Intervista a Mario Geymonat

Nato a Torino nel 1941, Mario Geymonat ha insegnato Letteratura Latina all’Università Ca’ Foscari di Venezia fino all’autunno del 2008: prima che in Laguna è stato professore di Grammatica greca e latina, Letteratura Latina e Filologia Classica nelle Università di Milano, della Calabria, di Siena. È autore di importanti edizioni critiche, in particolare del poeta Virgilio (la prima fu pubblicata da Paravia a Torino nel 1973, la seconda, rinnovata e ampliata, dalle Edizioni di Storia e Letteratura a Roma nel 2008). Ha scritto numerosi saggi critici su riviste italiane e straniere. Fin da giovane, per influenza del padre Ludovico, uno dei maggiori epistemologi del secolo scorso, si è occupato anche di storia della scienza antica: ha edito fra l’altro il palinsesto veronese della traduzione latina degli Elementi di Euclide e da ultimo l’ affascinante biografia di uno degli scienziati più originali della storia, “Il Grande Archimede” (Roma, Sandro Teti Editore, 2006, terza edizione 2008). Il volume è stato insignito del Premio Corrado Alvaro e si può leggere oggi anche in inglese (Baylor UniversityPress).

D: Sei stato uno dei cento, tra intellettuali, quadri operai , dirigenti politici e sindacali, artisti, che il 17 aprile del 2008 firmarono l’ormai famoso Appello per l’unità dei comunisti. Un Appello assunto dall’ultimo Congresso Nazionale del PdCI, a Salsomaggiore; che ha segnato l’ultimo Congresso Nazionale del PRC, a Chianciano; che è entrato prepotentemente nel dibattito politico generale tra i comunisti in Italia e si è “fissato nella testa di migliaia e migliaia di compagni e compagne come una bandiera”.
A due anni di distanza da quella tua adesione, consideri ancora l’Appello valido e attuale ?

R: Considero quell’Appello – se fosse possibile – ancor più valido e attuale di quando fu pubblicato e divulgato. E ciò in virtù di alcune, semplici considerazioni: la prima è che di fronte allo strapotere e alla pericolosità politica e sociale della destra italiana, antioperaia, razzista ed eversiva, ogni divisione a sinistra viene percepita dai lavoratori, dal nostro blocco sociale di riferimento, dalla “classe”, dal nostro elettorato reale e potenziale come un’ulteriore concessione a Berlusconi, una nostra genuflessione e sconfitta. La divisione a sinistra – di fronte alla forza e all’aggressività del grande capitale e della destra politica – viene vissuta come elemento di sconforto e di ulteriore allontanamento da un reale cambiamento politico e dalla trasformazione sociale in senso progressista. La divisione tra comunisti non fa eccezione; essa è anzi vissuta – proprio per la cultura storica dell’unità che ha sempre contraddistinto i comunisti – in maniera ancor più desolante della stessa unità a sinistra. La seconda considerazione – strettamente consequenziale alla prima – è che, di fronte alla crisi del movimento comunista italiano, il permanere di due piccoli partiti comunisti divisi è fonte di sconcerto all’interno di ciò che è rimasto del “popolo” e dell’elettorato comunista: la divisione in due esangui partitini, vissuta “alla base” come insensata ed incomprensibile, accelera e moltiplica essa stessa la crisi del movimento comunista italiano. La terza considerazione è data dal fatto che la mancata unità tra i due partiti comunisti cancella la possibilità di avviare un processo catalizzatore di recupero unitario della ampia diaspora comunista, impedendo cioè di riaggregare soggettività e forze oggi disperse, esterne sia al PRC che al PdCI, cancellando, di conseguenza, la possibilità di rimettere in campo passioni, militanza e nuove speranze. Aggiungo che se l’Appello all’unità dei comunisti è oggi più che mai attuale sul piano politico, esso lo è anche sul piano delle esigenze teoriche. Mi spiego: è chiaro che il partito comunista unito dovrebbe avviare una vasta, libera e profonda ricerca teorica, culturale, al fine di mettere in campo una forza all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe, e ciò attraverso un grande tentativo di coinvolgimento popolare; un inveramento del profilo teorico nelle lotte, nel conflitto sociale e di classe, nel rapporto di massa. E tale obiettivo – già di per sé arduo – sarà possibile quanto più spessa sarà la massa critica che i comunisti metteranno in campo: sta qui il nesso – dal mio punto di vista – tra l’esigenza politica e sociale dell’unità dei comunisti e quella, imprescindibile, della ridefinizione di un progetto politico-teorico complessivo adeguato a questa fase, né nostalgico né liquidazionista, ma profondamente innovatore.

