principi da Far West che ne discende: un’indagine del quotidiano Yediot Aharonot ha rivelato agli inizi dell’anno che Israele capeggia la classifica dei dieci paesi più avanzati del mondo per atti di violenza compiuti da dodicenni e tredicenni. Bambini israeliani, badate, non palestinesi, non quelli dei sassi. Una grave patologia sociale che annovera un 24% di bambini israeliani sottoposti ad atti di violenza fisica nel 1999, paragonati al 10% dei pur violenti ed armatissimi Stati Uniti, con un 10% di indagini in più aperte nel 2001 a carico di bambini violenti. Le aggressioni sono aumentate del 17%, le minacce del 6% e le lesioni gravi del quasi 4%. Ha commentato Yitzahak Kadman, direttore del Consiglio Nazionale dell’infanzia: “All’origine dei questi comportamenti delittuosi sono soprattutto ragioni politiche ed economiche nel quadro di una società che ammette e addirittura incoraggia la violenza”.

Nei vari incontri con esponenti della sinistra israeliana, come Jossi Sarid, leader del partito Eretz, e palestinesi mi sono parse particolarmente significative, perché assonanti, le parole del pacifista israeliano Jeff Halper, coraggioso leader del movimento “Nuovo profilo” e quelle di Hazmi Bishara, popolarissimo dirigente dell’Alleanza Nazio
nale Democratica, partito arabo-israeliano nato da una scissione del partito comunista, deputato alla Knesset e recentemente privato dal governo dell’immunità diplomatica con il pretesto di aver favorito i contatti tra palestinesi e i loro famigliari nei campi profughi di Siria e Libano, nonché di aver incontrato gli Hezbollah. Bishara è considerato il massimo promotore di un coordinamento politico ed operativo tra territori occupati e palestinesi nello Stato d’Israele. Eccone una sintesi.

“Gli attentati dell’11 settembre hanno sancito una spaventosa menzogna: la suddivisione del mondo in terroristi e non terroristi. Noi ci dichiarammo subito contro quegli atti di terrorismo poiché non erano dissimili dal terrorismo che Israele pratica contro di noi. Ed abbiamo ribadito che la divisione, sancita anche da quegli attentati, era tra ricchi e poveri del mondo, tra potenti e deboli, non tra terroristi e chi li combatte. Israele ne ha invece tratto il pretesto per tentare di liquidare la questione palestinese una volta per tutte e purtroppo la definizione data dal governo israeliano è diventata quella della comunità internazionale. Il progetto era stato concepito dal vecchio premier Netaniahu: il mondo civile contro i terroristi come arma finale contro i palestinesi e tutti i popoli da assoggettare. Un anno fa avrei detto che la nostra lotta è giusta e basta e non mi sarebbe importato se qualcuno l’avesse definita “terrorista”. Ora no, ora quel concetto è stato codificato: basta l’accusa di terrorismo e qualsiasi paese può essere aggredito e disintegrato. Israele definisce terroristi Hamas e la Jihad. Accettiamo pure, retoricamente, che il terrorismo colpisce persone per motivi e obiettivi politici, Ma distinguiamo allora anche tra terrorismo e terrorismo imperialista e non permettiamo che il primo venga utilizzato per praticare il secondo. Constatiamo invece che strutturalmente occupazione significa violenza contro popolazioni per spezzarne la volontà di autodeterminazione. Se ne deduce che resistenza contro l’occupazione è resistenza contro il terrorismo. Possiamo anche deprecare e condannare moralmente e politicamente singole azioni da parte di organizzazioni dalle quali ci dividono alcune cose, ma chi esegue queste operazioni non può essere definito terrorista e la sua organizzazione terroristica. La lotta contro il colonialismo non può in alcun modo essere fatta rientrare nella categoria del terrorismo. Noi combattiamo un progetto colonialista sulla base di principi del diritto internazionale che prevedono la resistenza con tutti i mezzi. Subiamo una violenza continua, feroce dai terroristi dell’occupazione, non scordiamolo.Condanniamo pure gli errori, riteniamo moralmente e politicamente inaccettabile colpire civili al di là della Linea verde che ci separa da Israele, ma sempre nel contesto di una rivolta di popolo che è legittima e irrinunciabile. Noi abbiamo dovuto superare una serie di difficoltà gravi: il concetto che l’Intifada fosse una rivolta contro le offerte di Camp David, un rifiuto della pace; la simmetria artificiale che molti vedevano tra israeliani e palestinesi, seppellendo il fatto che di un occupato e un occupante si trattava. Parlando di processo di pace si diffondeva l’idea di due stati in guerra, mascherando il paradosso senza precedenti di una vittima che dovrebbe garantire la sicurezza del suo oppressore. Un’altra difficoltà era endogena e riguardava la confusione circa cosa si chiedesse all’Intifada. Per affrontare occupazione, esercito, società nemica ci vuole una strategia unitaria, pur nella diversità delle visioni ideologiche e tattiche. La strategia deve essere una sola, anche con la rinuncia a preziose posizioni particolari. Con il nostro rifiuto delle presunte – ma inesistenti – offerte di Barak a Camp David abbiamo perso l’appoggio dell’Europa. Non siamo stati in grado di comunicare la verità di quel “piano di pace”: ai palestinesi il 40% del 22% del territorio assegnatogli dall’ONU, niente eliminazione delle colonie, niente rientro dei profughi, niente sovranità effettiva, una serie di bantustan separati tra loro, la dipendenza economica, la privazione dell’acqua, eccetera, eccetera.

