Ringrazio tutti i partecipanti a questa iniziativa, la rivista comunista “L’Ernesto” che l’ha promossa e i due circoli del PRC e del PdCI di Cento che ugualmente l’hanno voluta, come diceva Pino Bellanova nella sua bella apertura.
Ho pensato molto a come cominciare il mio intervento di stasera, che vorrebbe posare uno sguardo particolare sul momento politico e sulla crisi che attraversiamo.
Intanto vorrei dire che è la prima volta che facciamo una iniziativa insieme, in questa zona e in questa provincia. Credo si tratti di un evento importante, che può ridare speranza e fiducia a chi, in questi anni, non si è mai rassegnato alla divisione dei comunisti in tante piccole formazioni diverse e ha sempre cercato di lavorare perchè quelle divisioni trovassero un terreno di incontro e di superamento, fornendo un primo punto di partenza capace di riaggregare anche la enorme diaspora comunista, le centinaia di migliaia di uomini e donne – diversi dei quali vedo anche qui stasera – che hanno scelto nel tempo di lasciare i partiti, di andare altrove, di impegnarsi nel volontariato, nelle associazioni culturali, nel sindacato, nei centri anziani, nella cosiddetta “società civile” insomma, in attesa che ricomparisse all’orizzonte la possibilità di un soggetto politico comunista più rappresentativo e più efficace.
“L’Ernesto”, la rivista comunista che trovate anche in questa sala – della cui diffusione si occupa a Ferrara il nostro bravissimo Andrea Musacci, un giovane studente universitario molto impegnato nel movimento degli studenti (l’ONDA), che in forza di questo suo impegno è stato anche eletto membro del Consiglio degli Studenti dell’Università di Ferrara – “L’Ernesto”, dicevo, lavora da tempo in questa direzione e credo di poter dire che insieme a noi tutti, qui dentro, è particolarmente soddisfatto del fatto che sia per le elezioni europee che per quelle amministrative per il Comune e per la Provincia di Ferrara, abbiamo portato a casa il risultato di una lista unica, con un unico simbolo, un’unica falce e martello.
E’ soltanto un primo passo, naturalmente, perchè costruire una forza comunista unitaria è un lavoro di lungo respiro, che non si esaurisce certo nel momento elettorale.
Ma, intanto, è un primo passo, che finalmente va nella direzione giusta.
Non si tratta soltanto di un discorso, come dire?, di architettura politica; si tratta, secondo me, secondo noi, di un elemento essenziale per poter pensare, non solo in prospettiva, un futuro diverso e migliore per il nostro Paese, per le nostre provincie, per i nostri comuni, dentro lo scenario dell’Europa di cui facciamo parte e con cui dobbiamo fare i conti.
Si tratta, anche, di un passaggio essenziale per far sì che sia possibile affrontare la crisi terribile in cui ci troviamo con la capacità – che sempre i comunisti in Italia hanno avuto – di indirizzare l’uscita dalla crisi in una direzione che salvaguardi prima di tutto i soggetti essenziali per la tenuta, anche democratica, del nostro Paese, per il suo futuro sviluppo: i lavoratori e le lavoratrici, il mondo del lavoro ed il tessuto produttivo, cioè il mondo che produce la ricchezza vera, non parassitaria, che può trasformarsi in maggiore benessere e in maggiore equità per tutti/e.
C’è una parola che, insieme a “comunista”, in questi ultimi anni ha subìto un processo sempre più profondo di svuotamento, fino ad essere negata. E’ una parola antica, che in tanti hanno cercato di farci ritenere superata, teorizzando perfino la scomparsa del soggetto che essa rappresentava, ed è la parola “classe”. Esiste, oggi, ancora, la classe operaia? A giudicare dai dati dei licenziamenti, della cassa integrazione, delle forme contrattuali sempre più precarizzanti che trasformano in lavoro dipendente anche attività lavorative un tempo ritenute proprie del cosiddetto ceto medio, quindi in qualche modo autonome, si, la classe operaia esiste ancora. E’ fatta di uomini e donne, giovani e ragazze, che da un momento all’altro si ritrovano senza lavoro, con un sussidio di cassa integrazione e di disoccupazione a termine; spesso, e soprattutto per i più giovani, ma anche per i cosiddetti lavoratori “a partita IVA” che a 40-50 anni si ritrovano a spasso, non c’è nemmeno un sussidio. Se poi il lavoratore, la lavoratrice è un/a immigrato/a, non importa se di prima, seconda o terza generazione, anche la sua permanenza sul territorio è oggi messa a rischio.
Cento conosce questa parte della storia. Lo diceva Pino Bellanova in apertura, lo leggiamo sui giornali quasi quotidianamente: è soltanto di qualche giorno fa la notizia della messa in cassa integrazione di tutti i dipendenti di un’altra delle fabbriche locali. Anche qui, in quello che una volta era il cuore ricco della provincia di Ferrara, la crisi ha colpito e colpisce in profondità.
