Intervento di Gianluigi Pegolo

La relazione del segretario ci ha prospettato una serie di obiettivi di natura sociale e politica, ma ha sostanzialmente eluso gli elementi critici della situazione.
Come ha detto il compagno Masella, in questa relazione non si è parlato dell’enorme calo di consensi subito dall’Unione e da Rifondazione Comunista, né del fatto che il 9 giugno Rifondazione – per difendere il suo ruolo di governo – è rimasta isolata dai movimenti.
Questi fatti dimostrano che non è vera la tesi, sostenuta dalla maggioranza al congresso di Venezia, secondo cui era possibile una sorta di “compromesso dinamico” con le componenti moderate dell’Unione.
Né, tantomeno, era credibile la teorizzazione di Bertinotti che presupponeva l’”alternativa” come esito di un percorso di “alternanza”.
Il fatto è che il moderatismo è un connotato essenziale di questa coalizione e i compromessi ottenibili non sono sufficienti a garantire il consenso sociale.

La vicenda delle pensioni a questo punto è emblematica.
Il ragionamento del compagno Zipponi, a tale proposito, a me pare ispirato ad una logica pan-sindacale, insufficiente rispetto alla portata delle questioni che ci stanno di fronte. Mi pare che il ragionamento sia il seguente: giacchè il prossimo anno scatterebbe comunque lo “scalone”, alcuni miglioramenti sarebbero preziosi. In sé la cosa è ragionevole, ma il punto è che noi siamo un partito che è parte integrante di una maggioranza di governo che alle elezioni promise di togliere lo “scalone”. Se l’accordo sarà inadeguato – e i rischi in tal senso sono del tutto evidenti – anche a prescindere dal pronunciamento maggioritario dei lavoratori consultati dal sindacato, resterà il fatto che il governo non rispetta i patti, che comunque allunga l’età pensionabile (anche se non a tutti i lavoratori), e lo fa indipendentemente dai bilanci in attivo dell’INPS o dall’evoluzione positiva del quadro macro-economico.

E i lavoratori lo penseranno a maggior ragione quando vedranno che, nonostante le lotte, Fincantieri verrà privatizzata, che la condizione del lavoro precario non verrà modificata, che le pensioni minime subiranno incrementi irrisori.
E lo penseranno anche quelle comunità locali solidali, di cui ci parlava il compagno Giordano, come espressioni di una positiva resistenza dal basso ai processi di globalizzazione, quando leggeranno l’elenco delle opere infrastrutturali contenute nell’allegato al DPEF.

Il compagno Gianni ha polemizzato con l’articolo di Brancaccio circa la propensione deflazionistica della politica economica del governo. Ma al compagno Gianni vorrei chiedere: come si può definire una politica economica che nel DPEF (di fronte ad una crescita media del Pil in Europa oggi al 2,6%) ipotizza nei prossimi anni, per il nostro paese, tassi di crescita di appena l’1,7 – 1, 9%? E lo prevede in virtù di una scelta che conferma il piano di abbattimento del debito e che fa intravedere la possibilità di una compressione della spesa sociale.

La questione di fondo sulla quale dovremo riflettere è – a questo punto -come e quando procedere ad una exit strategy da questo governo. Al contrario, a me pare che questo gruppo dirigente, in ossequio alla linea di Venezia, e malgrado reiterate assicurazioni a concepire la presenza al governo come “mezzo” e non come “fine”, in realtà non mette seriamente in discussione tale presenza per il fatto che questo significherebbe la crisi della linea espressa a Venezia, e perché – sull’onda di quella linea – è maturata la convinzione che la legittimazione di governo è, alla fin fine, l’unica carta per garantirsi una rappresentanza sociale.

So bene che alcuni considereranno queste affermazioni pretestuose, ma vi chiedo: cosa sono tutti questi plausi a Veltroni? Non alludono forse alla speranza che la nuova leadership garantisca una duratura alleanza col PD? E cosa sono le esternazioni di autorevoli ex dirigenti del nostro partito circa l’assenza di alternative a questo governo? E ancora, cos’è questa crescente propensione governista nei governi locali? Le provocazioni di Salvi sulle giunte regionali di Campania e Calabria sono poi così fuori luogo? Chiediamoci, compagni, in questi anni mentre eravamo in giunta con Bassolino in Campania, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare – e ne abbiamo tratto tutte le conclusioni conseguenti – per dare una soluzione al problema rifiuti?