Vorrei ricordare un’altra difficoltà. Se avessimo di fronte una classica potenza coloniale tutto sarebbe stato più facile. Invece ci è toccato il popolo vittima suprema per definizione, addirittura con i laburisti al potere. Non si diceva in giro che combattevamo contro un generale e la sua armata, ma contro un laburista, uno che cammina, mangia, dorme, parla come voi europei. Era invece uno che veniva dalle “Special Forces”, dagli Squadroni della morte, da quelli autorizzati a uccidere e a commettere ogni crimine. Barak ha inaugurato il metodo che oggi si continua a praticare: si impongono condizioni sempre più gravose sul terreno, per poi arretrare di mezzo passo e comunicare al mondo che i palestinesi sono irriducibili. Se l’altro accetta, vinci. Se non accetta vinci lo stesso, perché gli attribuisci la crisi del processo di pace. Per questo, andare a Camp David per noi significa solo perdere.”

Conclude con questa implicita polemica con Arafat, Hazmi Bishara, non senza aver prima risposto a una mia domanda sul ruolo, sempre auspicato, ma mai realizzato, dell’Europa. “Gli europei? Non sono ingenui, sono paesi capitalisti con un’opinione pubblica pesantemente condizionata. Inuitile chiedere all’Europa attuale un ruolo politico, o anche solo morale. Era un’illusione che l’Europa potesse avere nel contesto attuale una posizione diversa, riconducibile a quella profonda divergenza dagli USA e da Israele che fu la Dichiarazione di Venezia. Quei politici sono scomparsi. Pensavamo che quella fosse l’Europa, quella di un’Internaziona
le Socialista ancora un po’ credibile, dei Kreisky, Palme, Brandt. Oggi l’Europa ha solo il ruolo di convincere i palestinesi a fare concessioni fino a riconoscere il primato sionista e il dominio israeliano. Eppure da allora noi abbiamo ribadito infinite volte il riconoscimento di Israele nei confini del 4 giugno 1967. Arretrammo dai nostri diritti, accettammo una falsa simmetria. Dopo la guerra del Golfo, gli USA decisero di sbarazzarsi dell’OLP. Venne a esistenza l’ANP e l’immagine era quella di due parti in disputa, dimodichè la soluzione viene data unicamente dai rapporti di forza. Anche a qualcuno di noi è piaciuto diventare “parte”, essere chiamato “presidente”, “autorità”, avere ambasciatori. Non riuscimmo ad evitare quello che i sudafricani avevano evitato: la simmetria tra le due parti , privilegiando invece i rapporti con i popoli ed i movimenti. Oggi dobbiamo far capire non che Israele o noi rompiamo la tregua, ma che Israele occupa e uccide. Dobbiamo trovare un linguaggio per il quale movimenti e forze politiche capiscano che qui si tratta di liberazione nazionale. Il linguaggio del Vietnam, di Cuba, del Sudafrica. È un linguaggio che gli europei capiscono e rispettano.