Colpisce in profondità, ma non colpisce tutti allo stesso modo.
Ho detto dei ragazzi co-co-co e degli adulti a partita IVA, ho detto dei lavoratori migranti per i quali interverrà dopo Dominic, ma c’è un altro soggetto di cui pochissimo, quasi per nulla, la politica attuale parla, nemmeno quella interpretata dalle cosiddette forze moderate, compreso il PD.
Il 60 per cento dei disoccupati e dei cassintegrati sono donne.
La stragrande maggioranza dei giovani precari costretti a tornare a fare – per dirla con Berlusconi o con qualcuno dei suoi ascari – i “bamboccioni” , sono ragazze.
Il lavoro “sommerso”, che in realtà tutti, anche chi dovrebbe combatterlo, abbiamo sotto gli occhi, il lavoro “nero”, ha un altissimo tasso di femminilizzazione, di cui le badanti sono oggi la punta più evidente. Donne migranti, i cui servizi sono essenziali per le nostre famiglie, per i nostri anziani e per i nostri bambini che non trovano più strutture, servizi pubblici a cui accedere nel momento del bisogno, o anche per esercitare una scelta, perchè crescere un figlio utilizzando asili nido e scuole materne può essere anche una scelta che dice – come il movimento delle donne ci ha insegnato (qualcuno forse ricorda lo slogan dell’UDI: “il diritto allo studio comincia a tre anni”) – di un’altra idea della crescita. Donne che sostituiscono il welfare, che l’Italia – uno dei paesi nel gruppo di testa dei paesi più industrializzati e ricchi in Europa e nel mondo – non garantisce più ai suoi cittadini e alle sue cittadine.
Se leggo bene intenzioni di questo governo per il contratto dei braccianti, con la proposta di voucher che andrebbe a sostituire la copertura previdenziale e salariale dei periodi di inattività, nel lavoro sommerso e nero ci ritroveremo le 300.000 donne braccianti che questo provvedimento ricaccerebbe nel lavoro precario senza tutele.
Ho cercato, senza riuscire a trovarli, i dati sugli infortuni e le morti sul lavoro di donne in questo ultimo anno. A memoria ricordo un dato mi pare riferito al 2008, che parla di circa un terzo degli incidenti sul lavoro che hanno come vittima una donna. E’ una percentuale altissima, perchè l’occupazione delle donne è in molte parti del Paese molto al di sotto di questa soglia. Ho riflettuto sulla difficoltà di trovare velocemente questi dati scorporati per genere e mi sono detta che uno dei problemi che ha questo Paese è il fatto che delle donne si parla ormai quasi soltanto quando vengono violentate e uccise durante uno stupro, meglio se a stuprare e a uccidere è un non nativo, un uomo migrante da additare come il peggiore dei mali, pur sapendo benissimo – perchè ormai lo abbiamo detto in tutte le lingue – che se è vero che la prima causa di morte delle donne nel mondo e anche in Occidente, Italia compresa, è la violenza maschile, nell’80 per cento dei casi l’uomo violento è un parente, un vicino, un famigliare, un marito, un padre, un fratello. Anche su questo dobbiamo tenere aperta la nostra agenda politica, perchè il modo in cui si fa informazione sulle donne, siano lavoratrici vittime di incidenti sul lavoro quindi dello sfruttamento di classe, siano donne vittime di violenza maschile, quindi dello sfruttamento di sesso, è dirimente rispetto alla possibilità che abbiamo di comprendere i fenomeni e di intervenire per modificarli.
Nemmeno nel lavoro dipendente non operaio la crisi colpisce allo stesso modo.
I tagli della Gelmini alla scuola cadono come una scure su un settore ad alto tasso di occupazione femminile: gli insegnanti, ma anche il personale ausiliario della scuola di ogni ordine e grado sono costituiti per lo più da donne. Che dal prossimo anno scolastico saranno perdenti posto, ricacciate dal precariato, penalizzate tra i primi non solo dai tagli alle risorse per la scuola pubblica, ma anche dalla norma, emanata di recente, che prevede di mettere in coda alle graduatorie chi, per un motivo o per l’altro, chiede di andare ad insegnare in una provincia diversa da quella in cui si trova. Chi, se non le donne, si sposta per esempio per matrimonio? Chi, se non una donna, da noi come tra i popoli migranti, si sposta per dare una chance al proprio desiderio di indipendenza e di libertà, o per dare una chance ai propri figli, alla propria famiglia?