D: Perché, a tuo avviso, la maggioranza del PRC – a cominciare dal suo segretario, compagno Paolo Ferrero – ha respinto la proposta dell’unità dei comunisti?

R: Guarda: come Paolo Ferrero, anch’io sono di lontane origini valdesi, per parte mia non sono però religioso, e mi limito ad assegnare ai valdesi il mio 8/1000). Conoscere la cultura valdese mi aiuta, forse, a decodificare il comportamento di Ferrero: nel suo essere valdese, credo, vi è anche un’ostinata pulsione alla totalità culturale e al comando, a segnare di sé il mondo circostante, a leggerlo in una propria maniera specifica e assoluta. Tutto ciò non aiuta di certo ad unire, per il semplice fatto che per unire occorre tralasciare qualcosa di sé, capire l’altro da sé, capire l’importanza e la necessità dell’abbandonare qualcosa di sé per costituire il meglio assieme all’altro, agli altri. E’ difficile, in queste condizioni specificamente culturali, praticare subito l’unità dei comunisti. La cultura valdese è ammirevole sul piano etico e Paolo Ferrero è certamente di forte tempra morale e civile: tuttavia credo di poter dire che i valdesi sono troppo convinti di avere un rapporto privilegiato con Dio e ciò li spinge a sentirsi “centrali”, a percepirsi cardini insostituibili, nella religione come anche nella politica. Ciò che risulta, alla fine, è che Ferrero – e con lui la maggioranza del PRC – si siano sentiti e si sentano il perno essenziale del “soggetto comunista” italiano, soggetto a sé bastante, al quale sarebbe non solo inutile, ma persino sbagliato aggiungere qualche forza di diversa origine. No all’unità dei comunisti, insomma, perché il nostro Dio è a noi sufficiente: è un modo, scusate, per leggere in controluce e nel profondo il rifiuto di Ferrero all’unità dei comunisti. Ma sono convinto che, se le nostre idee sapranno ottenere il giusto credito dai lavoratori e dai quadri rivoluzionari del paese, anche Ferrero saprà comprendere e partecipare attivamente al processo unitario e alla lotta comune.

D: Non credi, tuttavia, che vi sia anche dell’altro nel “gran rifiuto”, e ciòè il fatto che la maggioranza del PRC – non a caso in tanta parte, ancora, di provenienza bertinottiana – si sia convinta che Rifondazione Comunista abbia avviato un profondo percorso di trasformazione politico- culturale (dal proprio punto di vista fortemente e positivamente innovativo, ma che in verità ha ricollocato Rifondazione su di un terreno politico e culturale ambiguo, per molti versi più distante dalla cultura comunista) che l’ha portata lontana dal PdCI, ritenuto da una parte significativa del PRC una forza un po’ “trinariciuta”, con la quale sarebbe impossibile unirsi davvero?