Una lotta nella quale sono oggi fortemente impegnati i nuovi pacifisti israeliani di “Nuovo profilo” è quella contro il servizio militare, in particolare nei territori occupati, erede di quella lotta vittoriosa che vide l’esercito falciato da disertori e loro famigliari durante l’invasione e occupazione del Libano. “Siamo un esercito con una società”, dicono. “Non una società con un esercito”. La militarizzazione di Israele fa impressione: generali o ufficiali dirigono le istituzioni, il governo, i maggiori partiti, le più importanti aziende, il sistema scolastico. Tutta gente che sa fare la guerra, non la pace. E questi pacifisti sfidano il disdoro sociale , la carcerazione, l’ostracismo professionale pur di rifiutare questa gerarchizzazione della società e i suoi risvolti sui palestinesi. La loro è una lotta anticolonialista e per la democrazia. Con il loro leader, Jeff Halper, e il suo “Comitato contro le demolizioni” ci troviamo, in una rigida alba di gennaio, a contrastare le ruspe e i cingolati israeliani che, nel campo profughi di Shafat, a Gerusalemme (costruito nel 1964 per 4000 cacciati da Gerusalemme Est e abitato oggi da 22.000 palestinesi), arrivano ad ogni costruzione di pareti e tetti per i figli dei figli degli espulsi, costruzione necessariamente abusiva visto che ai palestinesi non si concedono licenze di costruzione. Halper, oltre al Comitato che si oppone ai demolitori, tiene un sito telematico per informare genitori e figli di quanto conviene fare per evitare il servizio militare.Denuncia l’arretramento del movimento israeliano per la pace durante e dopo i negoziati di Oslo “e ci è voluto un gran lavoro perché si risvegliasse”. “Ci opponiamo all’occupazione con una manifestazione al mese”, racconta, opponendoci alle ruspe insieme ai palestinesi e ricostruendo con loro le case distrutte. Abbiamo così’ conosciuto nel dettaglio il dramma dei palestinesi . Lavoriamo solo con associazioni palestinesi e sono loro a dirci cosa fare, loro di cui ci sentiamo partner subordinati dato che la sanno certamente più lunga di noi. Dobbiamo rigorosamente evitare ogni accenno di superiorità, di paternalismo, anche umanitario. I pacifisti del passato non andavano tra i palestinesi, un limite enorme. Con quella zona grigia che sono i regolamenti e le norme apparentemente burocratiche, Israele cerca di mascherare l’occupazione da amministrazione. A Milano si demoliscono le case abusive? Beh, lo si fa anche qui. E l’opinione pubblica è pacificata. Il nostro secondo livello di lotta è diretto a questa opinione pubblica che non sa nulla dell’occupazione, ma sente solo parlare di terroristi e sicurezza. Il terzo livello è la mobilitazione internazionale, sul tipo di quella che il 28 dicembre ha visto sfilare per Gerusalemme 5000 pacifisti di tanti paesi. Crediamo che la soluzione per noi non verrà da questa terra, ma da fuori, da pressioni internazionali, dalla solidarietà sul tipo di quella che liberò il Sudafrica dall’apartheid.” Chiudendo, Jeff Halper dà dell’Intifada una valutazione che non avevo mai sentito da pacifisti israeliani. “È una campagna che è riuscita a smascherare la vera natura dell’occupazione. Ha lacerato la maschera della “normale amministrazione”. È stata una sollevazione di strada contro l’apartheid sancita a Oslo. Israele ha fatto di tutto per far sparire l’occupazione dietro la cortina fumogena del terrorismo, ha parlato di autodifesa e di sicurezza. Noi e l’Intifada dobbiamo ripetere all’infinito: è occupazione, stupido! È occupazione, occupazione, occupazione. La società israeliana non cambierà a breve, ma per il lungo termine non sono disperato.”

Il colloquio avuto con i due massimi esponenti dell’Intifada, Mustafa e Marwan Barghuti a Ramallah, ha toccato vari aspetti della congiuntura e della strategia. Ne riportiamo i passi salienti. Il capo del Comitato Unitario dell’Intifada, ha ribadito i successi dell’Intifada, come illustrati sopra, soprattutto in relazione ai danni inflitti all’economia israeliana, mentre Mustafa ci ha parlato della sostanziale intesa venutasi a creare tra i vari partiti e organizzazioni della Resistenza. Ci ha anticipato una nuova Carta dell’Intifada, redatta con il concorso anche delle formazioni islamiche e che codifica le condizioni palestinesi imprescindibili: fine dell’occupazione dei territori conquistati nel 1967, smantellamento degli insediamenti, creazione di uno Stato sovrano, Gerusalemme capitale congiunta dei due Stati, diritto al ritorno o all’indennizzo dei profughi. “È perciò”, ha detto, “che abbiamo chiamato questa l’Intifada dell’Indipen
denza.” Sono 14 i gruppi politici riuniti nella direzione dell’Intifada, insieme a associazioni, enti locali, sindacati.” Discutiamo insieme ogni iniziativa per arrivare a un approccio unificato”, prosegue Mustafa. “E oggi esaminiamo un documento nuovo, accettato da tutti, anche dai compagni di Gaza. Questo documento racchiuderà le conclusioni del dibattito su come raggiungere gli obiettivi che abbiamo elencato, lotta armata o no, dentro Israele o no, quali attività di massa. Sarà un documento guida per le prossime fase e dovrebbe servire anche a far capire la nostra causa al pubblico europeo, in modo che agisca sui governi per far tornare l’Europa a fianco dei diritti palestinesi.” Ahmed, del Comitato Centrale di Al Fatah, aggiunge:”Il nostro sforzo deve cercare di convincere gli europei che i palestinesi vogliono la pace. Certo, se Israele eUSA continuano a chiudere tutte le porte e bloccare le risoluzioni dell’ONU e l’invio di osservatori internazionali contro i massacri, l’alternativa sarà violenta. La negata libertà la giustifica. Ma gli israeliani e tutti devono capire che non esiste una soluzione militare e che gli USA, pretendendo di governare il mondo, controllare gli alleati e perpetuare guerre catastrofiche, stanno portando tutti verso il baratro. Noi puntiamo molto sulla campagna Grassroots for international protection (Movimento di base per una protezione internazionale) nata assieme al movimento antiapartheid a Durban, l’anno scorso. Da lì ci pare sia iniziata un ripensamento nell’opinione pubblica. A noi sta rafforzare i legami con i popoli, le organizzazioni di base, l’opinione democratica, anche negli USA.