Mi pare evidente che occorra una modifica nell’impostazione della nostra azione, rimettendo al centro i contenuti sociali. Ma è questa l’ispirazione che muove il gruppo dirigente nella costruzione della “cosa rossa”? O non è forse un calcolo tutto politicistico, basato sulla virtuali possibilità di coprire lo spazio lasciato vuoto dai DS in fase di scioglimento nel PD, eludendo completamente la questione dei contenuti?

Come si fa a parlare di nuovi soggetti politici senza affrontare un minimo ragionamento sui punti che ci dividono dalle altre forze? Si pensi al caso di Sinistra Democratica, ma il ragionamento si potrebbe estendere anche agli altri soggetti in procinto di dar vita alla “cosa rossa”. Sinistra Democratica non ha partecipato a nessuna delle manifestazioni del 9 giugno contro Bush. Perché?
Sinistra Democratica ha incontrato il PDCI sollecitandolo a neutralizzare l’azione di RC per arrivare ad un accordo con governo e sindacato in tema di pensioni. Non conta nulla. Sinistra Democratica rivendica la centralità del governo, noi no. E’ secondario per forze che dovrebbero dar vita ad un soggetto comune?
Sinistra Democratica vuole una forza nell’Internazionale Socialista. Ha dato il suo consenso alla Costituzione europea. Noi no. Cose irrilevanti?

Il fatto è che quest’aggregazione non ha un’anima. E’ un’operazione di ceti politici. Come a me pare sia stata quella che ha coinvolto i nostri gruppi dirigenti, con la contrapposizione – negli scorsi mesi – fra presunti sostenitori del partito” e “ liquidatori”.
Una contrapposizione evaporata nell’incontro di Segni, come oggi si dimostra con l’intervento del compagno Gianni che ha richiamato la nuova sintesi intervenuta nella maggioranza e che si sostanzia nella proposta di “un soggetto politico unitario e plurale”. Cari compagni della maggioranza se dovevate arrivare a questa formula per mettervi d’accordo, avreste certamente potuto farlo prima. Ci avreste risparmiato una querelle protrattasi per settimane.

Sulle liste uniche per le prossime amministrative avrei qualcosa da chiedere.
Ho sentito il Segretario reiterare le garanzie sul mantenimento di Rifondazione comunista. E ho anche sentito qualche applauso in sala.
Caro Franco, se vuoi sostenere davvero l’autonomia di Rifondazione Comunista non ci devi proporre per l’anno prossimo di presentarci alle elezioni comunali e provinciali con un nuovo simbolo e un nuovo nome.
E a maggior ragione non lo dovresti fare sapendo che sempre – quando abbiamo fatto simili operazioni – abbiamo perso una barcata di voti.
Perchè lo fai allora?

Concludo su una questione che mi sta molto a cuore. Come si fa a considerare il tema dell’identità come un orpello? Quando sento parlare di “nostalgie identitarie” mi vengono in mente argomenti analoghi sostenuti all’epoca dello scioglimento del PCI. Posso capirlo da parte di alcuni compagni, oggi in Sinistra Europea, che all’epoca furono protagonisti della svolta. O da Occhetto, oggi importante sponsor della “cosa rossa”. Non da dirigenti del nostro partito.

Pensare di mettere da parte il riferimento al comunismo per approdare al socialismo del XXI secolo, indorando la pillola con un’enfatica allusione all’innovazione della cultura politica, non fa venire meno i problemi che ci stanno di fronte.
A tale proposito, a me pare che se si vuole conservare nel nostro paese una forza dichiaratamente anticapitalistica ( e non semplicemente antiliberista) lo si debba fare partendo da Rifondazione Comunista per dar vita ad un più forte e radicato partito comunista e antagonista.
Perché “comunista” è certamente sinonimo di “anticapitalista”, mentre “cosa rossa”, “nuovo soggetto politico” o quant’altro non lo sono.

Ed anzi, già cominciamo a capire cosa si avvia a diventare la “cosa rossa”: una forza complementare al Partito Democratico, nella prospettiva dell’alternanza.
Ma questo sbocco non solo è inconciliabile – checché se ne dica – con Rifondazione Comunista, ma ne costituisce – di fatto – la negazione.