R: In effetti tutto questo vi è stato, ed è stato grave: la spinta bertinottiana non è stata di certo neutra ed ha allontanato da una effettiva posizione comunista. Al di là di superficiali caricature, ciò che oggi possiamo dire è che il PdCI somigli di più – o tenti di somigliare – al vecchio PCI: i suoi quadri sono in buona parte di origine operaia e i suoi dirigenti – nazionali e locali – sono in evidente continuità politica e culturale con i gruppi che guidarono il PCI negli anni migliori, pregi e difetti inclusi. Per parte sua Rifondazione Comunista appare un partito di natura più libertaria, movimentista,“ genovese”: io giudico tutto ciò – al contrario di altri, soprattutto interni al PRC – davvero interessante, poiché le attuali differenze tra PRC e PdCI, nonché essere assunte come differenze antitetiche – dovrebbero essere valori e ricchezze da portare a una sintesi alta, nell’obiettivo di costruire una forza adatta ai tempi che viviamo, un comunismo contemporaneo e rivoluzionario. Certo, ciò che occorre per costruire la sintesi è una forte volontà, priva di pregiudizi e segnata dall’esigenza suprema di accumulare le forze, creare passione, sollecitare militanza, spingere alla lotta nella consapevolezza che il partito comunista, sia sul piano della sua sostanza politica che della sua essenza culturale, lo si costruisce ricollocandolo nelle piazze, davanti e dentro alle fabbriche e alle scuole. Una delle questioni di fondo sempre poste da Sebastiano Timpanaro, con cui la mia esperienza di vita ha tanto in comune, è stata l’assoluta esigenza dell’unità; “la disunità crea sfiducia” – mi diceva con convinzione – e chi non comprende questo, anche sul fronte comunista, è destinato alla sconfitta. Uno dei prodotti tipici del berlusconismo di questi vent’anni è stata la demonizzazione – a livello di massa – dell’immagine del comunismo, la paura delle sue idee, come se il comunismo si identificasse del tutto invece con la miseria e con i gulag. Guardate a che cosa ha portato tutto ciò: ogni istanza, ogni valore di sinistra rischia l’emarginazione e il ridicolo; ogni diga culturale, politica e morale sembra crollata; i giovani sono esposti ad una bruta egemonia culturale, e ciò che è accaduto in questi giorni al Festival di Sanremo, con la santificazione del “principe” Filiberto e la sua consacrazione a star con consenso di massa, dice, tristemente, più di molte analisi sociologiche o politiche. In questo quadro drammatico le questioni che vengono sollevate, da parte di alcuni, contro l’unità dei comunisti appaiono davvero di lana caprina. Detto ciò, io sono fiducioso: sono cioè convinto che alla fine la ragione prevarrà, e la ragione, non c’è dubbio, sta nelle stesse parole di Oliviero Diliberto, il quale sostiene che l’unità dei comunisti si farà perché essa è cosa di buon senso, fa parte della cultura profonda dei comunisti ed alberga nell’animo della stragrande maggioranza dei compagni e delle compagne del nostro Paese. Aggiungo che se riusciremo a farla sarà anche per merito dei compagni de l’ernesto, che per tale unità tanto si sono battuti e sono decisi a continuare a battersi.
Ma verso quale Partito Comunista dobbiamo andare? Per un Partito Comunista – direi – che innanzitutto recuperi la sua natura internazionalista, che riassuma quella concezione della totalità che non può prescindere da una visione internazionale delle contraddizioni e dei rapporti di forza, che sappia mettere a fuoco la natura delle forze – partitiche e statuali – che contribuiscono alla lotta antimperialista su scala mondiale; che recuperi anche il senso profondo delle relazioni ( senza che ciò significhi il ritorno ai tempi del Comintern) con le altre forze comuniste, antimperialiste e rivoluzionarie internazionali. Un Partito comunista che non faccia della presenza nelle istituzioni l’elemento prioritario del proprio agire politico, come è avvenuto e avviene per entrambi i partiti comunisti italiani, ma scelga il conflitto quale terreno privilegiato dell’organizzazione del proprio consenso sociale, politico ed elettorale. Un Partito Comunista che, conseguentemente, non articoli la propria organizzazione solo attraverso le sezioni territoriali, ma ricostruisca una propria organizzazione di base, di tipo leninista e gramsciano, direttamente nei luoghi di lavoro e di studio, dalle fabbriche all’Università, rilanciando, sia sul piano della teoria che della prassi, la “cellula” comunista nei luoghi della produzione (materiale ed immateriale) e del conflitto. Un Partito Comunista, inoltre, che rimetta al centro la questione della ridefinizione di un proprio profilo teorico rilanciando conseguentemente una vera politica di costruzione dei quadri.

D: Naturalmente, l’Appello per l’unità dei comunisti sottintendeva e sottintende l’esigenza sociale, politica, culturale del rilancio di un Partito Comunista più forte, nel nostro paese.
Condividi quest’assunto di base? E perché?

R: Certo non rinnego questa speranza, vorrei dire questa certezza. Non sarà facile, nella difficile situazione in cui viviamo, con le forze reazionarie ora scatenate non solo contro gli ideali comunisti, ma addirittura contro l’antifascismo e la Resistenza. Ma dobbiamo avere fiducia e coraggio: mi diceva mio padre che i comunisti alla FIAT nei primi anni della seconda guerra mondiale erano poche decine, ma essi riuscirono ad organizzare i grandi scioperi del marzo 43, che scossero dalle fondamenta il potere mussoliniano e diedero vita alla grande forza comunista che proprio alla FIAT seppe guidare le lotte anche nei primi anni dopo la guerra. Ora la FIAT ha deciso per la cassa integrazione in tutti gli stabilimenti italiani, cerca di far pagare le sue difficoltà agli operai, ai proletari, di Torino e ancor più di Termini Imerese: il rilancio di un forte Partito Comunista si fa dunque più impellente, solo esso potrà guidare alla fine di questa fase politica, alla fine del berlusconismo più becero e ingannatore.

D: A differenza di altri Paesi ed aree del mondo, il movimento comunista italiano soffre, oggi, di una crisi profonda. Quali, a tuo avviso, le ragioni di fondo di tale crisi?