L’ultima parola va riservata al personaggio più amato e seguito dai palestinesi e più temuto da Israele, il quarantenne leader dell’Intifada Marwan Barghuti, che così risponde a una mia domanda sulle contraddizioni passate e sull’intesa attuale tra USA e Israele. “Quelle contraddizioni non credo siano mai state di natura essenziale. C’è un’identità strategica di fondo che gli attentati in America hanno fatto emergere. Se prima gli USA davano appoggio a Israele, oggi, con Bush, c’è identificazione. È con Bush e con il suo rifiuto di incontrare Arafat che è iniziata la delegittimazione della leadership palestinese e il tentativo congiunto di distruggere militarmente l’Intifada e basta.È insieme che stanno mettendo a punto l’operazione espulsione dei palestinesi dai territori occupati, per lasciare piccoli residuati di popolazione inoffensiva sparsi qua e là. Naturalmente non ne ricaveranno né sicurezza, né stabilità. Neanche la prima grande espulsione del 1948, né quelle successive hanno mai avuto successo. Hanno solo diffuso focolai di resistenza e di mobilitazione politica. Noi siamo qui e qui resteremo per sempre. Isarele non potrà non rassegnarsi a vivere insieme a noi. La sicurezza di Israele dipende dall’Intifada. Oggi gli USA e Israele, dopo aver vittimizzato l’Afghanistan, puntano ad altre guerre, Iraq, Libia, Somalia. Ma questa politica incontrerà crescente opposizione, più intifade. Fra un paio di anni dovranno rinunciarvi perché i regimi arabi rischieranno il collasso per colpa loro. La questione palestinese determina la stabilità in tutta la regione araba e musulmana.
Tornando alle contraddizioni, sì, c’erano e ancora ci sono se si guarda agli interessi di certi gruppi economici. Ma oggi decidono Bush e i suoi e anche le differenze tattiche vengono superate dal disegno strategico militarista. Tutto questo va a discapito della stabilità delle regioni a ricchezza energetica, dell’economia europea e, in definitiva, dell’imperialismo. La nostra risposta non può che essere l’Intifada, anche per correggere quel dato che vede l’87% della nostra popolazione esprimere comprensione per gli attacchi suicidi in seguito alla delusione e all’isolamento, alla mancanza di una via d’uscita venuti da Oslo e dopo. Fino al 1993 i coloni erano 60.000. Durante gli accordi di Oslo sono aumentati a 123.000, il che ci ha costretti a un cambiamento di strategia che verrà certificato dalla dichiarazione comune a cui stiamo lavorando. Intanto siamo riusciti a convincere Hamas e la Jihad a smetterla con gli attacchi suicidi. Ieri, però, sono stati uccisi sei palestinesi a Gaza, tre dei quali inermi e minorenni, colpiti , mutilati e lasciati lì a morire, impedendo alle ambulanze palestinesi di avvicinarsi. Si può capire quanto questo renda difficile il nostro compito. C’è poi la questione dell’Autorità Nazionale Palestinese, il similgoverno instaurato a Oslo. L’ANP deve accettare la nostra carta comune, deve accettare un processo di democratizzazione, deve cessare di violare le nostre leggi sotto pressione americana, europea e israeliana. Non ci piacciono gli arresti arbitrari. Comunque sia, l’Intifada deve continuare, sia con azioni pacifiche di massa, sia con la lotta armata contro obiettivi e personale militari. Ne va anche del morale del nostro popolo il quale deve sapere che, qualunque cosa facciano gli altri, questa per noi è l’ultima volta.