Intervento al CPN del 10/11 maggio di Roberto Sconciaforni

Ad un mese dal voto colpisce come la maggioranza del gruppo dirigente nazionale tenda a eludere una discussione serrata sulla causa principale che ci ha portato al disastroso risultato del 13/14 aprile. Ci si accontenta di uno sterile elenco della spesa, in cui vengono allineate la logica del voto utile contro la destra (nonostante sia ormai emerso il consistente voto operaio del nord verso la Lega e il voto ad Alemanno nei quartieri proletari di Roma), lo scarso radicamento (dimenticando che nelle stesse condizioni alle elezioni politiche del 2006 avemmo ben altro consenso) e, in ultimo, i deludenti risultati ottenuti con la nostra presenza al governo. In realtà siamo di fronte a una vera e propria reticenza nell’ individuare come causa principale della sconfitta elettorale il totale fallimento del congresso di Venezia. Un fallimento tattico che sta nell’aver teorizzato sia lo spostamento a sinistra dell’allora DS-Margherita, oggi PD, sia la permeabilità del governo Prodi alle istanze dei movimenti, cui seguì l’autoproclamazione suicida del Partito a “sentinella” del governo, con conseguente approvazione di tutte le disastrose scelte dell’esecutivo Prodi (dall’Afghanistan al protocollo sul welfare). Ma c’è anche un fallimento strategico, perché Venezia è stato l’approdo e il rilancio di quella “innovazione” voluta da tutto il gruppo dirigente bertinottiano, ben compatto, che come una furia si è abbattuta sul nostro Partito, e che ci ha portati, tra una mossa del cavallo e l’altra, a essere zapatisti e disobbedienti prima e governisti, per l’alternanza, poi. Allontanandoci dai luoghi di lavoro, smantellando i circoli, e vivendo sempre più la forma Partito e il progetto comunista come un ferrovecchio novecentesco, da superare e liquidare prima nella Sinistra Europea, e poi, finalmente raccolta la disponibilità di Mussi, nella Sinistra Arcobaleno. Anche oggi, ragionando su come uscire dalla crisi, emerge come le proposte di Vendola e Ferrero non siano affatto alternative, e anche sul futuro del PRC si differenziano solo per una diversa modulazione nei tempi e nei modi della stessa prospettiva: costruire un nuovo soggetto unitario e plurale, non comunista, della sinistra. Ritengo, invece,che l’unico modo per salvare il PRC sia renderlo protagonista attivo di un processo di convergenza di tutti i comunisti, oggi diversamente collocati, in un Partito Comunista più grande e più forte, capace di connettersi e promuovere movimenti e conflitto sociale e di dare risposte e voce alle forme vecchie e nuove di alienazione, emarginazione, sfruttamento. Un partito capace di attrezzarsi per una lunga stagione di lotte e opposizione a tutte le politiche di guerra e liberiste sia che vengano dalla destra del governo Berlusconi sia che vengano dal PD. Questo processo di unità e autonomia dei comunisti in Italia coinvolgendo tutte le soggettività politiche, sociali, individuali disponibili, senza settarismi o forme di autoreferenzialità, è l’unica strada per mantenere vivo e non marginale un progetto anticapitalista nel nostro paese.