R: Intanto sono fiero di vedere diffondersi i nostri ideali, rafforzare i partiti comunisti in tante parti del mondo, non solo in Cina, Cuba o Vietnam, ma anche in Europa (a Cipro come in Germania, in Grecia come in Portogallo). Non è un caso che i comunisti facciano tanta paura alla reazione, e che in certi paesi (la Polonia, la Cechia, e non solo) si voglia formalmente proibire lo stesso uso della bandiera rossa o del simbolo della falce e martello, mettere al bando tutte le nostre organizzazioni. Qualcosa del genere si tenta e si tenterà di fare anche in Italia, non solo con la demonizzazione dei comunisti, ma con quella di ogni forza che magari elettoralmente chieda ed ottenga il nostro appoggio. Io tuttavia sono convinto che la repressione crea resistenza e rivoluzione, e questi tentativi non mi spaventano più di tanto, ci avvicinano a una lotta ancor più decisiva. Quanto ai motivi della crisi, forse la nostra stessa enorme forza passata, guidata da personaggi che pure oggi negano addirittura di “essere mai stati comunisti” (Veltroni, Fassino, lo stesso D’Alema), crea a questo punto una particolare sfiducia, un effettivo disorientamento (sento la tristezza dei vecchi compagni che non riescono a ritrovare la loro storia, non sono più capaci di parlare ai giovani, di cantare le nostre storiche belle canzoni). Riconoscere l’ampiezza della crisi è peraltro la premessa necessaria per il suo superamento, ed è ciò che su molti piani stiamo effettivamente e coraggiosamente facendo.

D: La fase politica italiana appare essere in fase tellurica. Il dominio berlusconiano, il suo sistema di potere, sembrano in crisi. Il grande capitale, la borghesia italiana, sembrano alla ricerca di un nuovo referente politico. Come giudichi questo passaggio? E, all’interno di esso, che compiti sono affidati ai comunisti e alla sinistra anticapitalista?

R: In effetti Berlusconi sembra decotto, e la grande borghesia, che ha utilizzato le sue capacità mediatiche contro le forze di sinistra e in particolare i comunisti, è alla ricerca di un nuovo leader, più presentabile anche all’estero: forse Fini, forse Casini, forse il pacioso Rutelli. Ma Berlusconi e la sua ghenga non accettano facilmente di tornare ai loro affari privati, e non mancano le contraddizioni, “vulcaniche” tu le chiami, proprio nel campo avversario. Tutto ciò potrebbe dare uno slancio particolare alle lotte dei comunisti, se sapremo ritrovare l’unità e la fiducia in noi stessi. Me lo auguro, ma debbo riconoscere che numerose contraddizioni e diffidenze si sono sviluppate in tutti questi anni, né mancano assurdi personalismi, che hanno negativamente segnato e segnano dirigenti nazionali usciti dal PdCI e dal PRC ed intellettuali di orientamento marxista e comunista che, spaccando il capello in sedici, di fatto non partecipano e non contribuiscono al lavoro per l’unità dei comunisti e per la costruzione del Partito Comunista.
Bisogna distinguere fra ciò che sarebbe necessario e ciò che sembra possibile: la scossa tellurica che presto dovrà affrontare la politica sarà comunque una grande occasione: approfittiamone con fiducia e con coraggio!

D: Per ultimo, ma non ultimo: lo sorso 19 dicembre, a Roma, anche con la tua adesione e presenza, è stata presentata pubblicamente l’Associazione politico-culturale “Marx XXI”. Quali sono i suoi compiti?

R: Non dubito che la Associazione “ MARX XXI” potrà avere una grande importanza. Lo studio e lo sviluppo della teoria sulla base dell’insegnamento dei classici deve affrontare situazioni profondamente innovative, sarà un momento imprescindibile dello sviluppo delle idee comuniste e potrà dare un serio contributo anche ad altre forze progressiste del mondo. Il confronto teorico è finora mancato quasi del tutto, ed appare a mio giudizio sempre più necessario e urgente: Marx e Lenin, e pure il nostro Gramsci, ci hanno lasciato una importante eredità, ma in una situazione così ampiamente rinnovata non possiamo certo limitarci ad una ripetizione pedissequa delle loro parole. Inoltre la Associazione “Marx XXI” potrà essere il necessario punto di incontro politico fra comunisti con o senza partito, dando una spinta decisiva al processo di unità e al rinnovamento politico e culturale della sinistra del nostro paese. Per parte mia sono deciso a dare tutto il contributo che mi sarà possibile al suo successo e alla sua costruzione e affermazione non solo al centro, ma in tutte le provincie italiane.