La metto su questo piano e non vado oltre, perchè altrimenti dovrei dire che, sì, il muro di Berlino è caduto, ma quello che è stato eretto per separare Israele dalla Palestina non è l’unico muro ad essere risorto. Qui, da noi, una ministra che per avere qualche possibilità di superare l’esame di Stato si è spostata in Calabria, costruisce norme che creano nuovi muri simbolici, apartheid mascherati, che ci riportano a quell’antico proverbio che tutti/e conosciamo e che recita: donne e buoi dei paesi tuoi…
Bene, siccome a me, a noi, non sta affatto bene che le donne tornino ad essere equiparate ai buoi, credo dobbiamo dire, come comunisti e come comuniste, una parola chiara. Dobbiamo dire NO a tutto questo, e tradurre questo no in proposte politiche concrete, per i nostri comuni, per la nostra provincia, fino all’Europa.
Dobbiamo dire per esempio, e a voce alta, che per le donne, come per gli uomini, occorre pensare e costruire concrete possibilità di rientro nel mondo del lavoro produttivo da cui ora sono cacciate. Questo significa non pensare automaticamente, come ho sentito dire anche in ambienti insospettabili, che è inutile chiedere di azzerare le rette di asili nido, scuole materne, centri estivi ed altri servizi per i bambini delle donne che tornano ad essere inoccupate, perchè, tanto, la prima cosa che una donna fa se perde il lavoro è portarsi a casa i bambini.
Rinchiuderla in questa prospettiva significa escluderla dal mondo del lavoro forse per sempre.
Significa, per i suoi bambini, venire penalizzati sul piano della crescita in un ambiente socializzante e culturalmente preparato.
Significa, per ogni singola donna, una perdita secca di libertà e di autonomia, perchè l’indipendenza economica non è di per sé sufficiente, ma resta una buona leva, come le emancipazioniste ci hanno insegnato, per garantire percorsi di libertà femminile.
Significa, per il movimento operaio, per la classe, per il sindacato, per i comunisti, perdere un soggetto di lotta.
Perchè una donna rinchiusa tra le mura di casa, ricacciata nel suo ruolo, è una donna ricacciata nell’isolamento e persa alla lotta.
Significa rassegnarsi al fatto che questo mondo non potrà mai cambiare nel senso di una maggiore e più equa giustizia sociale e di una maggiore e più equa giustizia fra i sessi.
In una zona come Cento, che ha inserito tra le prime le donne nelle fabbriche metalmeccaniche negli anni ’70, questa sarebbe una doppia sconfitta.
Vedete, e mi avvio a concludere, ho ripreso in mano in questi giorni un libro a cui ho lavorato diversi anni fa, che con l’ Udi e il Gruppo femminista ONDA (si chiamava come il movimento degli studenti oggi) abbiamo pubblicato per la Franco Angeli. Raccoglie i risultati di una ricerca su donne e mercato del lavoro in provincia di Ferrara e si intitola Foemina Faber, vale a dire la donna capace di costruire le cose,come il più noto Homo faber che segnò il passaggio della specie umana dalla preistoria alla storia. In questo libro, una operaia centese raccontava l’orgoglio, ma anche le difficoltà, la fatica, le lotte quotidiane con l’organizzazione della fabbrica e anche con gli operai maschi, per dimostrare che lei, più debole fisicamente, più piccola, più esile, riusciva a fare le “forcelle” per le auto come e meglio dell’operaio che aveva accanto. E raccontava che non solo quell’operaio era di quarto livello mentre lei rimaneva di terzo, ma che alla prima “stretta” di crisi il padrone aveva messo lei in cassa integrazione, nonostante lavorasse come e meglio di un uomo.
Oggi quella fabbrica non c’è più, non c’è più lavoro per uomini e donne e come in un aberrante gioco dell’oca ci tocca ricominciare daccapo, ricominciare a lottare per il diritto al lavoro, non più e solo per uguali diritti sul lavoro.
Anche per questo abbiamo bisogno di una forza comunista vera, grande, efficace.
Abbiamo bisogno di mandare i nostri uomini e le nostre donne in Europa, dove si decidono le direttive che poi qui Berlusconi puntualmente applica, come quella per portare a 65 anni l’età pensionabile per le donne, che cancella con un semplice tratto di penna tutte le elaborazioni dei movimenti delle donne sul doppio lavoro e sul riconoscimento del lavoro familiare (una volta si diceva casalingo) non pagato, che esse continuano a fare, e che produce ricchezza quanto quello produttivo.
Dobbiamo eleggere comunisti e comuniste in Europa e poi negli Enti locali, nei comuni dove si vota e in Provincia, perché le formazioni della cosiddetta sinistra moderata, nemmeno quelle che si sperimentano per ora nel solo comune capoluogo sotto il nome di “Sinistra aperta” (coniugazione ferrarese della vendoliana “Sinistra e libertà”), non ci garantiscono di tenere il punto su queste come su altre questioni.
L’unità dei comunisti ci serve anche per questo e per costruire una sinistra vera, senza aggettivi.
Se fossi io a poter scegliere lo slogan dei comunisti in questa campagna elettorale, sceglierei proprio questo: “Comunisti/e. La sinistra senza aggettivi”.